Giovanna (Raffaella Giordano) gestisce una masseria che l’espansione urbana ha fatto diventare parte della periferia di Napoli. Lei e i suoi collaboratori sono educatori: i bambini della vicina scuola elementare passano ogni giorno qualche ora con loro, giocando in un ambiente protetto dalla realtà degradata che li circonda. Giovanna non vuole solo proteggere i bambini, ma educarli a un modo diverso di vivere nel mondo. Leonardo Di Costanzo, regista de L’intrusa, ci fa capire subito qual è il progetto – pedagogico, ma soprattutto politico – della protagonista, mostrando prima dell’inizio del film un disegno (o un murales): è l’immagine di un’abitazione. Come se non ci fosse soluzione di continuità tra questa immagine e il film, ci ritroviamo poi immersi tra adulti e bambini che costruiscono grandi uccelli di cartapesta e uomini meccanici che conducono quadricicli. Giovanna non fa solo giocare i bambini: li educa a quella che con termine greco potremmo chiamare poiesis. Per Heidegger la poiesis non è “poesia”, ma capacità di produrre qualcosa, di portarlo alla presenza. Accanto alla physis (la natura) la poiesis svolge il compito di dare forma alle cose, rendendo il mondo un luogo abitabile e familiare. Giovanna, dunque, non fa giocare i bambini, ma mostra loro che il mondo può essere abitato a patto di (ri)costruirlo insieme.

Giunge una minaccia: è Maria (Valentina Vannino), la moglie del capo camorrista locale, ora latitante dopo aver ucciso per errore un innocente durante un regolamento di conti. Lei è l’intrusa. Come nelle tradizioni antiche, la polis di Giovanna contempla uno spazio per dare asilo ai fuggiaschi: Maria si sistema nel casotto della masseria con la figlia Rita (la piccola Martina Abbate) e un altro figlio neonato. Nasconde in realtà il marito, che viene però scoperto e arrestato. Giovanna deve ora spiegare – all’amico commissario e prima di tutto alla comunità del quartiere – che lei era all’oscuro di tutto. Poi deve fare i conti con la decisione della donna di restare a vivere lì e rifiutare gli inviti della suocera che la rivuole a casa. Ma anche con il rifiuto: tutti – collaboratori, docenti, genitori – vogliono che Maria sia cacciata perché costituisce un pericolo per la comunità.

Siamo di fronte a una tragedia: si tratta anzi quasi di una rilettura dell’Antigone sofoclea, come ce ne sono state, drammaturgiche e filosofiche. Si pensi allo spazio: quasi l’intero film si svolge nel cortile della masseria, che non è solo l’agorà dove si riunisce la cittadinanza coltivata da Giovanna, ma anche la scena della rappresentazione e prima ancora il luogo di un rito sacro. Questo modo di rendere lo spazio fa pensare all’adattamento dell’Antigone tradotta da Hölderlin, realizzato da Straub e Huillet (1992) a partire dalla messa in scena di Brecht: c’è la stessa tensione tra il quadrilatero dove si svolge l’azione e la posizione distanziata del re Creonte. Hypsipolis-apolis direbbe Heidegger riprendendo il primo stasimo della tragedia: contemporaneamente “dall’alto il luogo dominando” e “dal luogo escluso” (Introduzione alla metafisica, p. 156). Va notato che da questo spazio drammaturgico-politico esce solo Giovanna, un “re” della polis che al contrario del Creonte sofocleo vorrebbe includere tutti, anche i nemici. Altro elemento tragico è il ritmo. La tragedia, sostiene Hölderlin, si costruisce attorno a un evento di cesura: se la cesura è all’inizio come nell’Antigone, il resto dell’azione procede gradualmente verso la catastrofe. I fatti che portano all’opposizione tra Giovanna e la comunità sono condensati all’inizio del film: il resto è il progressivo precipitare degli eventi incidente dopo incidente, dall’apparizione della famiglia camorrista alla lite di Rita con un altro bambino.

C’è un elemento di assoluta originalità ne L’intrusa a leggerla come “riscrittura” cinematografica dell’Antigone sofoclea. Maria è senza dubbio Antigone, la donna che in nome delle “leggi non scritte” della pietà familiare chiede alla polis di accogliere perfino i nemici. A sua volta Giovanna, capo di questa città, non è Creonte, il re che impone il divieto all’accoglienza dei nemici (morti o vivi). Anche lei è Antigone, per cui non vale la pena costruire uno spazio comune se questo non è capace di accogliere anche gli “intrusi”. Al di là di ogni visione tranquillizzante Giovanna vive dentro di sé il conflitto tragico, perché la sua non è una missione etica ma profondamente politica: ricostruire il mondo che ha trovato. E poiché la legge fondamentale che regola la sua politica è quella di costruire per vivere insieme, incontra un limite invalicabile quando si rivolge a chi agisce distruggendo ogni possibile vita comune; eppure sono loro gli autentici “intrusi”. Di qui il paradosso: “l’intrusa” era da sempre nello spirito della polis; questa però, per sopravvivere, esclude di principio coloro che restano estranei a questo spirito.

Una tragedia non può avere conclusione: occorre trovare una fine che tenga aperta la tensione tra le parti e lasci apparire l’inabissarsi dopo la catastrofe come il vero protagonista della rappresentazione tragica. Hegel scrive che l’Antigone non può che finire zugrunde, “a fondo” (Fenomenologia dello spirito, p. 35). Per L’intrusa Di Costanzo sceglie una fine tragica nel senso appena detto. Non c’è soluzione al conflitto tra Giovanna – l’Antigone sovrana che ospita nella sua città Maria, l’Antigone fuggiasca – e il suo popolo. Accade semplicemente che l’intrusa scompare all’improvviso. Maria (l’Antigone fuggiasca) si sostituisce a Giovanna (l’Antigone sovrana) nel prendere la decisione: la polis che Giovanna ha costruito non sopravvivrebbe alla presenza di Maria, sebbene sia stata fondata con il proposito di accogliere proprio gli “intrusi”. A questo punto la vita può riprendere: nella masseria tornano i bambini. Genitori e insegnanti sono soddisfatti: si può celebrare la festa già sospesa.

La festa, cui alla fine si unisce anche Giovanna, non è solo la celebrazione della (auto)esclusione dell’intrusa dalla comunità, ma è anche la regressione della masseria da scena della rappresentazione tragica e spazio della contesa politica a luogo del sacrificio necessario per il mantenimento dell’ordine nella comunità. Questo passaggio sembra avere una valenza simbolica: è l’Italia che, alla ricerca dei modi di ricostruire un patto sociale, sta regredendo verso forme di esclusione, più o meno giustificate? Parrebbe apparire qui la mano del documentarista, posto che la definizione abbia un senso, il quale non perde di vista l’esigenza di raccontare la realtà che lo circonda.

Altro elemento, collegato al precedente, è il linguaggio. In un film che segna una pausa dal lavoro documentaristico, Di Costanzo sceglie di praticare un “cinema impuro” nel senso più alto. Il film vive di una riscrittura, tanto raffinata quanto sotterraneamente tesa, tra diverse drammaturgie: finzione, documentario, tragedia, rito. Sotto questo profilo L’intrusa potrebbe candidarsi a fare da modello per un nuovo filone della cinematografia italiana contemporanea: il film infatti, come ho cercato di mostrare, richiama altre forme della rappresentazione non allo scopo di fare un “teatro filmato”, ma perché questa è una delle strategie tipiche che il cinema ha di mettere a punto i suoi linguaggi. In Di Costanzo – il quale non a caso da documentarista ha sempre mostrato grande attenzione per l’innovazione delle forme – risulta centrale il problema di ridare voce a un reale che è di per sé praxis, azione, e non semplice fenomeno da ossevare con distacco: è attorno a questo nucleo teorico che va letta la scelta di continuare nel filone della finzione, rafforzandone però il tratto “impuro”. Quasi a evitare il rischio che il cinema documentario si riduca a una collezione di ricognizioni del reale e rinunci a restituirne una lettura in profondità. Tutto il cinema è in questo senso documentario, tutto il cinema è per le stesse ragioni rappresentazione del mondo che lascia intravedere i suoi debiti e la sua eredità futura.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Per un cinema impuro, in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 2014, pp. 119-142. 

G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. 2, La Nuova Italia, Firenze 1973. 
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1966. 
P. Montani, a cura di, Antigone e la filosofia, Donzelli, Roma 2017.

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