L’immagine richiama il sensibile, ma il sensibile implica il corpo, il corpo si agita con gesti,
i gesti veicolano emozioni, le emozioni sono inseparabili dall’inconscio,
e l’inconscio stesso presuppone un intreccio di tempi psichici,
di modo che è tutta la modellizzazione del tempo e della storia,
inclusa quella politica, che una sola immagine può rimettere in gioco e in questione
G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta

Con Amor, la regista romana Virginia Eleuteri Serpieri si è aggiudicata l’UnArchive Award, nell’ambito del festival dedicato al riuso creativo delle immagini d’archivio. Proprio dall’intreccio tra cinema sperimentale e found footage si sviluppa Amor, facendo di tale precarietà epistemologica la base della propria ricerca, laddove esperienze estetiche prossime alla videoarte si combinano in modo esemplare e insolito alle immagini provenienti da fonti eterogenee: Eleuteri Serpieri utilizza archivi privati e dell’Istituto Luce, disegni di Piranesi e dipinti di Bellini, illustrazioni di cartoline postali recuperate in mercatini dell’usato e scatti fotografici ritrovati in rullini ancora da sviluppare, così come si serve dello slow motion (in assonanza con alcune installazioni di Bill Viola) e di un sonoro che non coincide con il narrato (Walter Murch tra i suoi punti di riferimento).

Più riprese mettono in evidenza la stessa mano della regista intenta a produrre delle immagini: su un quaderno, con una penna bic, la mano traccia figure di rami a partire dalla foto che ritrae la madre bambina, attivando con questo gesto una pratica, che coinvolge la stessa immagine-ritrovata, informata alla processualità (non solo metaforica) e alla relazionalità. In Amor, l’immediato détournement che il riuso creativo di immagini d’archivio innesca in chi guarda, vale a dire una situazione di spaesamento semantico ed epistemologico in cui esso si ritrova, assume una dimensione esperienziale, conoscitiva ed emotiva ulteriore: il film documentario è infatti una raccolta di immagini con cui poter attraversare il trauma conseguente alla tragica morte della madre dell’autrice quando quest’ultima aveva solo ventiquattro anni. Sua madre Teresa, come si apprenderà dalla voce della stessa regista, ha messo fine alla sua vita gettandosi nel Tevere dopo aver ingerito una dose tossica di medicinali.

Ma lontano dal racconto psicologico o dalla forma che arresta la ricerca entro il perimetro diaristico, Eleuteri Serpieri, in questo film che ha la forma di un testo a più entrate, evita di cristallizzare i ricordi nella successione scandita da una forma narrativa lineare, scegliendo invece di sperimentare con la possibilità di dar vita a una diversa raccolta di immagini (non consequenziali a partire dalla stessa numerazione). Facendosi esperienza aperta a figurazioni polimorfe e a significazioni stratificate e differenti (l’acqua è l’elemento che più ricorre), la raccolta di immagini diventa allora anche raccolta di problemi. Aby Warburg, e in particolare il suo Mnemosyne, è infatti il riferimento diretto della cineasta, come suggerisce il ringraziamento nei titoli di coda che, in un’aria di famiglia, include anche George Didi-Huberman (e magari Gilles Deleuze, se si pensa all’uso sorprendente, in Amor, della sovrapposizione di immagini eterogenee in stretta vicinanza con la multidimensionalità delle entrate e delle uscite del fare-rizoma).              

In questo orizzonte la regista forma sia la mappa della propria vita che un atlante per futuri possibili, laddove sono proprio le immagini dense, significanti e simultanee di Amor (pianeta reversibile a quello di Roma) a provocare e aprire scarti temporali e soglie spaziali. Il montaggio, curato ed intensivo (pratica insieme conoscitiva, psicologica, estetica e narrativa), valorizza la capacità cinematografica di poter far esperienza della temporalità multipla. Così che fuori da narrative lineari e da causalità eterodirette, le immagini assumono le sembianze, performative e perturbanti, di «storie di fantasmi per adulti» (Warburg 2002).

La raccolta di immagini operata in Amor diventa, in questo senso, modo per raccontare storie perdute e gesto performativo per attivarne altre ancora possibili. La pratica processuale di Eleuteri Serpieri aziona, infatti, la sensazione che si stia intraprendendo un viaggio lungo strani meridiani e paralleli e verso chissà cos’altro – comunque un fuori. Un viaggio in cui ad essere esibito e performato è lo stesso percorso di raccolta, scelta, dubbio e sintomo che ha animato il campo visivo e affettivo della regista, rivelando da una parte il farsi-in relazione della soggettività (al contrario dell’autore portatore di uno sguardo “forte” e in cerca di oggetti cui attribuire arbitrarie funzioni proiettive e totalizzanti), dall’altra la qualità inerente l’incessante apparizione e sparizione propria ad ogni immagine, scomparsa dalla realtà che l’ha prodotta ma vivente ancora negli immaginari e in molte pratiche. Ciò è ancora più vero per immagini in movimento, in cui l’accensione e il dissolvimento implicati in ciascun frame sono al tempo stesso apparizione di fantasmi e di ricordi incarnati; un modo per porsi domande sulla complessità del reale «L’immagine non è solo il punto di incontro tra reale e immaginario ma è l’atto costitutivo radicale e simultaneo del reale e dell’immaginario» (Morin 2016). E a tratti alcune sequenze di Amor stimolano connessioni e luminescenze con quelle di Alice Rohrwacher, in particolare quando, in Le meraviglie, le bambine giocano alle ombre cinesi, o alla lanterna magica, nella grotta etrusca.  

Nel film di Eleuteri Serpieri ci sono immagini found footage e riprese originali (anche in super 8); esiste la città di Roma e il pianeta Amor; ci sono al tempo stesso filmati in cui il Tevere era ancora balneabile e luogo di svago popolare e altri in cui le strade sono attraversate da ombre (con punctum la mascherina di protezione). In Amor, pianeta della cura, viventi e non viventi convivono in una orizzontalità poetica e giocosa (la costellazione possibile quella con Botticelli, Bellini, Pasolini e di nuovo Alice Rohrwacher); poi di nuovo ritorna, intermittente, il rapporto (im)possibile con corpi e fantasmi (e con le immagini di David Lynch, Maya Deren e Francesca Woodman). Quello che preme alla regista sembra comunque il voler trovare dei modi con cui destrutturare l’immagine egemonica a favore della eterogeneità dei materiali, il progetto di una pratica filmica con cui destituire gerarchie (estetiche ed epistemologiche) per poter finalmente immaginare mappe a venire provenienti da chi guarda –una terza immagine con cui scompaginare la classica relazione soggetto-oggetto, o forse una mappa di immagini ancora più espansa rispetto a quella che precipita in una numerazione, di fondo ancora dipendente dall’unitarietà della sintesi.

Scartando la linearità dell’identificazione immediata, e procedendo per concatenazioni e sovraimpressioni con cui risemantizzare frammenti filmici e immagini (ma senza buttare via per forza la più classica successione per dissolvenza), Eleuteri Serpieri si fa sguardo-gesto intensivo tramite cui trattenere – ma in modo differenziato – possibilità, tempi virtuali e sopravvivenze. Gli occhi della regista riflessi nello specchietto dell’auto, mezzo con cui gira la città in cerca della madre scomparsa, sono l’indizio ricorrente che Eleuteri Serpieri confida allo spettatore rispetto al proprio stare in scena. Uno sguardo inquieto in cui balena anche la fiducia: come quasi sempre accade con il cinema che muta l’orientamento dello sguardo e il proprio modo di stare al mondo in chi guarda – allorché ne è evidentemente implicata la stessa soggettività.

Struggente e necessaria l’assunzione dello sguardo della madre da parte della regista in una delle sequenze finali, il tramite una fotografia scattata da Teresa su quel tratto del Tevere dove pochi giorni dopo verrà ritrovata. Eleuteri Serpieri con il suo gesto investe l’immagine di corporeità e fantasmaticità ma anche di un posizionamento: nonostante l’enorme dolore implicato nel processo di ritrovamento e risignificazione, e che potrebbe far sbandare verso il pathos dell’indicibile, con grande coraggio la regista riesce a farsi medium e spazio per attraversamenti possibili – anche perché l’immagine è la prima forma che si ha a disposizione nel mondo per conoscere e per desiderare. Una esposizione questa – con il voice over in prima persona e addosso lo sguardo in macchina della madre – che crea alleanze con quello di Alina Marazzi in Un’ora sola ti vorrei. In questo modo l’atlante di immagini di Amor lascia riaffiorare corpi, gesti, tempi e domande in un incedere che è sia rigoroso e sintomatico che enigmatico e libero (nel senso di liberare anche lo sguardo di chi guarda), in tal modo riuscendo – con cura – a non bloccare chi guarda nell’intervallo abissale occorrente tra apparizione e sparizione dell’immagine, paralizzato dalla paura – così come la stessa Teresa nella casa-grata di Collina Fleming.

Warburg, ed Eleuteri Serpieri con lui, danno forma (gesto etico) ad una pratica delle immagini che implica la processualità, la relazionalità e appunto la cura. Presa per mano e connessa con altre immagini, altre domande e altre vite la malinconia non finisce per allagare tutto, e Teresa (e altre e altri con lei) riesce a riemergere dall’isolamento e a ritrovarsi in nuove alleanze, mappe e trasformazioni – ad “Amor non si è mai soli”. Ecco che il viaggio di Eleuteri Serpieri non si inabissa nel nulla (fosse anche solo del significante), ma attraversando il trauma, proprio e di una città (al tempo dei filmati del Luce le esondazioni del Tevere erano spesso distruttive), può ritrovarsi a procedere con dinamismo tra le immagini di Amor, raccolta dialogica e interrogativa di (futuri) possibili. In questo accendere lo spazio sul riaffiorare di tracce e resti ancora dicibili, il palombaro subacqueo (una delle “formule di pathos” ritornanti in Amor) e le immagini ritrovate possono ancora sottrarre alla dissoluzione insensata in cui ogni volta può cadere il reale.

Riferimenti bibliografici
M. Bertozzi, a cura di, L’immagine documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano, Lindau 2007. 
Id., Recycled Cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia 2012.
Id., Bertozzi, Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, Marsilio, Venezia 2018.
G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, La memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016.
A. Warburg, Mnemosyne. L’atalante delle immagini, Aragno, Torino 2002.

Amor. Regia: Virginia Eleuteri Serpieri; sceneggiatura: Virginia Eleuteri Serpieri; fotografia: Simone Rivoire; interpreti: Laura Riccioli, Odetta Tunyla, Pasa Govorusic, Eleonora Kadira Govorusic; produzione: Stefilm, ERA FILM; distribuzione: Stefilm International; origine: Lituania, Italia; durata: 101’; anno: 2023.

Share