Uno spettro si aggira per i deserti di Arrakis: è lo spettro di Paul Atreides, pronto a colpire al cuore l’imperialismo interplanetario di cui è figlio degenere, pronto a portare la guerra totale (anzi, la “guerra santa”, come viene detto nel finale) in nome di una rivoluzione teo-ambientalista che trasformerà Arrakis in un mondo verde.

Il romanzo di Frank Herbert usciva in piena stagione psichedelica, all’apertura delle «porte della percezione», per citare il verso di William Blake che prima Aldous Huxley e poi Jim Morrison trasformarono nell’immagine-guida di una generazione; per rimanere in tema di grandi viaggi, poco dopo l’uscita di Dune (1965) un altro Paul (Bowman) fu protagonista della più iconica esperienza di spaesamento del cinema moderno, l’odissea kubrickiana. In questo senso, Dune è un feticcio della controcultura giovanile degli anni sessanta; è facile da capire il perché di un riconoscimento generazionale, dal momento che, come ricorda Daniel Immerwahr, «i personaggi del romanzo assumevano droghe psichedeliche, meditavano, comunicavano con la natura, praticavano il misticismo e inscenavano orge» (2022). Per quanto storicamente radicato e riferito risulti essere il romanzo di Herbert, l’adattamento di Denis Villeneuve non si sottrae al rapporto con il presente.

La seconda parte di Dune è infatti il corpo centrale di un viaggio iniziatico agitato da tensioni molto contemporanee (politiche, ambientali, religiose, economiche) che sostanziano una solida isotopia della spazialità. Se il primo capitolo proponeva, come notava Francesco Zucconi, «un confronto tra Occidente e Oriente», ora il secondo allestisce una polarizzazione nord-sud. Il Nord di Arrakis è il luogo della formazione eroica di Paul Atreides, il campo delle relazioni individuali e delle esperienze; è un’area libera attraversata da flussi nomadi, in cui le nuove leve dei Fremen (gli abitanti di Arrakis) appaiono culturalmente coese ma ormai secolarizzate. Il Sud è invece il luogo in cui la tradizione religiosa è ancora molto forte e in cui la popolazione è più stanziale; il mythos su cui si fonda questa tradizione, l’avvento di un salvatore che renderà fertile il deserto, sembra diventare realtà quando le masse riconoscono in Paul l’agognato messia. Il messia è il Kwisatz Haderach, che in virtù di doti di preveggenza e di ubiquità (“l’uomo che può stare in molti posti”) è in grado di accelerare i processi storici (“colui che abbrevia la strada”).

Ciò che caratterizza strutturalmente lo spazio di Dune è la sua disponibilità ad essere immaginato. Come il monolito della generazione-odissea, la sabbia di Arrakis può essere ciò che vogliamo: la sede dei nostri viaggi della mente seguendo una mappa costantemente modificabile, o una bussola priva di punti cardinali. Possiamo immaginare il deserto come un archeo-luogo che è già stato, un cumulo di rovine tutto proiettato nel passato; oppure pensarlo al presente come spazio di lotta, in cui nascondersi e colpire, un Vietnam dell’apocalisse coppoliana; o declinarlo al futuro della profezia, quando il deserto sarà (di nuovo) un paradiso verde. Infine, si dà anche la possibilità di pensare il deserto completamente fuori dalla Storia, nei termini pasoliniani di «una connotazione quasi spettrale e spirituale» (Lago 2020, p. 19). È uno spazio che riceve una luce «più splendente del sole» (Atti 26, 13), e in cui si raggiunge l’illuminazione, come accade al Boba Fett dell’ecosistema di Star Wars, con cui intenzionalmente Villeneuve costruisce più di una simmetria (battaglia sul ghiaccio-battaglia nel deserto, Jabba the Hutt-Vladimir Harkonnen).

In qualsiasi modo lo si voglia intendere, il deserto domina il film di Villeneuve, come una tabula rasa che è fatta per depositare una memoria, lasciare una traccia, scrivere una storia; una tavoletta di cera in cui, dice Aristotele nel De anima, «niente fu scritto». Qui l’eroe può darsi un nuovo nome, e sceglie di chiamarsi Muad’Dib come il roditore che è “saggio come il deserto”. A questo mondo fatto di sabbia e di luce, si oppone la parte oscura di Dune, il pianeta Giedi Prime governato dalla casata paranazista degli Harkonnen: questo pianeta è fotografato in bianco e nero, perché Villeneuve lo immagina come un mondo in cui ci sono differenti leggi fisiche, per cui il colore semplicemente non esiste.

D’altra parte, l’immaginazione spaziale detta le proprie leggi: se è vero che il film di Villeneuve (come rileva sempre Zucconi) riattiva la sintassi del montaggio contiguo, nella sua parte desertica questa contiguità è puramente astratta e assai poco segnaletica, perché nello spazio di Arrakis non ci sono riferimenti capaci di materializzare i concetti topologici. Analogamente, su Giedi Prime si perdono i riferimenti del lontano e del vicino, l’uomo è schiacciato, annullato in prospettive a perdita d’occhio. La differenza sostanziale è che nel deserto il film sembra avere l’ambizione di presentarci l’uomo in sé, l’uomo così com’è, la “scimmia nuda”, per citare un altro celebre testo degli anni sessanta; al contrario, su Giedi Prime l’uomo non c’è più, è stato risucchiato da una spirale di violenza cieca, di volontà di potenza.

Che la sponda rivoluzionaria e quella reazionaria possano finire per coincidere pericolosamente, per propria stessa mano, nell’accelerazione del processo storico imposta dalla via breve intrapresa dal messia, è l’abisso di consapevolezza sul ciglio del quale sosta l’eroe al termine di questa seconda parte, un titanico cliffhanger che attende lo sviluppo conclusivo.

Riferimenti bibliografici
D. Immerwahr, The Quileute Dune: Frank Herbert, Indigeneity, and Empire, in “Journal of American Studies”, 56, 2, 2022.
P. Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini, Mimesis, Milano-Udine 2020.

Dune – Parte Due. Regia: Denis Villeneuve; sceneggiatura: Denis Villeneuve, Jon Spaihts; fotografia: Greig Fraser; montaggio: Joe Walker; interpreti: Timothée Chalamet, Zendaya, Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Austin Butler, Florence Pugh, Dave Bautista, Christopher Walken, Léa Seydoux, Stellan Skarsgård, Charlotte Rampling, Javier Bardem, Giusi Merli, Anya Taylor-Joy; produzione: Legendary Pictures, Villeneuve Films, Warner Bros.; distribuzione: Warner Bros.; origine: Stati Uniti, Canada; durata: 165′; anno: 2024.

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