Sergej M. Ejzenštejn scriveva di Walt Disney: «Talvolta sono spaventato dalla visione dei suoi film. Spaventato dall’assoluta perfezione» (Ejzenštejn 2017, p. 18). E certo nell’opera di Disney l’elemento inquietante, orrorifico, deformante, allucinatorio, ricorre. Ed è proprio questo somatismo defigurante, la metamorfosi in atto tra corpo animale e corpo umano, l’animazione intesa come animismo, ciò che affascina Tim Burton, il cineasta che (insieme a Spielberg) ha raccolto l’eredità disneyana estraendone la potenza perturbante.
In Dumbo si esplica tale somatismo con uno scatenamento incalzante delle forme, traducendosi appunto nella cifra somatica che ossessiona da sempre Burton. Si tratta di una sorta di somatismo del dispositivo ottico, della capacità del cinema di generare forme, che rendono il mostruoso, la mostrazione al contempo estraniante e familiare (come è proprio dell’Unheimlich freudiano). I mostri e i freaks di Burton sono sempre teneri, pervasi da una solitaria malinconia, da una diversità che li rende in continua lotta con il mondo delle forme regolate, opponendo la pulsione immaginaria alle leggi del simbolico, alla regolazione irreggimentante dell’apparato spettacolare. È il modo di guardare il mondo e la forma globulare dell’occhio come segno che lascia trapelare un inconscio ottico ciò che in Burton (è il caso di film come Mars Attacks!, Il mistero di Sleepy Hollow, Big Eyes) muove l’insubordinazione delle forme e la potenza generante delle immagini.
In Dumbo la mossa geniale di Burton è quella di spostare la cifra di elevazione e di uscita da sé (ciò che spingeva Ejzenštejn a rintracciare in Disney la propria idea di estatico) dalle lunghe orecchie-ali dell’elefantino (che bastano a renderlo un freak, un “piccolo mostro” come viene definito dall’impresario-nano del circo, interpretato da Danny De Vito), che esce da sé, che si eleva e che trascina la pesantezza verso la leggerezza, alla forma orbitale dell’occhio (intriso di dolcezza e stupore) del piccolo elefante. Sulla copertina del classico di Leslie Fiedler, Freaks, recentemente ripubblicato da Il Saggiatore fa bella mostra di sé (come cifra del “mito dell’io segreto”) una foto di Zan Wimberley per lo spettacolo The Real and Imagined History of the Elephant Man. Qui, il primo piano dell’uomo-elefante coperto da un rugoso straccio bianco lascia trapelare, da uno strappo, l’occhio umano del volto mostruoso che ci fissa.
Analogamente Burton riserva all’occhio di Dumbo (che racchiude in sé tutta la sua umanità e insieme l’analogon della soggettiva aerea delle immagini, e dell’obiettivo riflettente della camera) la prerogativa di introflettere ed estroflettere il suo essere potenza del cinema (che trasforma e fa involare il corpo e il suo sguardo). Tanto è vero che una delle folgoranti immagini finali esplicita questa coalescenza tra l’occhio volante dell’elefantino e la nascita del cinema. Quando nel piccolo circo ritrovato e ricomposto di Max Medici, l’imbonitore si rivolge in uno sguardo in macchina direttamente agli spettatori accompagnandoli tra le attrazioni circensi (in una circolarità con l’inizio del film) che, dopo l’avventura e la fuga di Dumbo (il quale ha ritrovato finalmente la sua origine e la sua mamma in un finale africano folgorante) si ricompongono nella memoria della presenza di Dumbo (che riappare all’inizio della sequenza come mascheratura clownesca, ricordando la sua prima apparizione con il trucco di pagliaccio), ecco che tra i vari padiglioni siamo condotti all’interno di quello delle “meraviglie della scienza”, presieduto dalla piccola Milly, dai grandi occhioni “burtoniani”, che fin dall’inizio esplica il suo desiderio di fare la scienziata, e che ci appare intenta a girare la manovella di un “cinématographe” e a proiettare una mélièsiana pellicola in cui vediamo animarsi e volare Dumbo.
Allora l’apparizione allucinatoria dell’elefantino, il suo ingurgitare e riflettere nell’occhio le piume come segno svolazzante di un movimento cinetico, le sue traiettorie volanti e “oculari-globulari” (strepitosa la sequenza del balletto aereo delle bolle di sapone antropomorfe che spinge la citazione disneyana in una fantasmagoria sperimentale degna dell’avanguardia surrealista), ci appaiono esplicitamente come analogia, metafora, intercessione dell’occhio volante del cinema. Ma il discorso critico sull’apparato cinematografico trapela con sottigliezza e ironia leggera da tutto il film, e soprattutto la meditazione sull’apparato disneyano. Che cos’è infatti il circo iperspettacolare dell’impresario miliardario (un Michael Keaton il cui volto “cerato” sembra una trasposizione della sua vecchia maschera di freak, accompagnato dalla seducente Colette, “divina acrobata” interpretata da Eva Green) mastodonticamente ricostruito con gusto decò e postmoderno, prigione dorata in cui viene costretto Dumbo e l’intero piccolo, artigianale, circo di Max Medici? Che cosa è se non il destino fagocitante ed esorbitante, il delirio di onnipotenza, se non la parabola merceologica del percorso e dell’industria disneyane? Non a caso l’iperluogo si chiama “Dreamland” in assonanza con Disneyland.
E questo “metadiscorso” è incastonato da Burton in dialogo con altri cineasti che gli sono affini: lo Spielberg di 1941 – Allarme a Hollywood (dove non a caso un generale dell’esercito americano si reca a vedere la proiezione del Dumbo di Walt Disney) e di War Horse (il cavallo soccorritore cavalcato dal reduce di guerra privo di un braccio, anche lui assimilato alla diversità freak, interpretato da Colin Farrell); lo Scorsese di Hugo Cabret (film anch’esso ossessionato dall’occhio di un bambino che guarda dall’alto e rigenera le origini mélièsiane/lumièriane del cinema, e che produce, come in Dumbo, un “incendio reviviscente” e liberatorio dalle cui ceneri, dalla cui “polvere magica”, rinasce il cinema); un tocco alla Zemeckis nella vertigine della de/formazione dei corpi naturali-artificiali; naturalmente la malinconia perturbante del freak lynchiano di The Elephant Man; ma poi anche le citazioni nelle riprese coreografico-geometriche del cinema di Busby Berkeley o le architetture labirintiche e archeo-tecnologiche di un film come L’inhumaine di L’Herbier.
Allora comprendiamo come il perturbamento che Disney provocava ad Ejzenštejn, quell’orrore estatico e inebriante, una sorta di “commovente” tenerezza del mostro e del diverso, evidente nella ripresa sottile sotto la luna della ninna nanna di Mama Jumbo, cantata dalla enorme donna/sirena (memore della dolce gigantessa del felliniano circo di Casanova), sia il segno nascosto del film di Burton. Infatti la fuga (il sabotaggio liberatorio) verso e da l’isola degli incubi, faccia occulta e orrorifica di Dreamland, dove i clown diventano spettri, gli animali si mostrificano, il montaggio delle attrazioni diventa un susseguirsi onirico che, proprio dall’orrore, libera le potenze liberatorie, è il momento più esaltante del film. Momento culmine di un film dove la vertigine, l’estasi, l’elevazione, l’immaginazione interiore ne racchiudono e ne sviluppano la cifra ottica più segreta. In ciò che Antonio Prete, in Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, chiama “cosmografia interiore” si scorge il movimento dell’elevazione, cifra dell’immaginazione vissuta come interiorità (come occhio interno agli esseri, ciò che il cinema vertovianamente mette in forma):
L’elevazione è un fatto costitutivo dell’immaginazione […] immaginare insomma è compiere un esercizio di elevazione. C’è un aspetto, in questo movimento, visivamente riferito allo spazio, sia a quello che ci sovrasta con cime di monti e nuvole sia quello abitato da corpi celesti, dal loro vertiginoso cammino. Avventurarsi con l’immaginazione in quegli spazi è la forma per così dire corporea, visiva, esplicita dell’elevazione. Ma è anche la forma che induce spaurimento, uno spaurimento accompagnato dalla percezione che ogni odissea in quello spazio incontra a un certo punto l’impossibile (Prete 2016, p. 119).
Il circo burtoniano rispetto a quello disneyano scatena viepiù la capacità delle immagini di fuoriuscire dalle loro forme e liberarsi in uno sviluppo estatico in cui tutto avviene nell’occhio metamorfico e insieme nel globo generante di un’allucinazione vivente, che è figurata dall’elefantino-che-vola: «Gli animali, i pesci, gli uccelli di Disney hanno l’abitudine di allungarsi e contrarsi. Di prendersi gioco della propria forma. Come si prendono gioco delle classificazioni zoologiche il pesce-tigre e la piovra-elefante del Circo sottomarino» (Ejzenštejn 2017, pp. 17-18). C’è un quadro di Odilon Redon che raffigura un occhio-mongolfiera in cui un bulbo oculare e cigliato costituisce il pallone di una mongolfiera che si eleva, e la pupilla è rivolta verso l’alto, ma anche verso il profondo della immaginazione figurale. Ebbene un film come Dumbo solleva le immagini e le forme dal loro interno, sprigionandone tutta la loro potenza immaginativa.
Riferimenti bibliografici
S.M. Ejzenštejn, Walt Disney, Castelvecchi, Roma 2017.
L. Fiedler, Freaks. Miti e immagini dell’Io segreto, Il Saggiatore, Milano 2018.
A. Prete, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, Torino 2016.