Come definire il cinema di Eddie Alcazar? Una delle domande che attraversò la mente di molti spettatori dopo aver affrontato sul grande schermo il suo lungometraggio d’esordio. Nei primissimi momenti introduttivi, Perfect (2018) sembrava già chiarire regole e direzioni.  Forme ibride di carne, luce, colore, si stagliavano in successione su un tradizionale sfondo nero videoartistico, con combinazioni ossimoriche che permettevano una coesistenza tra digitale e analogico, tra materiale e immateriale. L’organico che si confonde con l’inorganico, l’elettronico, il digitale. Siamo dalle parti di Lillian Schwartz, penserà qualcuno, con un immaginario che è andato via via a pervertirsi sempre più, ad intercettare nuovi tem(p)i.

Ad accompagnare queste forme una voce, la voce del protagonista, giovane insicuro, parla di sé stesso con sé stesso. Riflessione più che racconto, flusso interiore più che esposizione verso l’esterno. Interiore come appaiono quelle viscere, appartenenti ad un luogo a cui l’occhio non è permesso arrivare. “Ho bisogno di dare un senso a tutte le lacrime che ho dentro. Perché senza di loro chi sono? Chi sono? Sono un’illusione. Non sono neanche qui.” La componente sonora sembra vivere anch’essa di quell’intrinseca contraddizione, dialogando con le immagini ma al contempo prendendo una direzione propria. La parola viene utilizzata per le sue proprietà propriamente sonore, o meglio evocative, accompagnando il visibile e non rimarcandolo. È una voce fuori dal tempo e dallo spazio, che segna una rottura sempre più grande tra Garrett personaggio e Garrett narratore. 

Pochi minuti e tutto ciò che andrà ad essere sviscerato è già chiarito. La direzione è quella del video saggio, quella di Art of Memory (1987) di Woody Vasulka – a voler essere comparatisti –, che permane fino ai titoli di coda. La storia di Garrett è pretesto, veicolo, per raggiungere la sala cinematografica e il suo pubblico, per uscire dalla nicchia della pura sperimentazione. Ed è tale approccio che, ancor prima del cinema del regista statunitense, caratterizza la new wave sci-fi horror di cui si è parlato per Infinity Pool (2023). Un filone «in cui si assiste ad una diffusione di momenti in cui ciò che conta è l’effetto visivo e sonoro, l’esperienza audiovisiva per l’appunto, che raggiunge i sensi piuttosto che ricercare significati diretti», in cui l’immaginario fantascientifico è restituito in primo luogo dal modo in cui si mostrano le (nuove) tecnologie impiegate per la realizzazione del film.

L’esordio di Alcazar si pone come tappa fondamentale di questa nuova onda. Non soltanto per l’esplicitezza delle intenzioni videoartistiche e per l’abilità con cui viene trattata la commistione mediale, non soltanto per il manifesto che rappresenta e per i frutti che darà negli anni successivi, ma perché è il primo in cui l’astrazione narrativa riguarda in egual misura tanto la forma quanto il contenuto, dall’inizio alla fine del film e non in singoli momenti circoscritti. È l’opera nella sua interezza a diventare lo spazio della combinazione di stili e linguaggi differenti, ponendo di fronte allo spettatore una vera e completa esperienza audiovisiva tout court.

Il momento di massima combinazione intermediale sembra tuttavia raggiunto nel secondo lungometraggio Divinity (2023), presentato al Sundance Film Festival e prodotto – come il precedente – da Steven Soderbergh. Nel momento dello scontro finale, un movimento della macchina da presa trasforma lo scenario nel tipico spazio a visuale laterale dei picchiaduro ad incontri, a metà tra Mortal Kombat per i combattimenti e ClayFighter per le fattezze dell’antagonista. La scena tipicamente videoludica viene però combinata con l’utilizzo di pupazzi di plastilina animati tramite claymation, tecnica già sperimentata da Alcazar in The Vandal (2021). Cinema, videoarte, videogioco. Live action, animazione, tecnica mista. Tutto si intreccia contribuendo a dare forma ad un momento che non si preoccupa di rispecchiare un’identità audiovisiva definita, normata.

Cinema di combinazioni ma anche di antinomia, di opposizioni, di elementi che possiedono diverse nature contraddittorie che entrano in conflitto tra loro. L’esaltazione e l’insistenza sulla tecnologia nascondono in realtà un cinema fortemente umanista, che pone al centro il concetto di corporalità, il corpo ora reale ora virtuale dell’individuo e la sua considerazione esistenziale, ontologica. Le motivazioni che stanno all’origine della mutazione del corpo superano, o scansano, la combinazione uomo-macchina di Tsukamoto e la modifica della carne di Cronenberg, per diventare il risultato di un ambizioso percorso interiore che viene a (non) concretizzarsi. Per Alcazar il corpo diventa lo specchio dell’anima, la materializzazione del valore dell’individuo. È attraverso la mutazione del corpo che si tenta di raggiungere la perfezione o lo stato di divinità, ed è sempre attraverso la sua deformazione che questa ambizione viene sanzionata, punita, fatta pagare.

In Perfect il processo di perfezionamento interiore (astratto) a cui è sottoposto Garrett avviene tramite un intervento esterno sul corpo (concreto), che prevede la rimozione di blocchi di carne da sostituire con innesti biotecnologici. Tale trattamento porta ad una progressiva mutazione, dall’aspetto al modo di comportarsi, con una finale degenerazione. Iconograficamente riferito alla Pietà di Michelangelo, fallito il perfezionamento, il corpo deformato di Garrett si mostra tra le braccia del presunto padre in una forma involuta e imperfetta. Contraltare negativo dello Star-Child di Kubrick. Non dissimile ciò che spetta a Jaxxon in Divinity, scienziato che sulle orme paterne – figura che ritorna come influente mancanza – inventa un siero della vita eterna che si manifesta con lo sviluppo di fisici scultorei, da divinità greche. La sanzione a lui riservata, inflitta da due fratelli provenienti dalle stelle, da un luogo lontano con la missione di punire il tentativo dell’umano di farsi dio, assume ancora una volta i caratteri del contrappasso. Costretto su una sedia e somministratogli una dose eccessiva del siero, Jaxxon subisce una mostruosa mutazione che appare parodia dei culturisti. Se in Perfect si sfocia nell’imperfetta regressione, in Divinity il risultato è un’abominevole evoluzione, figlia di quegli orrori deformi che già si nascondevano nel bosco di Fuckkkyouuu (2016).

Spendere queste parole sull’esordio quale manifesto riassuntivo, dichiarazione artistica del cinema di Alcazar, diventa necessario per poter inquadrare con sguardo critico la sua opera complessiva. Parlare di Perfect significa parlare di Divinity – suo prosieguo artistico e spirituale –, della poetica del suo autore e del modo in cui decide di affrontare l’universo cinematografico. Esso conferma direzioni e intenzioni viste finora, ma non significa reiterare o rimanere immobili. Il venir meno della collaborazione con Flying Lotus permette di abbandonare quegli elementi videoartistici kitsch di inclinazione videomusicale – forme e luci digitali colorate, occhi distorti e altri leitmotiv del musicista, usati e abusati in Kuso (2019) – in favore di un’atmosfera più cupa, mortifera, alimentata da un bianco e nero scuro, spesso al limite del visibile. Scelta cromatica che in Perfect appariva rilegata soltanto alla dimensione onirica, a quei segmenti introspettivi che manifestavano desideri inconsci di potere, dominio, controllo e superiorità maschile.

Nel passaggio da un film all’altro, il bianco e nero sembra infatti portarsi dietro la denuncia di una mascolinità vissuta e concepita come violenta e tiranna, che in Divinity diventa colonna portante del sottotesto umano. Interpretando, il film diventa la dichiarazione di una presa di posizione sociale profondamente femminista, che non fatica a far capire quali valori promuove, rivendica. C’è il potere dell’unione fraterna, c’è l’orrore del machismo che dev’essere sconfitto per far nasce il seme del domani e c’è la donna pura, non ancora corrotta dalle ambizioni (dal siero) dell’uomo. Entità sovrannaturale, quasi divina, nelle cui mani è riposto il futuro. Perché per Alcazar il futuro è donna, nonostante il parto dell’alberello fallico da parte di Nikita non lasci ben sperare nel finale.

Divinity finisce e sul grande schermo appaiono i titoli di coda. Intanto una domanda inizia a farsi largo in molti spettatori: quindi, come definire il cinema di Alcazar? Qualcuno dirà che è il semplice risultato della contaminazione mediale vissuta dal cinema contemporaneo. Qualcun altro che questa è la vera nuova neoavanguardia cinematografica americana, mascherata da cinema narrativo. Altri ancora, banalmente, ridurranno tutto ad un paio di battute derisorie. La verità, sempre che ci sia, non spetta a noi stabilirla. Lasceremo parlare il tempo.

Divinity. Regia: Eddie Alcazar; sceneggiatura: Eddie Alcazar; fotografia: Danny Hiele; montaggio: Steve Forner; musiche: Dean Hurley, DJ Muggs; interpreti: Stephen Dorff, Moisés Arias, Jason Genao, Karrueche Tran, Bella Thorne, Scott Bakula, Emily Willis, Mike O’Hearn, Caylee Cowan; produzione: Divinity the Film; origine: Stati Uniti d’America; durata: 87’; anno: 2023.

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