De Troie en ce pays réveillons les misères,
Et qu’on parle de nous ainsi que de nos pères.
Partons, je suis tout prêt.
Andromaca di Racine (Atto IV, Scena III)

In molti casi, essere figli d’arte oggi è quasi un peso, un’onta. Ancor più quando il genitore è uno dei più significativi cineasti della storia del cinema il destino è già segnato, inevitabile, nessuna scappatoia. Jean Racine con la sua Andromaca si poneva già il problema dei figli degli eroi, destinati a vivere nel dramma di doversi raffrontare con dei modelli pressoché insuperabili. Così come il Pirro, l’Ermione o l’Oreste raciniano, Brandon Cronenberg per affermarsi sembra doversi necessariamente opporre al padre, in modo da crearsi una propria identitàMa è possibile vivere, formarsi, con una figura tanto autorevole accanto, influente per intere generazioni, e pensare di non avere nessun lascito, conscio o inconscio che sia? Molto difficile, verrebbe da dire.

Se Antiviral (2012) porta con sé tutta l’eredità di famiglia, è con Possessor (2020), o meglio, con il cortometraggio Please Speak Continuously and Describe Your Experiences as They Come to You (2019), che Cronenberg cerca di individuare la propria personalità artistica, almeno da un punto di vista formale. I temi trattati rimangono pressoché stabili: commistione tra carne e macchina, mutazione e deformazione del corpo, labilità dei confini delle identità individuali, tra i tanti. A cambiare è però la forma, che sfrutta i temi nel solco di un approccio alla fantascienza orrorifica che negli ultimi anni si sta strutturando sempre più come un genere dotato di codici propri: a partire dall’archetipo Beyond the Black Rainbow (2010) di Panos Cosmatos – anch’egli figlio d’arte, in misura inferiore –, passando per Under the Skin (2013) di Jonathan Glazer e il fondamentale Perfect (2018) di Eddie Alcazar, fino ad arrivare al mediocre Fried Barry (2020) di Ryan Kruger in cui i nuovi codici contaminano alcune scelte rappresentative.

Dalla seconda opera, il regista canadese sembra aver preso le redini ed essersi (auto)proclamato alfiere della new wave sci-fi horror, incline a dar maggior valore all’esperienza audiovisiva tout court che guarda al mondo della videoarte, a partire dalle sequenze con il tradizionale sfondo nero o da scelte formali dal sapore sperimentale. Il risultato sono film in cui si assiste ad una diffusione di momenti in cui ciò che conta è l’effetto visivo e sonoro, l’esperienza audiovisiva per l’appunto, che raggiunge i sensi piuttosto che ricercare significati diretti. Abbandonato subito il minimalismo formale del padre, Brandon cerca di intraprendere la propria strada attraverso una regia e uno sguardo più barocco, a tratti esuberante, in una sovrapposizione di piani, forme, corpi, luci e colori che – nonostante il ritmo dilatato – scorrono e scorrono come un flusso continuo.

L’assenza di una solida struttura che faccia da collante che gravava nel film precedente, ma che, in realtà, parrebbe essere condivisa da quasi tutta la gamma della New Wave, è presente anche nell’ultimo Infinity Pool (2023) con cui il regista canadese prosegue senza soluzione di continuità il proprio discorso e la propria ricerca di un’identità, di codici propri. A differenza di Possessor, quell’assenza ottiene però – volontariamente o meno, chi può dirlo – un’accezione positiva, andando a potenziare un’atmosfera instabile, un senso di minaccia perenne che perpetua tutti gli aspetti di Li Tolqa, e restituendo una totale assenza di garanzie di sicurezza, salvezza, speranza. Le sezioni per così dire videoartistiche, a volte giustificate dall’assunzione di una sostanza allucinogena, intercorrono a loro volta ad alimentare quel senso di instabilità, di confine tra immaginazione e realtà, di spaesamento narrativo: sono parte del gioco, della costruzione del mondo, proposto dall’autore.

Il paese inventato ex novo da Cronenberg si mostra come un simulacro distopico (ma per chi? Verrebbe da chiedersi), con tanto di legge del taglione monopolizzata dall’omicidio: è prevista però una Legge sul Processo Doppio, per cui i visitatori stranieri hanno la possibilità, sotto pagamento di un’ingente somma di denaro, di ottenere eventualmente un clone per l’esecuzione (“Questo è l’accordo che il mio governo offre ai visitatori stranieri”). Questa tutela, sorta di immunità totale, conferirà un senso di onnipotenza ai vacanzieri che degenererà in un turismo dell’omicidio e dell’eccesso, dimenticandosi di qualsiasi tipo di imposizione morale o di rispetto dei valori umani. Una banalizzazione della vita, in favore del superamento del tedio borghese.

Lo sguardo pessimista di Brandon promuove l’idea per cui l’essere umano è un buon cittadino per paura, per la costrizione a dover sottostare ad un sistema di regole per evitare di subire provvedimenti giudiziari, penali. Non esiste una vera società morale, né persone con sani principi. Lo stato di diritto diventa così uno strumento di freno per gli istinti e i reali valori che regolano l’essere umano (egoismo e sopraffazione), una finta rappresentazione della sua civiltà. L’assenza di effettive sanzioni o punizioni – in senso ampio del termine – da scontare metterebbe in luce il vero volto cinico e sadico dell’umanità, per cui l’occasione fa l’uomo ladro.

Un ritorno ad una sorta di stato di natura, in cui le leggi fungono da palliativo, specchietto per le allodole di un popolo visto come inferiore – la cui cultura si basa comunque, a sua volta, sulla violenza e sulla vendetta, sulla giustizia apparente, piuttosto che sul rispetto dei diritti umani e la rieducazione – che non permette di superare quel “bellum omnium contra omnes”, ma solo di normalizzarlo all’interno di un’ottica contemporanea. Non una totale assenza di leggi, né tantomeno una condizione di uguaglianza tra tutti gli uomini, bensì un sistema che ha come risultato una deriva anarchica a beneficio di pochi e tutelata dallo stesso sistema legislativo, in un’ottica colonialista che pensa a prendersi cura dei bisogni, della salvaguardia, dei capricci di una ristretta élite allogena. Siamo tutti uguali, però qualcuno è più uguale di altri, no?

Se nell’ultimo grande film sul colonialismo, Pacifiction (2022), Serra mostra un Occidente capace solo di parlare e non di agire, con un Magimel che si trova a dispensare consigli ai tahitiani del luogo su come rendere migliori i loro stessi balli tradizionali, Cronenberg invece mette direttamente in luce la nascita di un paese esotico costruito su misura di straniero – dello straniero ricco, per la precisione – con una società che appare tanto pericolosa per gli abitanti quanto innocua per i turisti. Non è un caso che l’iniziale senso di pericolo che i protagonisti provano per gli abitanti del luogo, visti come criminali che prendono di mira gli stranieri, ben presto mostrerà il vero volto tramite un ribaltamento dei ruoli vittima-carnefice.

Persino quando il detective rimprovera ai prigionieri, in attesa di cavarsela ancora una volta, che “Il nostro paese non è un parco giochi per stranieri”, essi si riveleranno essere i cloni – carne da macello per soddisfare il senso di giustizia, l’onore della famiglia – mentre i protagonisti godranno dello spettacolo tra urla e risate sulle tribune come al parco giochi, smascherando l’ipocrisia del paese. Il tema della maschera è infatti molto presente, ma anch’esso subisce un ribaltamento: se di solito mascherarsi determina un rovesciamento della propria identità, trasformandosi in altro da sé, le “ekki masks” sembrano invece rivelare le vere sembianze dell’uomo, la deformazione della propria natura marcia e deviata, così come lo sono le pratiche e le leggi di Li Tolqa.

Il viaggio compiuto da James si configura come un passaggio dallo stato di veglia a quello di coscienza, alla fine del quale deciderà di non partire e tornerà al resort aspettando la tempesta, a differenza dei compagni. Egli non è più in grado di reinserirsi all’interno della società, apparentemente o falsamente civile e giusta. La scoperta della natura dell’uomo e di quanto poco basti per far emergere il suo vero volto rappresenta per James un trauma piuttosto che una semplice epifania: non c’è più alcun modo per tornare indietro, la finzione è smascherata.

A conti fatti – nonostante non sia un film perfetto, per via di una maturità ancora non raggiunta a pieno e di alcuni problemi strutturali che condivide con i precedenti – Infinity Pool si presenta quindi come un’opera da lodare per la sua volontà di ricercare una propria identità artistica, registica, cinematografica, pur consapevole dell’inevitabile influenza intrinseca con cui però evita il confronto, senza rinnegarla. Attraverso i grandi temi di famiglia, Brandon sembra tracciare l’ultimo passo necessario per ottenere il testimone paterno e poter essere così libero di proseguire in futuro sui propri passi, confidando che la mela non cada troppo lontano dall’albero. Sarà forse una speranza mal riposta? Può essere, ma intanto vale la pena sperare.

Infinity Pool. Regia: Brandon Cronenberg; sceneggiatura: Brandon Cronenberg; fotografia: Karim Haussain; montaggio: James Vandewater; interpreti: Alexander Skarsgård, Mia Goth, Cleopatra Coleman, Jalil Lespert, Amanda Brugel, John Ralston, Jeff Ricketts, Caroline Boulton, Thomas Kretschmann, Roderick Hill, Adam Boncz; produzione: Film Forge, Elevation Pictures, 4film, Hero Squared, Telefilm Canada, Eurimages, The Croatian Audiovisual Centre, Celluloid Dreams; distribuzione: Elevation Pictures (Canada); origine: Canada; durata: 118′; anno: 2023.

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