La censura, per molti cineasti iraniani, fin dagli inizi del mestiere, è una questione da affrontare: è il regime a decidere chi può girare un film, chi può proiettare, chi deve tacere. Il viaggio dantesco di Divine Comedy di Ali Asgari, discendendo nei gironi della repressione culturale, ci racconta pratiche di resistenza nei toni della commedia e del grottesco. Disseminato di riferimenti cinefili – un poster di Matrix, una foto di Godard, una battuta di James Bond, il manuale di sceneggiatura di Syd Field, la scuola di cinema intitolata a Tarkovskij, persino la prima scena di Luci d’inverno di Ingmar Bergman per testare il nuovo proiettore – il film narra, nell’arco di un solo giorno, la storia del regista di film d’autore Bahram Ark, in “cattive acque”, e della sua produttrice e compagna, Sadaf Asgari, soffermandosi sull’intenzione di proiettare il loro ultimo film, già uscito all’estero ma mai visto in Iran; come prevede la legge, gli autori devono prima passare dal ministero per ottenere il permesso di proiettarlo.

Purgatorio. L’ufficio statale è sempre quello del famigerato signor Chegini, funzionario deputato al cinema che in Kafka a Teheran (2023) vietava a un altro regista – “Ali”, ovviamente – di girare, mentre a Bahram nega il permesso di proiettare il film; permesso invece regolarmente concesso al fratello gemello Bahman Ark, anche lui regista, ma di commedie da record d’incassi. Forse perché Bahram ha fatto altri lavori “sovversivi”, forse perché nel film c’è un cane (simbolo di impurità), o per via dei capelli di Sadaf, tinti di blu. Ben presto, però, diventerà chiaro come l’incontro al ministero non sia mai stato una reale possibilità: sono ordini “dall’alto” a bloccare l’uscita in sala. Comincia così la frenetica organizzazione di una proiezione clandestina, cercando tra la stravagante gente di cinema di Teheran qualcuno disposto a rischiare.

Inferno. Bahram, contattato “dall’alto” – letteralmente, da un elicottero che lo sta pedinando – raggiunge Haranov, alto dirigente statale cinephile, che gli propone di girare un film ad altissimo budget, una coproduzione internazionale, magari con la Siria, un bel kolossal a tema religioso che sia d’ispirazione, e che con i giusti agganci potrebbe persino vincere l’Oscar. Nel bar – il bar “Dante”, tutto rosso – tra bartender sputafuoco e fumosi cocktail a base di sangue, Bahram rifiuta la tentazione in virtù della sua indipendenza, innescando l’ira del diabolico amministratore.

Paradiso. Una ricca signora del centro offre la sua paradisiaca villa per proiettare il film, il pubblico arriva numeroso, ma nei primi minuti il suo cane si mette ad abbaiare contro quello sullo schermo, e poco dopo arrivano, puntuali, i funzionari governativi per interrompere l’evento. Può fermarli, forse, solo una forza sovrannaturale – come Dante che incontra il divino alla fine della sua Commedia.

Bahram e Bahman Ark, che interpretano versioni caricaturali di loro stessi, sono davvero due registi iraniani, gemelli, che hanno avuto gravi problemi di censura, come del resto Ali Asgari, che gira i suoi film senza permessi, subendo ripetute restrizioni. Ogni scena (ogni girone, cornice o cerchio) coincide con un’inquadratura fissa, con i personaggi quasi fermi, ostacolati all’azione da rigide messe in quadro e impallati da tantissimi elementi in primo piano davanti a loro, che siano arredi, automobili, animali e gruppi di donne velate. Con una sola eccezione: la Vespa che, guidata da Sadaf – Virgilio – conduce Bahram da un incontro all’altro, come in Caro Diario, evidenziando con gli unici movimenti di macchina presenti nel film i tentativi di reazione dei protagonisti.

Ma l’azione vera, la vera selezione dei reali possibili, resta sempre fuori dall’inquadratura: qualcuno, “dall’alto”, ha già deciso tutto al posto loro e il film non verrà mai proiettato. Il racconto procede proprio nella sua impossibilità di concludersi: ciò che doveva accadere è già accaduto, prima dell’inquadratura, fuori dall’inquadratura. Il fuori campo, come in Kiarostami – citato dai fratelli Ark –  è dove risiede la volontà: noi possiamo solo ascoltarne le voci, osservarne gli effetti.

In più di una scena i personaggi, agiti da altri, sono seduti davanti a schermi cinematografici, mai mostrati allo spettatore; ne sentiamo il suono e ne vediamo i riflessi, le reazioni. Nel finale, tutti i personaggi sono richiamati urgentemente davanti allo schermo. Finalmente possiamo ora vedere ciò che viene proiettato e non si tratta del film di Bahram: è l’8 dicembre 2024, quando in Siria, Bashar al-Assad, alleato dell’Iran e sostenuto anche dalle sue milizie, è caduto dopo anni di guerra civile. Il pubblico accorso per il film osserva le immagini verticali girate dagli abitanti di Damasco con le statue abbattute e la folla che inneggia alla libertà: è la storia, l’azione inarrestabile che fa irruzione nel film, così come nella società iraniana. E come Dante, anche gli spettatori restano senza parole.

Riferimenti bibliografici
D. Cecchi, Abbas Kiarostami, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2013.

Divine Comedy. Regia: Ali Asgari; sceneggiatura: Alireza Khatami, Bahram Ark, Bahman Ark, Ali Asgari; interpreti: Bahram Ark, Sadaf Asgari, Hossein Soleimani, Bahman Ark, Mohammad Soori; fotografia: Amin Jafari; montaggio: Ehsan Veseghi; musica: Hossein Mirzagholi; produzione: Seven Springs Pictures, Taat Films, Kadraj, Zoe Films, Salt for Sugar Films Studio Zentral; distrubuzione: Teodora Film; origine: Iran, Italia, Francia, Germania, Turchia; durata: 98′; anno: 2025.

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