Comincerei dal titolo. Come spesso succede in Italia, il titolo scelto per il film di Ali Asgari e Alireza Khatami, Kafka a Teheran, è inventato e non riprende quello originale, che suona Āyehā-ye zamini, citando i Versi terrestri di Forough Farrokhzad, la più grande poeta iraniana del Novecento. Vale la pena dirlo, perché c’è poco di kafkiano nel film di Asgari e Khatami. In comune con le atmosfere di molti romanzi e racconti dello scrittore praghese c’è la presenza di un potere opprimente. In Kafka, però, il potere è assurdo ma indiscutibile: apre uno squarcio sulla dimensione metafisica dell’esistenza umana. Nei dieci episodi che compongono il film di Asgari e Khatami, invece, il protagonista di turno fa esperienza di diverse figure di potere: l’impiegato, la madre, il datore di lavoro, il poliziotto o la poliziotta, lo psicologo, il funzionario ministeriale, la preside. Ma l’immagine che prende forma attraverso i nove episodi del film è quella di un potere ipocrita, subdolo e ambiguo.

Se la cornice che fa da sfondo al film, il suo fuoricampo costante, non fosse il feroce regime totalitario degli ayatollah, lo stile di questo film, a tratti perfino ironico, potrebbe essere paragonato al tono grottesco con cui la commedia all’italiana ha saputo mettere alla berlina i potenti, piccoli e grandi, dell’Italia del boom economico. Ma appunto lo sfondo qui è un altro. Un titolo italiano più vicino allo spirito di questo film avrebbe potuto essere I mostri iraniani, oppure I mostri invisibili, dato che non vediamo mai il volto del potente di turno con cui ha a che fare il protagonista di ciascun episodio.

Il film si apre con una panoramica notturna su Teheran, una città immensa, punteggiata di luci e grattacieli. Non è solo un modo di restituire la scena in cui si svolgono le storie raccontate. Questa scelta mette Kafka a Teheran in un dialogo ideale con un altro film iraniano: Shatranj-e baad (Gli scacchi del vento) di Mohammad Reza Aslani. Uscito nel 1976 e scomparso dopo la rivoluzione del 1979 per poi essere riscoperto negli anni duemila, Shatranj-e baad si svolge agli inizi del XX secolo in una casa aristocratica di Teheran, dove si consuma uno scontro per l’eredità della famiglia. Quando il dramma per la ricchezza e il potere si consuma con la morte di tutti i contendenti, la macchina da presa, fino a quel momento chiusa nello spazio della casa, si apre al panorama cittadino, che però con un salto temporale diventa quello della Teheran moderna, dove stanno sorgendo grattacieli e quartieri moderni. Kafka a Teheran inizia dove finisce Shatranj-e baad: quella città moderna è cresciuta a dismisura ed è in crisi. Tanto Shatranj-e baad ha i toni del dramma storico viscontiano, quanto Kafka a Teheran è grottesco al pari di certe commedie italiane. In entrambi i casi, però, viene messa in opera una forma di realismo più che di neorealismo. Il racconto della società qui prevale sull’istituzione di uno sguardo soggettivo sulla realtà, che ha ispirato invece diverse generazioni di registi iraniani, da Kiarostami a Panahi.

Il filo conduttore del film è la sete di libertà, che va dalla libertà di scegliere un nome straniero per il figlio appena nato, alla libertà della donna, sia essa una bambina in procinto di entrare a scuola o una ragazza, di non indossare il velo, fino alla libertà di una matura signora di possedere un cane, o alla libertà di un regista di girare il suo film senza censure preventive. Formidabile, visto in Occidente, è l’episodio della bambina che si esercita a ballare davanti allo specchio di un negozio, mentre la madre sta scegliendo la divisa provvista di velo per la cerimonia “dell’inizio dei doveri”, a cui la figlia dovrà partecipare a scuola. L’inizio dei doveri indica ovviamente l’inizio dell’obbligo a portare il velo, dal momento che la bambina è ormai considerata una donna che deve difendere la sua onorabilità. L’immagine di una bambina tutta presa dal suo divertimento in un film occidentale introdurrebbe al tema dell’indifferenza dei giovani verso le parole e le opinioni degli adulti. Qui porta al contrario alla manifestazione di una libertà che rivendica i suoi diritti anche negli aspetti più frivoli e quotidiani della vita: lo capiamo quando vediamo tornare in campo la bambina, che abbiamo già visto in felpa, jeans e con una cuffia dotata di finte orecchie da gatto per sentire la musica, tornare trasfigurata con il velo integrale, che strappa dal suo volto ogni ombra di allegria.

Se nel film la libertà si palesa in tutte le sue sfumature e in tutti i suoi significati, il potere è una presenza invisibile, di cui sentiamo sempre solo la voce, e di cui intravediamo la mano che si allunga viscidamente verso la propria vittima, come nell’episodio della giovane donna che riceve velate proposte sessuali nel corso di un colloquio di lavoro. Anche se è invisibile, la fisionomia di questo potere è evidente: non difende alcuna presunta moralità, ma permette a chi si inserisce nelle sue pieghe un regime di oppressione diffusa. Assistiamo alla rappresentazione di una “microfisica del potere”, che consente a chiunque si trovi in una posizione di autorità di trarre il proprio vantaggio personale da un sistema di regole pensato per esercitare un controllo capillare della vita delle persone.

Come dice la poliziotta alla ragazza accusata di aver guidato la macchina senza velo sulla base di un’immagine scattata da una videocamera di sorveglianza, non esiste uno spazio privato di libertà in questo regime. Ma questa condizione non ha per effetto di sradicare la presunta ‘immoralità’ degli individui ‘devianti’, ma consente solo ai controllori di esercitare il loro arbitrio sulle vittime casuali della loro autorità: così lo psicologo incaricato di rinnovare la patente del giovane Ali approfitta del fatto che il ragazzo ha dei tatuaggi sul corpo per costringerlo a spogliarsi di fronte a lui. La sola cosa che può fare il ragazzo, denudandosi il braccio per mostrare la poesia di Rumi che si è tatuato, è quella di tenere il braccio alzato con il pugno chiuso, in un segno di resistenza all’oppressione. Ma appunto non c’è una soluzione a una simile oppressione: c’è solo la sopravvivenza. O la rivolta.

Shatranj-e baad uscì tre anni prima di una rivoluzione, le cui speranze di libertà furono presto tradite. L’auspicio è che il futuro dell’Iran e degli iraniani di oggi sia un altro. Nel finale, il film immagina questa fine del potere e per la prima volta ce ne mostra il volto: è un vecchio addormentato alla sua scrivania, sommersa di fogli, penne e con un immancabile bicchiere di succo di frutta. Alle sue spalle, nel suo ufficio si apre una vetrata sulla Teheran dei grattacieli, che improvvisamente trema e crolla per un terremoto. Il vecchio addormentato nemmeno se ne accorge. Per ora ciò che sappiamo è che, al ritorno da un viaggio all’estero, ad Ali Asgari è stato ritirato il passaporto dalle autorità iraniane.

Kafka a Teheran. Regia: Ali Asgari e Alireza Khatami; sceneggiatura: Ali Asgari e Alireza Khatami; fotografia: Adib Sobhani; montaggio: Ehsan Vaseghi; interpreti: Majid Salehi, Gohar Kheirandish, Farzin Mohades, Sadaf Asgari, Hossein Soleimani, Faezeh Rad, Bahram Ark, Sarvin Zabetian, Arghavan Shabani, Ardeshir Kazemi; produzione: Taat Films, Seven Springs Pictures, Cynefilms; distribuzione: Academy Two; origine: Iran, Lussemburgo; durata: 77′; anno: 2023.

Share