Di che cosa è fatta, alla fine, una vita? Infanzia, giovinezza, famiglia, lavoro, amori, gioie e tristezze, malattie. È vero, i “fatti” di una vita sono questi, più o meno. Ma questi sono, appunto, soltanto fatti. La vita di un essere umano passa attraverso quei fatti, ma non si identifica con essi. Facciamo l’esempio della vita di un gatto. Anche per lui ci sarà stata una giovinezza, degli amori, giornate buone e giornate cattive, fame ed eccitazione, corse e topi, fusa e cani. Alcuni di questi fatti sono paragonabili a quelli di un essere umano, altri no. Ma siccome non sono che fatti, e i fatti non sono nient’altro che fatti, se davvero una vita non fosse altro che la somma dei fatti di cui si è intessuta, che differenza ci sarebbe fra la vita di un gatto e quella di un essere umano? Si potrebbe subito rispondere che non c’è nessuna differenza, che la vita di un gatto vale quella di un uomo.
Forse è vero, anzi, è sicuramente vero, se proviamo a vedere le loro esistenze dal punto di vista del mondo, della storia infinita e impassibile del mondo. Questo non toglie, tuttavia, che c’è, o almeno può esserci, una differenza fra la vita del gatto e la vita di un uomo. Forse non di tutti gli esseri umani, molti dei quali, in effetti, sembrano vivere delle esistenze molto simili a quelle di un gatto. Più complesse, per molti aspetti, ma anche molto simili; esistenze che vivono la vita che vivono senza farsi troppe domande, su che tipo di vita sia, la vita che gli è capitata. In questo senso possono esserci vite umane molto simili a quelle feline. Forse addirittura queste vite sono la maggioranza delle vite umane. Vite, potremmo dire, del tutto naturali, non nel senso sciocco che sono vicine alla “natura”, bensì nel senso che sono vite che vivono naturalmente, come appunto può vivere un gatto, o una pianta di basilico.
Ma ci sono degli esseri umani, invece, che questa domanda se la pongono. E non per presunzione, perché siano migliori o più intelligenti di quelli che al contrario queste domande non se le pongono. Per qualche ragione – non è importante quale sia – se la pongono. Il problema è che se una volta questa domanda viene posta, non è più possibile tornare a vivere come un gatto. Perché è quel tipo di domanda che trasforma la vita in una specie di problema. La vita del gatto, abbiamo appena visto, è la vita che gli è capitata. A tutti, e non solo ai viventi, capita una certa vita, quella vita che è toccata a noi e solo a noi. Anche ad un sasso, in fondo, capita la vita che gli è capitata, dentro le profondità di una montagna, sul greto di un torrente, oppure in un pilastro di calcestruzzo.
Nessuno sceglie la vita che gli capita. Da questo punto di vista siamo tutti come il gatto, o il sasso. Però a qualcuno viene in mente che gli è capitata una certa vita. Questo vuol dire che ci sono persone che vedono la propria vita, così come il gatto vede il topo, oppure il sasso tocca un altro sasso. Vedere la propria vita significa vedersi vivere. Significa, in sostanza, che la vita diventa un problema. Non nel senso di un problema che possa essere risolto, bensì nel senso che la vita viene vista come qualcosa che richiede, da parte di chi la sta vivendo, una presa di posizione. Qualunque cosa vediamo, o ci piace, o non ci piace, o ci lascia indifferenti. Vedere vuol dire valutare, sempre.
Torniamo al gatto; quando ha lo stomaco pieno e un cofano caldo su cui accucciarsi, è contento, così come sarà molto scontento quando deve correre su per un albero per scappare ad un cane. Però la sua vita è questa qui, non c’è molto da aggiungere. Certe volte questa vita gli piace, certe volte non gli piace. Punto. Il fatto è che il gatto non è altro che quel piacere, o quel dispiacere. Vedere la vita come problema, invece, non vuol dire giudicare la propria esistenza, lamentarsene o apprezzarla. Significa però che la vita che ci è capitata sta lì, davanti a noi, anche se noi non siamo altro che quella stessa vita. Chi vede la vita in questo modo è un filosofo. In fondo un filosofo non è altro che qualcuno che vede la propria vita. Questo vuol dire, però, che il filosofo non è chi studia o insegna filosofia. Per essere filosofo nel senso che ho provato a precisare non serve essere filosofi di professione. Questo non significa che non ci siano filosofi che anche studiano o insegnano filosofia. Il punto è che un filosofo può essere filosofo anche se non ha nulla a che fare con la Filosofia, e tantomeno con l’Università. Oggi è di moda sostenere che l’università ostacola la filosofia. Non è vero. Spesso non l’aiuta, ma può anche diventare un luogo dove vivere filosoficamente. Quindi se è vero che il filosofo non necessariamente ha a che fare con la Filosofia, non è neanche vero il contrario.
Ora, per vedere la propria vita, è necessaria una certa distanza da quella stessa vita. Da vicino ne siamo troppo presi per poterla osservare. Questo significa essere vecchi. In un certo senso il filosofo è un vecchio, è sempre vecchio, anche quando è giovanissimo. Ma se si è vecchi anche da giovani allora il filosofo, se ci si pensa bene, non è mai vecchio. Non è nemmeno mai giovane. Non è né vecchio né giovane. Se osservate una fotografia di Giorgio Agamben, è proprio quello che potete notare. È un uomo dall’espressione assorta, spesso sorridente, di cui non si può dire che sia vecchio, anche se non si può nemmeno dire che sia giovane. Se c’è un viso filosofico, è proprio quello di Agamben.
Nel suo ultimo libro, Autoritratto nello studio, Agamben affronta proprio questo nodo centrale per la vita di ogni filosofo in quanto filosofo. E quindi in questo libro parla della sua vita, delle persone che ha conosciuto e amato, dei luoghi in cui ha vissuto, dei libri che ha letto. Cioè, dei suoi incontri. Una vita non è altro che questi incontri. Gli incontri, come sappiamo da Lucrezio, sono casuali. Il punto è proprio questo. Gli incontri sono casuali, quindi le nostre vite non sono affatto “nostre”, perché non sono altro che la serie degli effetti (questi invece del tutto necessari) di questi incontri. Certo, lo sappiamo bene, siamo tutti convinti di essere gli artefici dei nostri destini (oggi ci viene chiesto di essere il manager di noi stessi). Ma sappiamo anche altrettanto bene che non è vero, che non c’è nessuno che controlla la nostra vita, che vivere non vuol dire altro che assistere stupiti alle nostre stesse esistenze.
Questo è il problema della vita filosofica. Se noi siamo i “nostri” incontri (che in realtà non sono nostri per nulla), si tratta di diventare quegli stessi incontri. Coincidere con sé stessi. Ma che vuol dire? C’è una enorme differenza fra avere questo corpo che ci è capitato, ed esserlo. Diventare il proprio corpo significa fare qualcosa del corpo che ci è capitato. Così come diventare la propria vita significa fare qualcosa della vita che ci è capitata. Una vita filosofica non è altro che questo lavoro per incarnare la propria stessa esistenza. Come abbiamo visto non c’è nessun particolare onore ad essere un filosofo, rimane però che per alcuni – i filosofi, appunto – la vita fa problema. Una vita filosofica è la vita di un gatto che vuole diventare un gatto fino in fondo.
Il filosofo vive la vita che vive. La sua è una vita transitiva, vive la vita. Il gatto, invece, intransitivamente vive. Per questo il filosofo è contemporaneamente dentro e fuori la sua vita. Ma attenzione, il filosofo vive in questo strano modo proprio perché, in fondo, invidia il gatto, invidia la “sua” vita “naturale”, tutta mondana e terrena. Il filosofo è il diventare-gatto di un essere umano. Ma intanto, dove vive il filosofo? Se il ragno vive sulla ragnatela, le nuvole in cielo e l’oro nel forziere, il filosofo vive nel suo studio. Ecco perché Autoritratto nello studio. “Una forma di vita che si mantiene in relazione con una pratica poetica, quale che sia, è sempre nello studio, è sempre nel suo studio” (p. 13). Il filosofo è il suo studio. Una “pratica poetica” è appunto il fare del filosofo, quello che scrive. Il filosofo scrive, non è tanto che parli in pubblico o esprima pareri. Può succedere, ma non è il suo proprio. Il filosofo è quello che scrive. Qui è importante sottolineare questo punto, il filosofo coincide con la sua vita poetica, cioè con la sua scrittura, con il suo studio. In questo senso è una “forma di vita”. È la particolare forma che assume la vita del filosofo. Il filosofo vive nel suo studio, non perché non ne esca mai, ma perché la sua vita, in quanto vita filosofica, è tutta là dentro: “habito è un frequentativo di habeo; abitare è un modo speciale dell’avere, un avere così intenso da non possedere più nulla. A furia di avere qualcosa, l’abitiamo, diventiamo noi” (p. 14). Diventare la propria vita, diventare i propri incontri, rendere necessario quello che casualmente ci è successo. Significa scegliere ciò che non abbiamo scelto. E che non possiamo scegliere, perché nessuno sceglie la vita che gli è capitata. Allo stesso tempo la vita del filosofo è appunto questa impossibilità, abitare la propria stessa vita. Uno abita in una casa, non è la casa, perché può sempre cambiare abitazione. Eppure è proprio questo che fa il filosofo, abita la propria vita – cioè ciò che nessuno può scegliere – come se fosse una vita che ha scelto.
La vita di Agamben, come la vita di ciascuno di noi, è i suoi incontri, come abbiamo detto. Ma un incontro può essere un semplice e fortuito incontro, oppure quell’incontro non smette mai di incontrarci. Questo vuol dire diventare quell’incontro; ad un certo punto Agamben scrive, infatti, parlando dei suoi incontri (ad esempio quello giovanile con Martin Heidegger) che sono “continui” (p. 16). Appunto, non smettono di incontrarlo. In un certo senso, anche se questo Agamben non lo dice esplicitamente, gli incontri sono “continui” perché dobbiamo “meritarci” gli incontri che ci hanno toccato. I buoni come i cattivi. Meritarsi un incontro significa fare qualcosa di quegli incontri. Rendere necessario ciò che fu soltanto casuale. Farne la propria vita. A questo riguardo è lo stesso Agamben che osserva come dei primi incontri con il filosofo di Essere e tempo non sapesse bene che fare, al momento in cui avvennero: “perché, se quanto ai sensi e al paesaggio l’appuntamento era stato oltre modo felice, per quanto riguardava il seminario qualcosa era rimasto inappagato o in sospeso” (p. 26). Ci vuole tempo per diventare i propri incontri. Ma diventare i propri incontri significa, e qui si vede come sia difficile questo lavoro, questa “forma di vita”, che di noi alla fine non rimarrà altro che questi incontri. Il filosofo, anche se a molti sembrerà difficile accettarlo, è il contrario della persona piena di sé; il filosofo è letteralmente vuoto di sé (“extra è il luogo del pensiero”, p. 58), è un incessante movimento per svuotarsi di sé: “il bene” delle nostre vite, “è indiscernibile dal nostro annullarci in lui” (p. 30), cioè nel bene. “Esso vive solo nel sigillo e nell’arabesco che vi segna il nostro scomparire” (ibidem). Il filosofo vuole diventare il bene, ma questo significa diventare un gatto, non dimentichiamolo.
Il paradosso di questa situazione è che per diventare un gatto, occorre letteralmente affondare in sé stessi. Solo quando si è svuotata la nostra vita, finalmente coincidiamo con essa. Si pensi al rapporto di un filosofo con i libri che ha letto, con gli altri filosofi, ad esempio. Si tratta di incontri. Se il punto in questione è diventare quegli incontri, ne deriva che il lavoro del filosofo è massimamente creativo e originale proprio quando rimane del tutto aderente ai libri di questi altri filosofi. Solo se il filosofo li fa suoi, può essere sé stesso: “abitare era per me vivere con la massima possibile intensità queste amicizie e questi incontri: io sono un epigono nel senso letterale della parola, un essere che si genera solo a partire da altri e non rinnega mai questa dipendenza, vive in una continua, felice epigenesi” (p. 42).
Tutto il libro di Agamben è percorso da questa tensione verso una vita nel “bene”, cioè una vita che aderisce senza sbavature a sé stessa. In questo senso è un bene che non ha nulla di morale, semmai di estetico, una vita perfetta, e quindi anche – a suo modo – bella. Anche le fotografie e le immagini che si osservano fra le pagine, rendono il senso di questo movimento. Non sono testimonianze, piuttosto mostrano la vita che Agamben è stato e continua ad essere (qui torna il “bene”, che vuol dire, semplicemente, che non manca di nulla, come la vita del gatto). Non si tratta di vedere la vita di Agamben, al contrario, è Agamben che non è altro che queste immagini, questi incontri “continui” che non smettono di avvenire. Questa coincidenza fra corpo e vita, fra pensiero ed esistenza, fra immagine e mondo è ciò, in particolare, che Agamben più ammira nei suoi amici, come il pittore José “Pepe” Bergamín, che “era perfettamente sé stesso, perché non era mai sé stesso. Era come una brezza o una nuvola o un sorriso – assolutamente presente, ma mai costretto in un’identità” (p. 60).
La vita filosofica è, allora, questa vita che non cessa di muoversi verso la vita, di diventare vita. Ma per diventare la vita che si vive non c’è più alcun bisogno di sé stessi come persone, con nome e cognome e codice fiscale. La vita è questo movimento che non conosce interruzioni, né burocrazia né identità, né passato né presente: “in questo libro – come nella mia, come in ogni vita – i morti e i vivi sono compresenti, così vicini ed esigenti che non è facile comprendere in che misura la presenza degli uni e degli altri sia diversa” (p. 165). Diventare vita vuol dire, come succede al gatto, non avere memorie da ricordare né progetti da realizzare. Non perché il passato non conti o il futuro non sia importante; ma perché se siamo vita siamo già ― e da sempre ― quel passato e quel futuro.
E così la figura finale di questo libro è l’erba, così cara a Kierkegaard come a Deleuze: “se dovessi ora dire in che cosa io ho messo finalmente le mie speranze e la mia fede, potrei solo confessare a mezza voce: non nel cielo – nell’erba. Nell’erba, in tutte le sue forme” (p. 166). L’erba, umile, calpestata e allegra, verde o gialla, morbida o pungente. Erba vuol dire vita, mondo, terra (l’erba e non l’altissimo “cielo” della religione come della politica). “L’erba, l’erba è Dio” (p. 167). Ma Dio, rassicuriamo i materialisti sempre pronti a criticare i filosofi, vuol dire, appunto, terra, fango, acqua, “erba” appunto. Non c’è niente di più materialistico, ma anche dolce e innocuo, dell’erba. Si chiude così con un verso, o con una preghiera, l’ultimo libro di Giorgio Agamben (ma anche il primo, per quello che abbiamo provato ad argomentare finora; perché in fondo Agamben non ha fatto che scrivere questo libro, questa vita, da quando ha cominciato a scrivere, a vivere): “Nell’erba – in Dio – sono tutti coloro che ho amato. Per l’erba e nell’erba e come l’erba ho vissuto e vivrò” (ibidem).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Autoritratto nello studio, Nottetempo, Milano 2017.
M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005.