In questi tempi conformisti e piccolo borghesi l’esperienza «mistica» non ha buona reputazione – come se fosse qualcosa di antiquato, propria di persone arretrate e irrazionali (roba da no-vax) – tuttavia in tutti noi umani esiste qualcosa che potremmo chiamare una «pulsione mistica». Si tratta dell’esperienza in cui sentiamo, e ripetiamolo, prima o poi capita a tutte di provarla, di fare parte di qualcosa di più ampio ed esteso della nostra individualità cosciente (il nostro ridicolo e presuntuoso io); in realtà la «pulsione mistica», propriamente, non consiste nel sentirsi una parte di un tutto, bensì nel sentire il tutto in sé, e quindi non sentirsi come un sé individuato e distinto. La «pulsione mistica», allora, è la tentazione nel non sentirsi più una parte di qualcosa. In questa condizione è il tutto che si sente in me, non il contrario. Ma questo significa che non c’è più parte né tutto, c’è solo il pieno del mondo. Il continuo del mondo.
Che cos’è, in effetti, il movimento ecologico che confusamente si sta imponendo all’attenzione collettiva se non il sentimento mistico che la distinzione fra io e mondo non solo è, come detto, ridicola, ma anche sostanzialmente sbagliata? C’è il mondo, c’è la miriade di forme del mondo, un mondo che si esprime anche attraverso quella che chiamo, senza ragione, la mia voce. Perché come parlare di mio e tuo se non c’è alcun io che possa pretendere di esistere in modo indipendente dal mondo? Tuttavia l’esistenza stessa di questa pulsione (che, fra l’altro, dimostra come la crisi delle religioni, almeno nelle parti ricche del mondo, non coincida affatto con la scomparsa dell’aspirazione al sacro) attesta che l’atteggiamento normale rispetto al mondo e al sé è diametralmente opposto. Si pensi al primato mondiale della digitalizzazione informatica, che dimostra al contrario come tutto, ma proprio tutto, è ormai pensato in termini di entità separate e discrete. Da una parte il numero, dall’altra la pulsione mistica. Da una parte, ed ormai è quella assolutamente vincente, il discreto, dall’altra il continuo e il pieno. Di questa fondamentale distinzione si occupa in modo magistrale Paolo Zellini, nel Discreto e continuo. Storia di un errore (Adelphi, 2022).
Qual è l’errore? «Di solito», scrive Zellini, «ci si rappresenta il continuo come un prius, un insieme ideale, completo, ovunque denso e connesso, da contrapporre ai processi computazionali discreti che ne approssimano gli elementi, numeri o punti che siano»(Zellini 2022, p. 22). Torniamo alla pulsione mistica, la cui stessa esistenza dimostra che per la mentalità quotidiana, e non solo quella dell’ingegnere informatico, all’inizio c’è il discreto, cioè la separazione in parti numerabili. In effetti, può desiderare il pieno solo chi se ne senta separato. Come dice la celebre massima del matematico e logico tedesco Leopold Kronecker (1823-1891), «Il buon Dio ha creato i numeri interi, tutto il resto è opera dell’uomo». All’inizio c’è il numero, non l’intero. All’inizio c’è il discreto, cioè la parte e la separazione. È interessante che per Kronecker sia stato lo stesso Dio a inventare il numero (più semplicemente, Dio è il numero, cioè il discreto); in effetti se fin dall’inizio ci fosse stato solo il pieno, cioè il continuo, non ci sarebbe nemmeno stata alcuna pulsione mistica. Nel paradiso nessuno crede in Dio, dal momento che non c’è alcuna separazione fra le creature e Dio. In questo senso l’esistenza dei numeri è una sorta di (maligna) astuzia divina per istillare negli esseri umani il desiderio di un ricongiungimento con il divino. Ma questo significa, è la tesi fondamentale di Zellini, che all’inizio non c’è il continuo: «Prioritario in origine non era ciò che oggi chiameremmo il continuo, bensì qualcosa di molto più affine ai processi computazionali discreti» (ivi, p. 22).
All’inizio c’è la separazione, cioè il discreto. In effetti, osserva Zellini, quando proviamo a pensare il continuo in realtà ce lo rappresentiamo non direttamente come qualcosa di pieno, bensì e al contrario, come qualcosa di non diviso, cioè appunto di non discreto: sembrerebbe che noi abbiamo bisogno, in un certo senso, del discreto per concepire il continuo. Pensiamo al continuo come un non-discreto: «Il discreto sembra allora avere preceduto il continuo» (ivi, p. 77). Questa tesi rovescia un luogo comune della filosofia contemporanea (il cosiddetto realismo speculativo, con tutti i diversi realismi che ne seguono) che invece pretende di potere garantire un accesso diretto – non mediato, non discreto – all’esperienza del mondo. Ma come può, un’entità individuata, discreta, numerabile, avere una relazione non discreta (cioè che non presuppone una separazione e una distanza) con il continuo del mondo? Come può una parte fare esperienza del tutto indiviso?
Come succede sempre con i cosiddetti problemi filosofici, questo in realtà non è un problema propriamente o principalmente filosofico: la posta in gioco del libro di Zellini, infatti, è come pensare il nostro umano rapporto con il mondo. Come pensare il mondo come continuità e non come luogo del discreto e del calcolabile? Anche se Zellini si occupa esplicitamente di un classico problema della storia della matematica (spaziando anche, però, fra letteratura, mitologia, storia delle religioni), in realtà pone un problema affatto urgente, forse l’unico vero problema nel tempo del global warming e dell’Antropocene: come impostare su basi diverse il rapporto fra la specie Homo sapiens e il mondo che ritiene essere a sua disposizione? Cosa comporta ammettere che all’inizio c’è il discreto? «Sarà sempre più difficile sostenere la tesi che il discreto è un’approssimazione del continuo, mentre sarà più plausibile sostenere la tesi contraria, che è piuttosto il continuo ad essere concepito come approssimazione del discreto» (ivi, pp. 326-327).
Ci sono almeno due conseguenze di questa tesi. La prima è che non è mai esistito, per la specie umana, un tempo naturale di armonia e non separatezza dal mondo. Se il discreto è originario, allora fin dall’inizio l’umano ha pensato sé stesso e il mondo come entità separate, non continue appunto. Detto in un modo più brutale: la specie umana non è mai vissuta nel paradiso. Quindi il superamento della crisi ecologica non consiste in un ritorno allo stato naturale, perché uno stato del genere (ricordiamo la massima di Kronecker) non è mai esistito. L’unica natura a cui possiamo avere accesso è una natura pensata a partire dal discreto e quindi dalla separatezza. Seconda conseguenza, che Zellini non esplicita, ma che percorre tutto il libro: se il continuo lo possiamo pensare solo come non-discreto, allora si tratta di immaginare un percorso – in questo consiste propriamente la «pulsione mistica» – in cui il discreto alla fine approda al continuo. Ma che cos’è questo movimento dal discreto al continuo se non un percorso dal numero al sacro? In questo senso la «pulsione mistica» ci porta oltre noi stessi, ossia oltre la nostra apparentemente insuperabile tentazione a pensare tutto in termini di numeri, segni e computazioni. Siamo creature del discreto, ma solo il pensiero del continuo può salvarci:
Noi comprendiamo realmente solo i processi che si svolgono nel discreto, ma gli stessi processi sono pure guidati da ‘immagini incerte e confuse’, per usare le parole di Dedekind, in cui il nostro pensiero si combina con qualcosa che non c’è, e che è pur necessario presupporre. Le stesse leggi del numero, la cui origine rimane enigmatica, possono iscriversi in un contesto molto più ampio, che comprende ogni atto linguistico, ogni possibile segno o forma di espressione di cui sono palesi l’insufficienza e l’inadempienza rispetto al mare infinito dei possibili significati, rimandi e riferimenti. Il continuo e l’infinito si sottraggono alla nostra effettiva capacità di comprensione, che può invece basarsi sull’intuizione del finito e del discreto […]. Nelle tenebre di quell’abisso, di quella totalità amorfa e indefinibile che, non diversamente dall’ἄπειρος greco, ci circonda da ogni parte, non smette mai di brillare immutato un tesoro, da cui provengono le teorie, ispirate da una preconcezione del continuo, che danno senso e orientamento ai processi del discreto. In quello stesso tesoro, in quel centro imperscrutabile di irradiazione, si sono depositati nei secoli e nei millenni innumerevoli tentativi di decifrarne l’ultimo e più segreto significato (ivi, pp. 332-333).
Paolo Zellini, Discreto e continuo. Storia di un errore, Adelphi, Milano 2022.
*In apertura e copertina The Garden of Eden (Brueghel, 1612).