…Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali
Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa

Rivedere – approfittando di una messa in onda fuori orario e in streaming – Diario di un maestro (1973), film in quattro puntate di Vittorio De Seta, innesca un cortocircuito col presente. Tanto più se docente o discente (ma, al di là di distinzioni per qualifiche professionali, entrambi non cessano di formarsi, studiare, ed essere valutati), la mente dello spettatore contemporaneo (della pandemia) si scopre tentata di investire la visione anche col proprio sentimento della situazione dell’istruzione in tempi di Coronavirus. Esercizio inane, certo, è cercare nello schermo della visione (benché sia il medesimo sul quale transita la didattica a distanza) un riflesso, che si sa impossibile, delle pratiche d’insegnamento contemporanee. Possibile, invece, riconoscerlo come luogo di riflessione, filtrante analitico del presente, più che un suo incompatibile reagente, per più ragioni.

Diario di un maestro, intanto, non è soltanto un film “sulla” scuola, quanto un film che nella sua scrittura replica e mostra la scuola stessa, o meglio ciò che essa dovrebbe/potrebbe essere. Vi è, intanto, in entrambi i casi, un programma a monte da seguire: la pianificazione dei “contenuti” di cui fare oggetto di insegnamento, da un lato; dall’altro, un soggetto, che è il libro Un anno a Pietralata, di Albino Bernardini, resoconto di una sua esperienza di docenza in una scuola del Tiburtino III, alle prese con l’abbandono scolastico di bambini-lavoratori e abitanti di baracche. Ma, come è noto, il film non è la trasposizione del testo, il libro non è più che una traccia che ne definisce l’universo oggetto di racconto. Diario di un maestro, invece, si scrive, si fa e si gira, attingendo da fatti ed esperienze che davvero hanno avuto luogo in fase di riprese. Che non sono a monte in programma (che non sono la trascrizione/trasposizione del libro di Bernardini), ma programma diventano, si fanno occasione di racconto, innesco delle scene e “argomento” delle lezioni che il maestro D’Angelo (l’attore Bruno Cirino) non “fa” ai suoi alunni (piccoli “non professionisti” di Pietralata e della Torraccia), ma costruisce con loro.

Così, quando i ragazzi non attori davvero trovano le lucertole nei prati, prende avvio il racconto filmico di una ricerca di scienze e della costruzione, in classe, di una teca, che diventa anche occasione per esercitarsi a “far di conto”, prendere misure. E poi, un vero passaggio di ruspe che abbattono case fatiscenti, può occasionare un’esercitazione di calcolo (quante persone in media per numero di locali), una riflessione sull’emergenza abitativa che i ragazzi delle baracche conoscono in prima persona o sulle origini del proprio nucleo familiare, e quindi una lezione di storia. L’apprendimento degli sviluppi della Seconda guerra mondiale si fa attingendo dai racconti di nonni e genitori. Si vivifica, così, la lettera altrimenti morta sul sussidiario, distante dal quotidiano di chi è meno assiduo ai banchi perché più spesso ha i piedi nelle marrane, e soprattutto, per sopravvivere, usa le mani per smontare carcasse di auto e smerciarne i pezzi allo “sfascio”, o per vendere ortaggi al mercato.

Il sapere si fa storia e costruzione anche degli studenti, le esperienze educative si nutrono delle loro stesse esperienze (l’esatto opposto dell’adagio “Questa cosa che ti spiego, tu adesso non la capisci, ma stai attento perché da grande ti servirà nella vita”, extrema ratio di tanti insegnanti). E nel racconto di ciò è il film stesso a vivificarsi, a farsi, costruirsi a propria volta, misurandosi anche con l’alea di ogni accadimento ed esperienza fuori programma, anziché limitarsi a trasporre in immagini e suoni i programmi scritti a monte nero su bianco, soggetti, sceneggiature, piani di lavorazione.

Così, non molto diversamente, nella pratica didattica quando è formazione, educazione, stimolo, costruzione e condivisione di saperi, l’attuazione dei programmi non può ridursi a mera trasposizione di informazioni. Non è travaso di nozioni che gli studenti si limitano ad assorbire passivamente, né il docente ne è esecutore-divulgatore. La didattica implica interazione dinamica (come l’esperienza del maestro D’Angelo nel film, e di Bernardini nel suo anno a Pietralata), con tutto ciò che non può a monte pianificarsi (come la costruzione del film di De Seta), e deve invece sempre riscriversi in corso d’opera, rimodularsi, misurando i programmi (anche e soprattutto quelli più rigorosamente prescritti e preparati) con l’inatteso, calandoli nelle relazioni con le singolarità, plurime e diversificate, degli studenti. Ciascuno con le proprie esperienze, saperi pregressi, necessità, interessi, inclinazioni e difficoltà.

Si tratta, in definitiva, di accordare l’insegnamento all’apprendimento, come intuiva Visalberghi, anziché “forzare” e irreggimentare il secondo col primo. Peraltro col rischio di ottenere, nella migliore delle ipotesi, il formarsi di una conoscenza solo nozionistica e libresca, e nei soli individui che possano “assorbirla” prescindendo dal riferimento all’orizzonte di esperienze del proprio mondo quotidiano.

Ora che l’emergenza ha di fatto obbligato la didattica a pensarsi ed effettuarsi altrove dalle aule (ma, in un senso e modi diversi, il maestro del film di De Seta faceva spesso lezione nei prati, come se il luogo delle esperienze formative, delle ricerche, fosse alla fine il mondo tutto) e che la configurazione, in un futuro molto prossimo, dell’istruzione scolastica e universitaria, pare destinata a ridisegnarsi in modo consistente e orientata al “telematico”, il ritorno in presenza (ragionevolmente) si prospetta rischioso nell’immediato. Occorre comunque prendere atto di punti deboli ed eventuali criticità di un tale sistema.

Riagganciandoci a quanto rilevato da Andrea Inzerillo su questa rivista, va detto anzitutto che gli sforzi di studenti, famiglie, docenti nel rispondere adeguatamente all’emergenza, al nuovo corso da questa dettato, e che ha trovato tutti impreparati, sono stati senz’altro notevoli, spesso lodevoli. E tuttavia, gli sforzi che la situazione attuale ha comportato, le difficoltà che per molti comporta (in testa, quelle relative al digital divide, che rischiano di orientare ulteriormente l’istruzione in senso “classista”, e come tale opposta a quella che emerge dal film di De Seta), non sembrano adeguatamente tenuti in conto se non da coloro che li esperiscono, e meno da chi dovrebbe pensare e amministrare istruzione e università.

Si sa che facendo DAD, non basta, ad esempio, esporre un contenuto, trasporlo e trasmigrarlo su un altro canale “così com’è”: nella stessa misura in cui ogni dispositivo detta le proprie regole d’utilizzo, occorre ricalibrare i contenuti, rimetterli in forma altra, pensando a un destinatario assente (gli studenti) che per circa un’ora o più ascolteranno (?) un monologo ininterrotto a inquadratura fissa. E a questo proposito, uno dei rischi (da più parti paventato) che ritornerebbe in gioco nella dimensione della didattica a distanza consiste proprio, in molti casi, nel non andare granché al di là di una mera trasmissione di informazioni a senso unico.

Se l’esito di una tale pratica può essere, come scrive Inzerillo, «l’interruzione di una delle più importanti esperienze di comunità eterogenee che si possa sperimentare» e la riduzione dell’«esercizio collettivo dell’intelligenza» che dovrebbe essere nucleo della scuola (e che è precisamente quello che fa il film di De Seta e il suo maestro), ciò che sembrano tradire certi acritici entusiasmi per la DAD è una concezione del sapere come nozionismo. Come passaggio di contenuti da ascoltare, quindi, non come costruzione di esperienze formative, perché, allo stato attuale, è questa e non altra la concezione delle funzionalità consentite dal dispositivo.

Colpisce, inoltre, quanto poco rilievo abbia sinora avuto, nel dibattito a livello governativo, la ricerca (esclusi gli articoli o le sessioni di videoseminari a distanza “fatti” da chi di ricerca si occupa): come se l’istruzione fosse solo “aule” e non anche laboratori o biblioteche (a proposito: non tutte dispongono di un numero ampio di materiali digitalizzati, e nessuna certo prevedeva una tale emergenza), o ogni altro luogo che alla ricerca consenta di farsi, e a coloro che di ricerca vivono (da precari, s’intende), di effettuarla. Come se i saperi bastasse trasmetterli (indifferente il canale, il medium), e non crearli. Il tutto mentre, al contrario, il lavoro che si fa in università continua, nonostante l’emergenza in atto, a esser soggetto a valutazione permanente. E sempre a proposito di valutazioni, ma degli alunni delle scuole, una recente comunicazione ministeriale insiste sulla necessità assoluta di “mettere i voti” a tutti e comunque. Non è affatto chiaro come si possano valutare gli alunni – nient’affatto pochi – che non sono stati materialmente in condizione di accedere all’offerta didattica digitale, né quindi in grado di lavorare.

Al di là di tutto questo, poiché mi pare sia in gioco un ripensamento dei dispositivi e delle pratiche telematiche attraverso i quali la didattica si effettua, non è superfluo, forse, richiamare un passo di Dewey, che riguarda proprio gli “strumenti” dell’istruzione. Il pedagogista racconta di una spedizione infruttuosa per negozi alla ricerca di forniture e arredi scolastici (scrittoi, sedie, ecc.) che fossero davvero adatti alle esigenze degli alunni. Spedizione che si conclude quando un negoziante candidamente rivela allo studioso di “non avere quel che cerca”, perché tutto ciò che ha in magazzino è pensato per fare ascoltare i ragazzi, mentre Dewey vuol qualcosa che sia adatto a farli lavorare.

Ora, mettendo che il dispositivo (piattaforme, programmi su tablet, pc, smartphone) consenta di lavorare e non solo di ascoltare (ma, appunto, perché questo accada, occorre ricalibrare i contenuti), altro rischio è che nelle condizioni di lavorare (e dunque di apprendere) siano solo coloro già in possesso di mezzi e competenze digitali “adeguati”. Peccato, per gli altri. E che a pensare a come includere gli studenti comunque, siano forse meno i governanti e spesso più i soli docenti, come il maestro di De Seta, che letteralmente andava a pescare i suoi alunni nelle case o sul luogo di lavoro. Facendo già di sé stesso “medium” tra loro e il mondo, e connettendosi, sì, ma alle loro esperienze.

Riferimenti bibliografici
J. Dewey, Scuola e società, Newton Compton, Roma 1976.
F. Lorenzoni, Contro la pigra e ingiusta pretesa di dare voti a distanza, in “Internazionale”, 18 maggio 2020.
A. Visalberghi, Insegnare ed apprendere: un approccio evolutivo, La Nuova Italia, Firenze 1988.

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