Un masochista e un sadico si incontrano. “Fammi male”, implora il primo. “No”, replica perentorio il secondo. È una freddura, ma che la dice lunga sul rapporto di non complementarietà tra sadismo e masochismo. Specie se consideriamo i problemi che la questione ha procurato alla psicoanalisi per oltre un secolo. Freud in primis aveva tentato di cavarsela con un escamotage che dovremmo conoscere: il sadismo è primario, il masochismo la sua complicazione. La formuletta ha però avuto vita breve, tanto che i grattacapi del padre della psicoanalisi al riguardo si sono protratti sino agli ultimi anni della sua vita. Lacan, che di Freud si riteneva il più autentico successore, non è stato da meno. Il nodo sadomasochista si estende nel suo lavoro per una ventina di seminari, dal primo al ventitreesimo per essere pignoli. A questi si aggiunge uno scritto criptico e maledetto, Kant con Sade, in cui il Nostro spara a zero contro l’intera comunità analitica, accusandola di aver ridotto la diatriba tra l’una e l’altra condizione a un triste, tristissimo bilancio: il sadico si procura piacere infliggendo dolore, il masochista subendolo. Come se, per rilanciare la nostra freddura di poco fa, la coppia sadomaso fosse l’incubo degli avvocati divorzisti, la più precisa e reciproca forma di convivenza tra amanti. 

Se Kant con Sade è un testo notoriamente complesso, in parte, è dunque anche a causa della questione che pone. Perché rompere i luoghi comuni, si sa, è semplice. Il difficile arriva dopo, quando occorre rimettere assieme i pezzi. E lo scritto, almeno per le sorti del soggetto sadico, fa il suo dovere, e lo fa in pieno spirito freudiano: articolare una struttura soggettiva che non si esaurisca nella peculiarità di una diagnosi ma, una volta esposta, assuma le fattezze di un’ennesima psicopatologia della vita quotidiana, una sorta di fattore universale, che in diversa misura ci accomuna e ci interpella tutti. Non posso entrare nel merito della questione qui. Quel che posso fare è limitarmi a dire che Lacan, da una parte, salva effettivamente le sorti del sadismo dal triste buon senso. E però, dall’altra, si trova con le spalle al muro: che ne è del masochismo, pertanto? È lo stesso movimento aberrante in cui era incappato Freud, quando si trovò costretto a battezzare un suo saggio “Il problema economico del masochismo”. 

La questione assomiglia al paradosso della negazione. “Non pensare a un elefante”, si dice, ed ecco che d’un tratto appare l’elefante. Tranello che nei nostri termini potrebbe essere riformulato così: “Non pensare a un sadico, quando cerchi di definire cos’è un masochista”. E di solito, a questo punto, il sadico appare. Lacan per primo, dopo l’impresa di Kant con Sade ha accusato il colpo. Come pensare il masochismo da zero, in maniera altrettanto complessa e, soprattutto, senza le allettanti analogie offerte dalla speculazione sadica?

Ora, chi Lacan lo ha letto abbastanza, forse anche troppo, sa che i momenti in cui elogia i suoi contemporanei si contano sulla punta delle dita. E anche quando ciò accade, egli non risparmia ai suoi interlocutori qualche rettifica, uno dei suoi ordinari “bene, ma si può fare di meglio”. Un’eccezione, che guarda caso si compie proprio sulla scia di Kant con Sade è nel Seminario XIV, lezione ventiquattro. Qui Lacan omaggia l’autore di un testo che, parole sue, anticipa “in modo sorprendente” (Lacan 2024, p. 248) tutto quello che c’è da dire sulla questione sadomasochista, e cioè l’argomento più ostico, frainteso e svenduto che il moralismo clinico possa immaginare. Questo autore è Gilles Deleuze, e il testo a cui Lacan fa riferimento è Il freddo e il crudele, uscito nello stesso anno del seminario citato, il 1967. 

Lacan ne rimase talmente colpito che, confessa, arrivò a chiedere di persona a Deleuze se avesse mai avuto esperienza diretta della psicoanalisi, se quelle sue dissertazioni provenissero da un qualche – anomalo – incrocio con la pratica. Alla fine di questa assurda concessione, insomma, Lacan manda gli psicoanalisti a farsi dare qualche ripetizione (scusate il gioco di parole) da Deleuze. Non male per uno che, nel caustico linguaggio di Lacan, fa “soltanto” della filosofia. Gli incroci tra Lacan e Deleuze, parere mio, sono di norma improponibili. Li trovate nelle ardue capriole delle tesi universitarie, che il sadomaso lo mettono in pratica spesso ed eccome: sadiche per chi le scrive, masochistiche per chi osa leggerle, non tutte ma quasi. E questo a maggior ragione se consideriamo che, alla fine, Lacan elogerà le tesi deleuziane, le reputerà plausibili, persino invidiabili, rispettandone con ciò il divario disciplinare. Il fatto, sempre apprezzabile, che si possa pensare bene senza per questo pensare uguale o travisare. 

Io Il freddo e il crudele, a dire il vero, l’ho letto prima ancora di aprire un qualsiasi libro di Lacan, e l’ho riletto diverse volte, dopo e durante, l’ultima in questa occasione. E se è un testo meraviglioso lo è per due motivi, entrambi stupefacenti. Uno per i suoi innegabili pregi. Perché, per certi versi, è migliore di quanto Lacan per primo sia mai riuscito a scrivere in materia. Spudoratamente chiaro, onestamente complesso. L’altro, ahinoi, per il suo tono involontariamente fatalista, di terribile profezia. Per il fatto di aver ipotizzato una soluzione che invece, a oggi, è probabilmente il nostro peggiore problema. Ma andiamo per gradi. 

Cos’è il sadomasochismo per Deleuze? Un «mostro semiologico» (Deleuze 2007, p. 146), un errore procedurale del linguaggio, che si ostina a pensare come compatibili due configurazioni che sono in realtà opposte, se non persino estranee. La tendenza a vedere in due modi di rapportarsi al godimento una sola, unica e monocorde impostazione. Da qui l’esigenza di spostarsi dalla clinica alla letteratura, di tornare a concepire l’uno e l’altro come una «storia» (ivi, p. 143) raccontata in circostanze distanti da autori che hanno vissuto e scritto in contesti storici e sociali irriducibili: il crudele Sade, il marchese blasfemo che per fantasticare i suoi crimini aveva bisogno delle sue istituzioni da profanare; il freddo Masoch, le cui sospensioni estetiche sarebbero state inconcepibili senza la struttura portante del diritto, del contratto moderno. «Bisogna ricominciare tutto», scrive Deleuze, «bisogna ricominciare tutto da un punto situato al di fuori della clinica, dal punto letterario» (ivi, p. 15). Segue una decostruzione della psicoanalisi che dà i brividi: la convivenza, inedita e mai più concepita, tra un istinto e una pulsione di morte; l’autopsia del Super-io, troppo spesso chiamato in causa per spiegare le condotte anziché le strutture; la stratificazione di tre occorrenze della ripetizione, quella che fa legame, quella che uccide e quella, per citare parole non meglio parafrasabili, “che salva… o che non salva” (ivi, p. 128); la critica del rinnegamento feticista, meccanismo onnipotente che non nega la realtà ma, in senso attualissimo, le permette di convivere con l’irreale, che predilige il criterio della coerenza a quello della verità. Sensazionale, ma non è tutto. 

Le grandi opere si apprezzano fino in fondo quando si riesce a scorgervi la possibilità del male. Quando il loro valore è talmente lungimirante da rovesciarsi nell’inammissibile. Adorno e Horkheimer lo avevano fatto con la Critica della ragion pratica, cogliendovi una sfumatura che conduceva il testo di Kant dalle vette dell’etica modello alle profondità della ragione totalitaria, dalla celebrazione incondizionata delle possibilità dell’agire umano al baratro delle coreografie genocide. In modo analogo, scrutare la grandezza del libro di Deleuze ci trascina sull’orlo di un medesimo abisso. La sua tesi più forte, proprio perché avveratasi nella storia, è anche la più pericolosa. 

Il freddo e il crudele è un libro circolare, nel senso che si conclude esattamente come comincia. Nel primo capitolo Deleuze sfodera un’analisi della storia linguistica delle malattie che dovrebbe essere letta a tutti gli studenti di Psicologia del primo anno, quanto meno. In una manciata di pagine, egli ci spiega come molte di quelle che noi reputiamo delle “malattie”, dei “disturbi” della mente o dei “disordini” non siano entità fisse, verità immutabili in attesa di essere scoperte dal vaglio delle scienze, quanto il frutto di una precisa sperimentazione semantica: il clinico che nomina e dunque crea un disturbo è qualcuno che è riuscito a dare un nome proprio a un insieme altrimenti indefinito di sintomi. Che scopre un pianeta in mezzo alla galassia, un’isola nell’oceano. E questa differenza la segna con un nome, il proprio: Cotard, Down, Parkinson, Tourette, eccetera.

Il clinico, sia esso in carne e ossa o parte di un sistema impersonale più ampio, lavora sulle sindromi come l’astronomo sui cieli: farà in modo che disturbi fino a quel momento compressi possano dissociarsi in quadri clinici specifici, separerà uno sciame di sintomi generico in una condizione più nitida, nominerà distintamente ciò che fino a quel momento galleggiava nell’innominabile. Farà sì che – per rimanere sul testo – quel che un tempo era obbligatoriamente possessione, lebbra oppure follia possa avere un’esistenza a sé, districarsi dal mucchio per guadagnare la propria cifra di condizione singolare. Sade e Masoch, non per nulla, sono i due nomi letterari attraverso cui, in tempi e modi diversi, si è arrivati a fare ordine nel caos delle manifestazioni umane. Non solo: si è arrivati a fornire a certe condotte una dignità letteraria, perché la letteratura spiega meglio della ruvida anamnesi il destino delle nostre sventure. Attribuisce dignità al fatto che, in uno stesso tempo, godiamo e soffriamo di ciò che ci lascia impietriti

Non fosse che, in un futuro che la Francia di quegli anni forse avvertiva soltanto come distopico, fiction che deforma la realtà oltre le sue estreme conseguenze, il monito conclusivo di Deleuze sia quanto di più distante egli volesse intendere: «Che le malattie sono denominate attraverso i loro sintomi prima di esserlo in funzione delle loro cause» (ivi, p. 146). L’etiologia, ci dice Deleuze con una sportellata indiretta alla psicoanalisi, è scienza sporca, accanimento terapeutico di chi tramuta la vita del paziente in un’indagine poliziesca. Chi tenta di spiegare il fenomeno con le sue cause è un detective, un investigatore, un federale, qualcuno a caccia di colpevoli, mai un medico, mai un esegeta della natura umana. Chiaro, e corretto, almeno fin qui: ricordate il processo giuridico in cui negli anni novanta psicoanalisti e cognitivisti americani furono chiamati ad appurare la plausibilità o meno di certi traumi sessuali? Il pensiero puro vince sempre, finché la storia, goffa e in ritardo, non lo sovverte nel suo contrario.

La focalizzazione sui sintomi è diventata oggi la soluzione anziché il problema: il motivo per cui i manuali diagnostici enumerino oltre trecento diagnosi, quando in realtà le terapie effettive siano solo una manciata. I grandi funzionari della salute mentale odierna Il freddo e il crudele lo hanno capito meglio di noi, pur senza averlo letto. Si sono resi conto che, assieme all’etiologia, sarebbe bastato tagliare fuori il punto letterario per far deflagrare la sintomatologia in un delirio diagnostico. Che i nomi propri, troppo riconducibili alla responsabilità di chi li mette sui disturbi, potevano essere sostituiti da nomenclature anonime, e per questo potenzialmente infinite. 

È lo stesso cortocircuito che Deleuze, sottovalutandone la potenza applicativa, identifica tra una letteratura pornologica, «che non si lascia ridurre alle funzioni elementari del comando e della descrizione», e una pornografica, «una letteratura ridotta ad alcune parole d’ordine […] a cui fanno seguito descrizioni oscene» (ivi, pp. 21-22). Il DSM è il nostro classico pornografico, un bestseller da comodino le cui diagnosi vengono lette come si leggevano i racconti attorno al fuoco. E a renderlo seriamente pericoloso non è la sua presunta scientificità, da tempo irreperibile, quanto la sua penetrazione nel linguaggio comune. Nello stesso clima di improduttività economica e culturale in cui i nobili tramandavano tra loro Le 120 giornate di Sodoma, noi ci scambiamo a vicenda le trecentoventi diagnosi. È il nostro sollazzo pornografico. L’unica pornografia, forse, a essere davvero malsana. 

Ecco allora che la fine del libro, uno spiraglio aperto nel chiuso, una boccata per dissipare l’aria stantia della vecchia clinica dei nomi propri, si rovescia nella finestra sul nulla del nichilismo terapeutico. Nel dettaglio amaro che abbiamo tralasciato, e che Deleuze, con la solita gentile compostezza, ci continua a sussurrare: «È soltanto a questa condizione che si evita di dissociare l’unità semiologica di un disturbo, e inversamente di riunire disturbi molto diversi sotto un nome malamente inventato, in un insieme arbitrariamente definito da cause non specifiche» (ivi, p. 146).  

Riferimenti bibliografici

G. Deleuze, Il freddo e il crudele, SE, Milano 2007.
J. Lacan, Il seminario. Libro XIV. La logica del fantasma 1966-1967, Einaudi, Torino 2024.

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