Ogni volta che si è spettatori di una storia d’amore in un film asiatico contemporaneo esiste la concreta possibilità che non si stia assistendo soltanto ad una storia d’amore. A differenza del clima culturale europeo, l’atmosfera che si respira lungo le coste dei mari del Pacifico vive ancora le lacerazioni lasciate dai conflitti novecenteschi, dalla guerra fredda e dal colonialismo; e le storie transnazionali di stati come la Cina, il Giappone e le due Coree sono storie d’amore e di odio che spesso albergano nelle narrazioni cinematografiche esprimendosi in allegorie e personificazioni.

Sicuramente un’operazione di paragone fra Decision to Leave (2022) e i più celebri ritrovati nel campo della retorica del film potrebbe apparire pretestuosa, dal momento che il suo carattere poliziesco si sedimenta più vicino agli stilemi della prosa che non a quelli della poesia. Al contrario, invece, di casi da manuale come In the Mood for Love (2000) di Wong Kar-wai, in cui è evidente come si sia potuto parlare di un argomento rilevante – le diversità fra Oriente ed Occidente – senza mai parlarne, lasciando soltanto suggeriti ai margini i referenti di una vicenda che vuole far sentire la macchina da presa e i suoi simboli. Se è vero che «il poeta sceglie una serie di costrizioni espressive, e poi scommette che il contenuto, qualsiasi esso sia, e per quanto esso potesse precedere la scrittura, si adeguerà alle costrizioni espressive, e tanto meglio se ne verrà modificato» (Eco 1985, p. 253), gli obiettivi estetici di Park Chan-wook sembrano allontanarsi da un lavoro di questo tipo in favore di un assetto drammaturgico più classico.

Ciò premesso, l’orizzonte d’attesa – cioè l’insieme delle aspettative di significazione verso un preciso dispositivo semiotico – agisce preventivamente rispetto alle configurazioni della prosa, aprendo una dimensione allegorica del film altrimenti difficile da individuare. La linea dell’orizzonte, dettata dalle recenti tendenze registiche ad allegorizzare prodotti come A Time to Live, a Time to Die (1985), Song of the Exile (1990), Burning (2018) o il più discusso Parasite (2019), suggerisce e prefigura l’idea che certe rappresentazioni dell’estremo Oriente siano auto-rappresentazioni per la ricerca di un’identità nazionale in un contesto dialettico di culture condivise; contesto dentro il quale possono subentrare anche storie all’apparenza prive di sottotesto politico.

La penisola coreana è uno dei territori che in maggior misura ha vissuto l’influenza degli attori politici nei conflitti dello scorso secolo, sperimentando diverse formule di governo e diversi stili di vita. Prima i rapporti con la dinastia cinese Qing, poi il dominio giapponese, la resistenza in Manciuria e infine la spaccatura della cortina di ferro tramutatasi in una vera e propria frattura territoriale e culturale. Complesse sorti, queste, che si profilano come possibili referenti delle vicende dei personaggi raccontati. Seo-Rae è una clandestina cinese innamorata del detective incaricato di indagarla per presunto omicidio: Hae-Jun. Lui contraccambia il sentimento ma non riesce a disgiungere l’affetto che prova dall’ossessione di risolvere il caso, finendo per insabbiare alcune prove risolutive e fuggire via in preda al senso di colpa. In un’altra scena del crimine rincontra Seo-Rae, omicida al solo scopo di farsi indagare nuovamente per porre fine ai rimorsi dell’amato. Dopo avergli fornito gli indizi necessari a chiudere il caso ed esser divenuta cosciente che gli ideali di Hae-Jun precedono la loro relazione criminosa, si lascia seppellire dall’acqua e dalla sabbia in una buca in riva al mare.

Se questa morte in spiaggia ricorda alla lontana le confessioni tumulate ad Angkor Wat nella risoluzione simbolica di In the Mood for Love, è l’integrità dell’arco narrativo a concedersi all’orizzonte d’attesa e a richiamare alla mente i difficili rapporti fra Cina e Corea. “Nel momento in cui hai detto che mi amavi, il tuo amore è finito. Nel momento in cui il tuo amore è finito, il mio amore è iniziato” confessa Seo-Rae nelle ultime battute prima del suicidio. Battute che si potrebbero ritradurre così: “Nel momento in cui la Manciuria vi ha ospitato, sono bastati pochi anni per cancellare secoli di alleanza. Nel momento in cui questo rapporto è terminato, la nostra necessità di seduzione è iniziata”. Il sacrificio di Seo-Rae solo all’apparenza si presenta come un sacrificio d’amore. Nonostante lei sia consapevole di doversi costituire per far uscire dalla depressione l’amato, la scomparsa improvvisa del suo corpo ottiene l’effetto opposto di renderla un’eterna indiziata, riattivando quei meccanismi di dipendenza affettiva che non permettono a Hae-Jun di sviluppare a pieno una propria identità – espressa, a livello psicologico, dalla sua missione deontologica. Questi meccanismi, se trasportati nella sfera politica, fanno trasparire le fratture che percorrono la dialettica nazionale fra le due Coree e il loro rilievo nei rapporti con Pechino, superpotenza in costante tensione fra cooperazione e revanscismo.

Sono ormai lontani gli anni in cui Park Chan-wook amava destreggiarsi con lo stile manga strizzando l’occhio alle sottoculture pop, ma il suo smalto autoriale ha saputo reinventarsi fino a raggiungere soluzioni di messa in scena sobrie e, allo stesso tempo, innovative. Sovrapposizione dei piani ontologici del racconto, ambiguità fra alternato e parallelo nel continuum temporale mediante acuti match cut di montaggio, utilizzo di inquadrature soggettive dal punto di vista degli oggetti quotidiani. Decision to Leave condensa insieme un ventaglio di strategie registiche che favoriscono l’emergere dalla prosa di un’aspettativa ulteriore rispetto alla superficie interpretativa del semplice mélo. L’effetto collaterale e, insieme, virtuoso di questa interpretazione allegorica – capace di far dialogare a distanza legami transnazionali ormai congelati – è la possibilità di esorcizzarne il conflitto latente, altrimenti inespresso. Perché in fondo, come è stato detto, il cinema è simile allo scudo di Atena: uno strumento incline all’apertura di nuovi discorsi dei quali ci serviamo «per vedervi riflesse cose che ci trasformerebbero in pietra se mai le incontrassimo nella vita reale» (Kracauer 1962, p. 435).

I due amanti, giunti sul monte lasciato in eredità a Seo-Rae dal nonno – combattente dell’esercito di liberazione della Corea in Manciuria – finalmente si baciano. Sotto la neve e sotto le chiome dei pini cinesi che adornano l’area: luogo idealmente straniero in un territorio questa volta ospitante. Prima del gesto romantico la giovane donna prende il flacone di antidepressivi dalla tasca di Hae-Jun, sfila una pillola e se la mette fra le labbra, per passarla all’uomo durante l’atto da lei tanto desiderato. Il significato sembra schiudersi in un’enfasi emblematica, sia a livello di contrasto interiore che di sfumatura politica: se non si sono costruite solide fondamenta alla base, l’amore è un palliativo che annulla l’identità dell’altro e lo costringe in una relazione assuefacente.

Riferimenti bibliografici
U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985.
S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, trad. it. di Paolo Gobetti, introduzione di Guido Aristarco, Il Saggiatore, Milano 1962.

Decision to Leave. Regia: Park Chan-wook; sceneggiatura: Jeong Seo-kyeong, Park Chan-wook; fotografia: Kim Ji-yong; montaggio: Kim Sang-bum; interpreti: Tang Wei, Park Hae-il; produzione: Moho Film; distribuzione: CJ Entertainment; origine: Sud Corea; durata: 139′; anno: 2022.

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