Un uomo severo e asciutto, seduto a un tavolo nel suo completo grigio, tiene in mano un cervello e, cantando, illustra le aree deputate alle diverse funzioni. Finisce la musica: “Ho letto che il cervello dei bambini ha centinaia di milioni di connessioni neurali più degli adulti. Che cosa significa questo? Che quando cresciamo diventiamo sempre più stupidi”. È questo l’inizio fulminante di David Byrne’s American Utopia, diretto da Spike Lee, girato durante una delle serate dello spettacolo portato a Broadway dall’ex leader dei Talking Heads.
Le scelte teatrali vanno nella direzione di un minimalismo che ben si coniuga con l’aspetto cerebrale e ieratico dell’artista. Il palco è vuoto, delimitato sui tre lati da una cortina di sottili catene metalliche: nessuna scenografia teatrale e nessun set strumentale – cavi, amplificatori, postazioni fisse per gli strumenti – perché lo spettacolo, sostiene Byrne, nasce semplicemente dall’incontro tra le persone, quelle sedute in sala e quelle impegnate in scena. Essenzialità e rigore sono in realtà la condizione di possibilità dell’esplosione di energia che la band riversa sul pubblico: gli undici musicisti che accompagnano Byrne – tra i quali si segnala una nutrita e affiatata sezione ritmica – si muovono imbracciando i loro strumenti wireless, liberi di muoversi sul palco e di dare vita alle bizzarre coreografie a cui l’artista scozzese, naturalizzato statunitense, ha abituato il suo pubblico.
Il fascino della performance è dovuto in larga misura alla capacità di sintesi tra elementi eterogenei: l’elettronica si coniuga alla perfezione con la world music; le atmosfere più rarefatte trovano un costante contrappunto nel groove robusto della band; lo stile stralunato ed eccentrico di Byrne non perde nulla della sua spontaneità, sebbene incanalato in una cornice scenica studiatissima in cui le traiettorie dei singoli sono perfettamente sincronizzate. La scaletta raccoglie insieme brani provenienti dalle diverse fasi della produzione di Byrne, dai successi dei Talking Heads alle sperimentazioni solistiche, dalle collaborazioni con Brian Eno ai più recenti brani tratti dall’album American Utopia (2018).
La cifra estetica dello spettacolo è l’armonia degli opposti: la sofisticata semplicità dei completi grigi, tutti uguali a quello di Byrne, indossati dai musicisti scalzi; la coordinazione spettacolare dei movimenti, che amplifica la libertà degli artisti in scena ed esalta le loro singole personalità; l’umorismo dei testi e degli intermezzi di Byrne, che non ha paura di affrontare in maniera esplicita e diretta temi serissimi e di bruciante attualità, in un’America alla vigilia del più importante appuntamento elettorale della sua storia recente.
“Il 55 % di noi va a votare”, afferma Byrne, riferendosi ai dati delle ultime elezioni presidenziali del 2016, “l’età media di chi vota alle elezioni locali è di 57 anni… Cambiamento climatico, giusto? Giovani? Siete fottuti… Dovremo fare meglio del 55%”. L’artista tematizza così la questione del voto, l’importanza di partecipare attivamente a uno dei momenti fondamentali della vita della più importante democrazia del pianeta. Mentre sto scrivendo, la notizia della vittoria di Joe Biden contro Donald Trump illumina le parole di Byrne di una luce profetica, facendole apparire retrospettivamente come un presagio della massiccia affluenza di queste elezioni presidenziali. Ma il senno di poi tende a far dimenticare che, nel tempo dell’attesa e della paura, ci vuole coraggio anche per sperare. E a Byrne questo coraggio non è mancato.
Un artista deve annunciare tempi nuovi. Talvolta potrà vedere compiersi quanto aveva preconizzato – la performance di Bob Dylan alla Casa Bianca durante la Celebration of Music from the Civil Rights Movement (2010), quando cantò The Times They Are A-Changing davanti al neo-eletto presidente Barack Obama, è forse fra gli esempi più luminosi – ma in altri casi, in tempi ancora incerti, dovrà contentarsi di proporre una visione, di indicare un orizzonte.
È questa l’utopia di Byrne (e di Spike Lee), che non si stanca di ricordare come il pluralismo sia la stessa ragion d’essere del sogno americano, senza negare al tempo stesso la fatica e l’angoscia straniante derivante dall’incontro con l’altro. “L’anno scorso ho invitato un coro scolastico di Detroit, Michigan, a interpretare la mia canzone Everybody’s Coming to My House… Nella mia versione il cantante non è sicuro di come si sente rispetto all’idea che tutti stanno venendo a casa sua… La loro versione invece sembra dare un benvenuto, invitando tutti, sembra riguardi l’inclusione…”. Anche i musicisti sul palco, compreso Byrne, vengono da paesi diversi, sono immigrati, e senza lo sforzo dell’incontro, riflette l’artista, lo spettacolo non sarebbe possibile.
Ma è facile che l’incontro diventi uno scontro. Il momento più intenso dello spettacolo è la canzone Hell you talmbout? di Janelle Monáe, “una canzone di protesta, un requiem” in cui tutti sono invitati a pronunciare i nomi (“Say his name!”) di Eric Garner, Trayvon Martin, Botham Jean e di molti altri afro-americani, caduti per mano della polizia americana. La denuncia del razzismo diffuso tra le forze dell’ordine e in generale nella società statunitense, come è noto, ha fatto emergere il movimento Black Lives Matter e ha portato a un’ondata di manifestazioni in tutto il mondo. Anche su questo tema, Byrne prende posizione con coraggio e intelligenza: “Ho scritto a Janelle Monáe chiedendole che cosa avrebbe pensato di un uomo bianco, di una certa età, che canta questa canzone… Mi ha risposto che la canzone è per tutti, che è per l’umanità”.
La regia di Spike Lee, che durante tutto lo spettacolo si limita a presentare la performance, mostrando i dettagli di ciò che avviene sul palco e riprendendo talvolta i musicisti da prospettive insolite per enfatizzare la geometria delle loro coreografie, qui cambia registro. Le immagini di ciò che avviene in scena vengono montate con le fotografie delle vittime, talvolta esposte dai loro cari, con nomi e date. Un collage finale di ritratti fotografici e poi un mosaico di nomi, in rosso, che appaiono in sovrimpressione sullo schermo, suggellano un potente atto d’accusa.
La protesta, certo, ma anche la speranza. Nel finale i musicisti scendono dal palco, passano tra le persone del pubblico e cantano Road to nowhere: siamo su una strada, la strada che non porta da nessuna parte, unitevi a noi. L’entusiasmo e l’aria di festa potrebbe far pensare a una specie di allegria nichilista ma non è così. Si tratta piuttosto di un esercizio musicale di teologia negativa: siamo su una strada che non porta in nessun luogo conosciuto, la meta è sempre eccedente rispetto alle nostre aspettative, “we’re on a road to nowhere” perché “we’re on the road to paradise”. Non siamo sulla strada dell’identità, né su quella della retorica nazionalista: stiamo andando, tutti insieme, verso un luogo la cui incarnazione mondana è ancora l’American Utopia.
David Byrne’s American Utopia. Regia: Spike Lee; sceneggiatura: David Byrne; fotografia: Ellen Kuras; montaggio: Adam Gough; musiche: David Byrne; interpreti: David Byrne, Chris Giarmo, Tendayi Kuumba, Karl Mansfield, Angie Swan, Bobby Wooten III, Mauro Refosco, Tim Keiper, Gustavo Di Dalva, Jacquelene Acevedo, Daniel Freedman, Stephane San Juan; produzione: HBO Film, Participant Media, River Road Entertainment, Warner Music, 40 Acres and a Mule Filmworks, RadicalMedia, Todomundo; distribuzione: HBO (U.S./Canada), Universal Pictures (international); origine: USA; anno: 2020; durata: 105′.