di BRUNO ROBERTI
Da una prospettiva eccedente. In dialogo con Antonio Capuano, a cura di Armando Andria, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce.

Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1986)
È possibile restituire il mondo di un cineasta e insieme la sua vita che si riversa nelle forme, nei ritmi, nelle accensioni di immagini delle sue opere, attraverso un corpo a corpo con quel cineasta, nel fluire di un dialogo incessante, anche se spostato nel tempo? E se i suoi film sono percorsi da una febbrile inquietudine, da una continua sfida alle convenzioni e alle “buone maniere” di tanto cinema prevedibile ed esangue che sempre più spesso passa sugli schermi, è possibile compiere una sorta di anatomia critica dell’opera di un cineasta che eccede e deborda con una imprevedibilità creativa esemplare? Il libro-conversazione Da una prospettiva eccedente. In dialogo con Antonio Capuano di Andria, Brandoni, Croce (edizioni Artdigiland, premio Efebo d’oro Nicolò Lombardo 2022 per il miglior saggio di cinema) su e con Antonio Capuano dimostra che è possibile.
Capuano, fin dai suoi inizi, è un regista “non riconciliato”, una sorta di “pietra d’inciampo” nel cinema italiano contemporaneo, mai abbastanza compreso e accolto nella sua potenza. I suoi film possiedono un fascino vertiginoso che è fatto di assoluta libertà espressiva, di empatia profonda con i luoghi e i corpi filmati, di incessante voglia di sperimentare, nel procedere a un continuo affondo nel rapporto inscindibile tra linguaggio e vita, tra immagine e verità flagrante. Il cinema di Capuano possiede una matericità istintuale che corrisponde a una sorta di compulsività rispetto alle relazioni che ogni volta la macchina da presa coglie nel loro stato nascente, divenendone l’intercessore. Tale relazionalità si riversa negli spazi sempre obliqui di una Napoli inaspettata, sorpresa nelle sue limitrofe apparizioni, ritagliata nella luce della sua marginalità, che si fa rossellinianamente “splendore del vero”.
E in tale relazionalità si dispone la predilezione di Capuano per i “corpi bambini”, per un sentimento creaturale (così lo intendeva una scrittrice come Anna Maria Ortese) che elegge nei suoi film a immagine generativa i nervi guizzanti dei ragazzi di vita napoletani, la loro irruenza e insieme tenerezza, la loro disperata violenza che è anche disperata richiesta d’amore espressa nelle loro pulsioni caotiche. E quei corpi stanno in contrappunto, in una feconda disarmonia, e in una armonia discordante, insomma in una posizione paradossale e sempre in bilico, debordando, con il circostante, con i luoghi filmati. Non sono solo corpi bambini, ma anche riottose presenze femminili, ferite dalla vita oppure caparbiamente in contrasto e in lotta con essa, oppure è tutta una umanità, inerme o feroce, che percorre i margini dell’esistenza.
Dice Capuano nel corso della conversazione in risposta a una domanda a proposito della “forma di anarchia” creativa come “principio genetico”:
Quindi questi personaggi che sono così caotici, così vitali e disordinati, ma così uguali al sangue, alle pulsazioni, al corpo, sono molto più fisici: è il corpo, è la vita materiale […] Noi siamo corpo. Anche la cosiddetta intelligenza è corpo, è materia, quindi quando ti manca il corpo ti manca tutto. E il corpo è violento, caotico. Ma spesso anche pacifico. Però io credo che la quiete venga dopo un disordine, dopo un grande caos (Andria, Brandoni, Croce 2022, p. 59).
E alla vita caotica e pulsante dei corpi corrisponde il paesaggio napoletano, laddove sembra farsi specchio di uno sguardo, corrispondenza di un sentire, o meglio di un rimbaudiano “sregolamento di tutti i sensi”, che fa vibrare la carne delle immagini, cui la voracità e insieme la pietas dello sguardo di Capuano, risponde. Accadeva così fin dal suo folgorante esordio Vito e gli altri (1991), film divaricato tra interni fatiscenti o concentrazionari ed esterni urbani e suburbani percorsi dalle traiettorie saettanti e “a perdifiato” di Vito con la sua banda di ragazzini. Con i principali film successivi – Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1986), Polvere di Napoli (1998), Luna Rossa (2001), La guerra di Mario (2005), L’amore buio (2010), Bagnoli Jungle (2015), Il buco in testa (2020) – Capuano non ha cessato di perseguire con la sua libertà e irruenza una idea di cinema fuori da ogni schema, miscelando di volta in volta codici melodrammatici, esasperazioni grottesche, affondi tragici, cadenze brechtiane, forme di vita, decostruzioni di linguaggio.
Senza reticenze ha raccontato, rispettivamente, l’amore tenero tra un parroco anticamorra del rione Sanità e un ragazzino che sarà indotto dai camorristi a denunciarlo; le storie balorde di una umanità sopravvissuta arrangiandosi nella Napoli “polverosa” erede di quell’“oro” napoletano raccontato a suo tempo da De Sica; le dinamiche familiari crudeli e spietate di un clan criminale che ricalca l’Orestea; le fughe e le ribellioni continue di un bambino proletario dalla inadeguata famiglia borghese cui è stato dato in affido; l’amore “oscuro” e puro che nasce tra un adolescente detenuto per stupro e la ragazza borghese che fu vittima di quella violenza; le “vite a perdere”, sullo sfondo del quartiere operaio di Bagnoli, di un garzone di salumeria, di un patetico truffatore e di un ottantenne che vive la solitudine della pensione rimpiangendo i ritmi della fabbrica; l’incontro tra una ragazza di periferia intristita e ferita dalla vita con l’ex-terrorista che molti anni prima le ha ucciso il padre agente di polizia. Così di film in film, in trent’anni e passa di attività, questo cineasta, che a ottantadue anni è capace di rigenerare ogni volta le sue “vibrazioni” filmiche sottraendole puntualmente alle aspettative, spiazza e devia lo sguardo dello spettatore nella misura in cui il suo stesso sguardo è capace di slittare lungo traiettorie e verso prospettive eccedenti.
Il corpo centrale del volume racchiude una lunga conversazione con Capuano che si è protratta nel tempo di gestazione del libro, suddivisa in cinque momenti, che ci appaiono anche come cinque “movimenti” di una sorta di spartito dove la voce del regista entra in contrappunto, in assonanza e dissonanza insieme, con le sollecitazioni, le prospettive critiche, gli stimoli a raccontarsi e a riflettere sui suoi film, che i tre curatori-autori instancabilmente gli indirizzano. Si avverte di Capuano, nell’accettare di mettersi in gioco ripercorrendo la sua poetica, l’accento e la grana delle intonazioni appassionate e ruvide, veementi e apodittiche, ma anche piene di una disponibilità, aperta e sincera nel mettersi a nudo, nel confessarsi, esponendo con lucidità e passione, quello che emerge come un suo “metodo”, e insieme un processo che è una cifra di lavoro.
Il procedimento dell’eccedere, stilistico ma anche politico, radicalmente intransigente nel liberare sul set ogni energia disponibile, sembra accordarsi a un procedimento dell’intercedere, dello “stare accanto” ai suoi attori (dai professionisti ai ragazzi di strada) con un atteggiamento di disperata vitalità, di cura, e insieme di passione plastico-pittorica per il lavoro sulle immagini (e in ciò si sentono le lezioni di Pasolini, di Citti, ma anche di Godard e Fassbinder, cineasti visceralmente amati da Capuano). Tale movimento dell’eccedere-intercedere si esprime in più forme convergenti. Vengono messe in luce nel corso del dialogo come queste forme siano scelte essenziali di stile: dai piano-sequenza circolari agli sguardi monologanti in macchina, dagli incastri di temporalità-simultaneità (definiti nel libro come un «eterno presente dinamico», ivi, p. 215) alle interferenze visuali (l’uso ricorrente dello schermo televisivo in campo), dalle “correnti oblique” del narrato, alle sincopi dell’immagine in un flusso “rappato”.
Come corollari essenziali, a conclusione del volume vengono posti, quasi come sigilli, tre brevi saggi: un puntuale “decoupage” critico interamente dedicato a Vito e gli altri da Alessia Brandoni, un percorso “desiderante” di Fabrizio Croce scandito sull’amore, sul corpo e sull’identità all’interno delle vertiginose immagini di Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, una acutissima riflessione di Armando Andria sul gesto filmico di Capuano rispetto alla forma temporale, sul suo filmare con e contro il tempo. Emerge durante la conversazione come il “corpus” dell’opera filmica di Capuano coincida in un certo senso con la sua stessa pulsione vitale e corporea, con il suo istinto a filmare, il suo modo di essere nella vita, ma anche con una consapevolezza e padronanza critica del mezzo che lo spinge incessantemente a sperimentare. Emerge anche come per Capuano filmare sia analogo al dipingere (la sua vocazione primaria è quella del pittore-scenografo) facendo scaturire una sorta di cinema-gesto, come per la pittura da lui amata: le contorsioni del senso visivo di Bacon, le accensioni dense e grumose di Van Gogh. Ciò che ne risulta alla fine è il ritratto a viva voce di una poetica filmica intransigente, anarchica, frenetica, in cui si coniugano accensioni barocche e iperrealismi allucinatori, empatie emozionali e voracità di sguardo («tutto sta succedendo ora, e io vorrei che potessimo vedere tutto contemporaneamente» confessa a un certo punto Capuano), ma soprattutto dove non cessa di pulsare il fluire della vita, laddove, a un tempo, essa eccede e intercede.
Armando Andria, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce, a cura di, Da una prospettiva eccedente. In dialogo con Antonio Capuano, Artdigiland, Roma 2022.