Wilson è un sapiente mescolatore di tradizioni culturali: in The Black Rider (1990) la musica europea di Kurt Weill sta dentro a quella americana di Tom Waits. Dispositivo dominante dei suoi spettacoli è la composizione visuale: «Quando comincio a lavorare – afferma il regista, che viene da studi di architettura – la prima cosa che faccio è illuminare lo spazio. Comincio con la luce».

L’uso della luce e del colore, la vibrazione della materia luminosa dei suoi spettacoli sono stati accostati alla pittura di Mark Rothko, al minimalismo di Donald Judd, Carl Andre, Barnett Newman. Infatti, Wilson disegna lo spazio scenico secondo figure geometriche, rettangoli, quadrati, disposti in orizzontale e in verticale, integrandovi gli attori come in un tableaux vivant.

Altro tratto peculiare dell’estetica teatrale di Robert Wilson è rendere il tempo sensibile e percepibile, sia l’istante sia la durata, attraverso l’accelerazione e l’estremo rallentamento dei movimenti.

Gli attori – che sarebbe corretto chiamare performer – dei suoi primi spettacoli erano persone che non solo non possedevano abilità particolari ma che, secondo il critico americano Stefan Brecht, non erano assolutamente portate per stare in scena: figuranti convocati tramite annunci sui giornali, dilettanti, danzatori, studenti di scuole di teatro, in quanto il loro ruolo non era dominante rispetto agli altri codici dello spettacolo. Il loro training consisteva nel passare la maggior parte del tempo ballando o improvvisando movimenti nello spazio, con o senza musica, camminando o danzando; individualmente, senza arrivare a creare una coreografia comune, perché importante era percepire i movimenti in rapporto al tempo e allo spazio, in modo da portare l’attenzione sul disegno del movimento anziché sulle emozioni, i dati psicologici, i sentimenti, sperimentando accelerazione e rallentamento (tempo), dilatazione e contrazione (spazio).

Nei suoi spettacoli il corpo è scultura nello spazio e danzare equivale a entrare in un altro mondo, nel sogno, come Raymond in Deafman Glance. Quando si fa dicitore di un testo – come in Since I’ve been me – l’attore-performer-danzatore non deve sforzarsi di interpretarne il senso, né sottolineare le parole con l’enfasi della dizione, perché la voce è essenzialmente ritmo e la frase, come osserva Frédéric Maurin, è «una curva melodica come il gesto una linea fisica» (Robert Wilson: le temps pour voir, l’espace pour écouter, Actes Sud, Arles 1998, p. 135). Il testo verbale – assente nei suoi primi spettacoli o trasformato in suono – non funziona come dispositivo dominante in accordo con le azioni degli attori, perché nell’estetica teatrale di Wilson vige l’elisione dei raccordi di causa-effetto e temporali, come del rapporto fra figura e sfondo, lo sfasamento fra parola e gesto, fra dire e fare: la scena si presenta tattile, ottica e sonora. 

Per tali motivi i suoi spettacoli risultavano impenetrabili, anche a causa di una durata ipertrofica (12 e 24 ore, 7 giorni e 7 notti), per cui lo spettatore poteva abbandonare la coscienza vigile e fruire lo spettacolo nello stato di dormiveglia, favorito dall’estrema lentezza dei gesti e dei movimenti dei performer.

Since I’ve been me ha una durata canonica di 90 minuti. È uno spettacolo interculturale, in lingua inglese, portoghese, francese e italiana, corrispondenti alle diverse provenienze del cast. Il complesso apparato verbale dello spettacolo mescola brani tratti da vari testi di Fernando Pessoa (e il titolo proviene da Il libro dell’inquietudine) selezionati in base al fatto che dicano qualcosa sui possibili “sé”, sulla pluralità dei “sé” che lo scrittore chiamava eteronimi, non pseudonimi: erano lui, ma allo stesso tempo non erano lui, Alexander Search o Bernardo Soares o Vicente Guedes o Alberto Caeiro o Álvaro de Campos o Ricardo Reis. I temi riguardano riflessioni sulla vita, sulla morte, sull’amore, sull’identità, sulla verità, sulla finzione, su Dio, sulla memoria: “La mia anima si è rotta come un vaso vuoto… Sono una pioggia di cocci su uno zerbino da scuotere” recitano gli attori in varie lingue. E poi: “Un coccio, girato dalla parte esterna lucente, brilla fra gli astri. La mia opera? La mia anima principale? La mia vita? Un coccio”.

Un bel fondale azzurro con un’attrice in abito nero, camicia bianca e cravatta seduta in ribalta accoglie gli spettatori nello splendido teatro La Pergola a Firenze. Lo spettacolo strutturalmente è una composizione plastica e sonora in cui gli attori-performer sono assorbiti, apparentati al mimo per la fissità dei gesti e dei volti come da cartoon: non manca la donna nera, alta, in abito ottocentesco che in Einstein on the Beach compariva con il coltello in mano.

Janaína, Maria, Klaus, Sofia, Gianfranco, Rodrigo, Aline, questi i nomi di alcuni dei e delle performer, hanno voci registrate e dal vivo; parlano ciascuno nella propria lingua e i loro movimenti sono quelli della danza (in questo caso con riferimenti al varietà, al burlesque, ma anche al circo): danzatori e mimi più che attori, della stessa materia plastica dei pesci, degli animali, dei cipressi (che sono gli alberi della Watermill Foundation di Wilson), della barchetta a vela inscritta nel velatino, che funziona non tanto da schermo di proiezione quanto da tavolo da disegno dove uno sgabello, anziché la sedia che “tradizionalmente” ritroviamo nei suoi spettacoli, scende dall’alto e attraversa lo spazio aereo, un tratto proprio del teatro di Wilson.

Gli attori e le attrici – performer in scena, anche se enunciano i pensieri sul mondo e sull’essere tratti dai libri di Pessoa, sono figure, ossia materia plastica; non fanno riferimento a personaggi, non dialogano, non agiscono, né interagiscono: enunciano, come se la voce emessa, le loro parole non provenissero dallo stesso corpo che le emette, seguendo invece il criterio della disgiunzione e della sovrapposizione delle voci. Sono indicati i personaggi, ma le battute procedono senza differenziazioni, potrebbero essere dette dalla stessa dramatis persona, e figure diverse ripetono in diverse lingue la stessa battuta (Alina, Maria, Sofia, Rodrigo): “Da un giorno all’altro ci disancoriamo. Niente di veritiero a noi ci unisce – siamo chi siamo, e chi fummo fu cosa vista di dentro”. In alcuni momenti parlano tutti insieme e si produce una cacofonia che trasporta la referenzialità in una zona di pura sonorità. Infatti, la sfera sonora è vigorosa, con suoni di vetri infranti, di tempesta, di lampi e tuoni, applausi, boati, grida, colpi metallici, ticchettii della macchina da scrivere: un repertorio molto ricco, in contrasto con la scena statica e l’immobilità delle figure sedute ai tavoli ordinatamente disposti. 

I testi di Pessoa (pagine di diario, lettere) passano dalla pagina alla scena teatrale con il meccanismo della ripetizione e della disgiunzione fra visivo e verbale, per cui risulta più incisiva la scena rispetto al testo, una scena che si tinge di grottesco e, nonostante il nero, il buio e i boati allevia l’inquietudine di Pessoa: “In fondo cos’è l’uomo se non un insetto che ronza contro il vetro di una finestra”, enuncia un attore.

Since I’ve been me è uno spettacolo analogico dove i colori mescolati con la luce diventano atmosfere e il nero agisce come purificazione dello sguardo. 

Riferimenti bibliografici

F. Maurin, Robert Wilson: le temps pour voir, l’espace pour écouter, Actes Sud, Arles 1998.

*La foto in copertina è di Lucie Jansch.

Pessoa – Since I’ve been me. Testo: Fernando Pessoa; regia: Robert Wilson; drammaturgia: Darryl Pinckney; scene: Robert Wilson; costumi: Jacques Reynaud; sound design e consulente musicale: Nick Sagar; luci: Robert Wilson; interpreti: Maria de Medeiros, Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau; produzione: Teatro della Pergola – Firenze, Théâtre de la Ville – Parigi; durata: 80′.

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