“Sei in ritardo”. È la prima battuta del film, ed è una battuta rivelatrice. Perché ancora una volta Cry Macho mostra in tutta evidenza come una caratteristica del cinema di Clint Eastwood sia il suo “ritardo” rispetto alla contemporaneità. Quel suo carattere orgogliosamente fuori dal tempo, inattuale, una dimensione sfuggita anche a Paul Schrader, che ha accusato il film di essere fuori tempo massimo: “Sono personaggi che fanno riflessioni che potevano andare bene trenta anni fa”.

Già in altre occasioni (Canadè, Cervini 2012) abbiamo sottolineato come quello di Eastwood sia un cinema privo di ogni carattere citazionista, nostalgico, ludico o “immersivo” e quindi non coincidente con le pratiche dominanti della Hollywood contemporanea ma proprio per questo forse più capace di raccontare il nostro tempo innalzandolo a una dimensione universale, esemplare, secondo una modalità che è propria del classico. Come ha scritto Agamben, contemporaneo è chi, non aderendo perfettamente al proprio tempo, riesce ad installarsi nelle sue fratture: «Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire ed afferrare il suo tempo» (Agamben 2009, p. 20).

In Cry Macho la questione del tempo, evidenziata sin dall’inizio, è decisiva. È il lavoro del tempo che si incarna nelle pieghe del volto di Eastwood e nel suo corpo smagrito (ma sempre agile, come gli dice il ragazzo coprotagonista del film: “Sei molto veloce per un vecchio”). È il tempo come apertura, come effetto di una scelta in grado di ricondurre alla vita una esistenza votata alla morte. La vicenda, come già in Gran Torino (lo sceneggiatore è lo stesso), ma ancora prima in Un mondo perfetto (così come in altri film di Eastwood), ruota attorno a un incontro, tra un uomo, qui molto anziano, e un ragazzo. Un incontro che per entrambi avrà un valore salvifico e che fa emergere quel tema che da sempre attraversa il suo cinema, cioè quello dell’adozione. L’incontro tra due persone che liberamente si scelgono, al di là di ogni legame naturale e biologico (era anche quello che accadeva tra la pugile Maggie e il suo allenatore in Million Dollar Baby). L’adozione come risultato di una scelta esistenziale, che si oppone alle leggi della natura.

Qui Eastwood è Mike Milo, un ex campione di rodeo e addestratore di cavalli. Un professionista, con una profonda conoscenza del suo mestiere e un forte senso dell’onore e un’etica hawksiana del lavoro. Il suo ex capo, Howard Polk, che lo ha aiutato nei momenti difficili (Mike ha perso in un incidente moglie e figlio e questo lo ho portato ad abusare di alcol e alla fine a perdere anche il lavoro), chiede a Mike di recuperare suo figlio, Rafo, dal Messico, per proteggerlo dalla madre messicana schiava dell’alcol. Mike accetta la missione con riluttanza ma con senso dell’obbligo nei confronti di Howard (“Mi ha ridato la vita”, confesserà a Rafo) e parte per il Messico. Qui incontra la madre del ragazzo, che lo informa che Rafo è un adolescente dedito ad attività criminali e che passa il suo tempo nei combattimenti clandestini di galli. Mike rintraccia Rafo e incontra il suo gallo, Macho. E comincia così il viaggio di questi tre particolari personaggi: un anziano cowboy, un ragazzo tredicenne e un gallo.

È nella seconda parte del film, dopo una prima più tradizionale con la sua struttura da road movie e un ritmo incalzante, che emerge lo scarto dell’operazione eastwoodiana rispetto al cinema mainstream. È nel momento in cui i tre personaggi, per sfuggire agli scagnozzi della madre di Rafo, si rifugiano in un piccolo paese messicano e incontrano Marta, una vedova proprietaria di un caffè. Mike e Rafo trascorrono alcune settimane nel paesino e si avvicinano alla donna e alla sua famiglia. Mike aiuta un allevatore locale a domare i cavalli selvaggi e insegna a Rafo a cavalcare.

In questo tempo sospeso, di attesa, fatto di piccoli gesti (come la mano di una delle bambine, nipoti di Marta, che scivola in quella di Mike o come quella della stessa Marta che stringe sempre la mano di Mike) ritroviamo la grandezza del cinema di Eastwood. Il ribaltamento delle dinamiche proprie dei protagonisti di western come Impiccalo più in alto, Il cavaliere pallido: personaggi solitari, antieroi, comunità della singolarità assoluta, «che attraversano comunità disperse non per farne parte, ma per rinforzarle, metterle alla prova» (Dottorini in Canadè, Cervini 2012, p. 53).

È in questo senso che si colloca anche la demitizzazione della figura del “maschio” a cui il titolo quasi ferreriano del film rimanda (pensiamo allo scambio di battute tra Mike e Rafo: “Un tempo eri forte. Un macho” – “Un tempo ero un sacco di cose. Ma ora non più… Sai, ti dirò una cosa. Questa storia del macho è sopravvalutata”). Qui Mike non abbandona la comunità ma ne diventa parte e il film diventa allora la messa in scena della costruzione di una comunità nuova ed eterogena (il film si svolge non a caso in uno spazio di frontiera, di confine), effetto di una scelta. Una “sacra” famiglia (Mike e Rafo si rifugiano nella cappella della Vergine Maria), risultato di un processo costruttivo del tutto contingente, non dettato da alcuna prevedibile necessità.

Alla fine di questo viaggio e di questa sosta, ai personaggi non attende nessun esito tragico (come nei precedenti, Gran Torino o Un mondo perfetto) ma il coraggio di portare fino in fondo la propria scelta. Un finale “commedico” in cui si ribalta quel gesto sospeso della mano di Francesca in I ponti di Madison County (altro film con cui Cry Macho sembra dialogare) stretta sulla maniglia del furgoncino, pronta a scendere dal veicolo per riunirsi all’uomo che ama, ma mai portato a termine. Dopo aver lasciato Rafo con suo padre al confine tra Usa e Messico, e quindi aver adempiuto al proprio compito, Mike torna indietro. Torna da Marta. Ed è qui, in un ballo tra i tavoli del caffè, che la sua vita può ricominciare. Che il tempo si riapre. Prima che il gallo torni a cantare un’ultima volta.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, in Id., Nudità, Nottetempo, Roma 2009.
A. Canadè, A. Cervini, a cura di, Clint Eastwood, Pellegrini, Cosenza 2012.

Ritorno a casa (Cry Macho). Regia: Clint Eastwood; sceneggiatura: Nick Schenk dal romanzo di N. Richard Nash; fotografia: Ben Davis; montaggio: David S. Cox, Joel Cox; scenografia: Ronald R. Reiss; costumi: Deborah Hopper; musiche: Mark Mancina; interpreti: Clint Eastwood, Eduardo Minett, Natalia Traven, Dwight Yoakam, Fernanda Urrejola; produzione: Warner Bros., Malpaso Productions, Ruddy Productions; origine: Usa; durata: 104′; anno: 2021.

Share