La_notte_(1960)_Antonioni
La notte (Antonioni, 1960)

1. Perché la critica cinematografica è di fatto scomparsa in Italia? Perché si sono dissolte le grandi riviste che hanno identificato le più importanti tradizioni critiche? E perché questo non è accaduto per esempio in Francia, dove i Cahiers du cinéma e Positif proseguono con determinazione la loro strada? Naturalmente, in questi anni non sono mancati i discorsi sul cinema. Ma quello critico non è un discorso generico, tra gli altri; non è una mera recensione, “una pratica che di solito non ha niente in comune con l’arte della critica” (James 2013, p. 249). La critica non è neanche un “commento”, ma ha a che fare con la verità dell’opera: “La critica – dice Benjamin – cerca il contenuto di verità di un’opera d’arte” (Benjamin 1995, p. 163).
L’evanescenza della critica in Italia ha corrisposto in definitiva alla perdita del portato veritativo dell’opera. E la verità dell’opera è qualcosa che eccede la forma sensibile includendola (nella metafora alchemica benjaminiana è come la fiamma che emana dal rogo). Questa eccedenza è stata elusa con un doppio movimento, attraverso una riduzione dell’opera al valore culturale del testo e attraverso una successiva liquidazione anche di quest’ultimo, a vantaggio di nozioni generiche e totalizzanti (visualità, media), utilizzate come meri operatori di scambio.

Nel caso della culturalizzazione dei testi, a smarrirsi è la loro singolarità a vantaggio della loro generalità, cioè della capacità di individuare ambiti di significato esemplari per comprendere dinamiche e valori della vita sociale (da dove il rilievo dato al tratto popolare dei film).
Nel caso dell’assorbimento delle opere in categorie teoriche totalizzanti e infinitamente estendibili, le prime diventano effetti irrilevanti di piani di discorsività che possono benissimo prescindervi. Non è un caso che una delle riflessioni contemporanee più acute sui media, quella di Grusin (2017), sia giunta ad affermare il carattere radicalmente mediato di ogni nostra esperienza (al di là di ogni mediazione tecnica). Se tutto è mediato, anche la presenza presunta immediata, nulla lo è.
Le due prospettive hanno preso il nome generico, e dunque anche pervasivo, di Cultural studies e Media studies.

2. Anche la cosiddetta critica, cioè i discorsi sul cinema diffusi su stampa, specializzata e non, si è spesso ridotta ad una radicale ancillarità (ripresa di comunicati stampa e interviste a tutta pagina), o ad una superfluità per effetto di pallini sostitutivi di un discorso arrischiato come quello critico.

Questa elusione è stata spiegata come un effetto naturale della trasformazione degli oggetti, delle forme di visione, delle abitudini spettatoriali, che prescinderebbero oramai da ogni mediazione critica. Nulla di vero. Altrove, per esempio in Francia, sia la tenuta del cinema nelle sale, sia la centralità del discorso della critica, anche a fronte di mutate condizioni di fruizione e produzione delle opere, confermano che l’elusione ha altre radici.

Proviamo ad individuarne alcune. La prima si ritrova in una tradizione teorica italiana che nel corso del Novecento ha collocato la verità dalla parte del discorso teorico, anche ideologico, più che dalla parte delle opere (è sufficiente pensare a Croce) (De Gaetano 2017, pp. 17-33.). Prescindere dalle opere significa costruire piani teorici autonomi e (illusoriamente) autosufficienti. E vi si prescinde anche quando l’opera è utilizzata strumentalmente da “fuori” per sostenere questa o quella tesi. Esattamente l’opposto di quello che fa la (grande) critica, che deve invece gettare l’opera nel suo “fuori”, farla perdere in mare aperto.

La seconda è il prezzo pagato ad una ideologia di matrice neoliberale, i cui effetti si sono sentiti anche nell’ambito degli studi sul cinema, secondo cui per essere all’altezza dei tempi bisognava accedere a territori, concetti e pratiche di scambio piuttosto che d’uso. Contavano cioè più le cornici di uno scambio potenziale di tutto con tutto, mediante l’utilizzo di categorie elusive e totalizzanti (per esempio quella di visuale), piuttosto che i tratti estetici di un’opera singolare, il cui uso costituisce comunque una forma di resistenza allo scambio.
Questa seconda ragione dell’eclissi della critica si è innestata sulla prima, “scettica” sulla potenza dell’opera singolare. E questo ha trasformato una situazione di cambiamento delle modalità produttive e fruitive del film nell’alibi che ha permesso di operare una liquidazione di comodo: i film non servono in quanto opere, tutt’al più come meri oggetti di un piano teorico che può farne a meno.

3. Le parole d’ordine che hanno guidato la formazione dei nuovi campi di discorsività sono state tutte orientate a creare una zona fluida, totalizzante e opaca nella quale tutto potesse confondersi e scambiarsi: visualità, media, performance. Nozioni pensate in tutte le loro infinite declinazioni. Parole d’ordine che hanno guidato anche i percorsi della formazione accademica, nella convinzione che molto si potesse cogliere ed includere attraverso tali nozioni. Senza contare ciò che si andava perdendo: cioè la possibilità di dare forza veritativa al discorso.

Cosa che può accadere se e solo se si prende in carico la singolarità delle opere. Che non significa collocarsi in una zona iperborea che isola l’opera, o magari un suo frammento, come espressione dell’idealità dell’autore. Tutt’altro, lo specifico della critica è la riflessione, il cui carattere non è né soggettivo né ideale: “La riflessione non è, come il giudizio, un procedimento riflettente soggettivo, bensì è inclusa nella forma di esposizione dell’opera, si svolge nella critica per poi compiersi nel regolare continuum delle forme” (Benjamin 1982, p. 82).

Il passaggio è chiaro: la critica è il luogo in cui l’opera si espone nella sua verità, cioè come idea, prima di compiersi e attuarsi nel continuum delle forme. Meglio, la critica è l’unica conoscenza a garantire il passaggio dalla singolarità dell’opera alla continuità delle forme, “dissolvendo” l’opera stessa. Contrariamente a molti luoghi comuni, la critica non rispetta l’integrità dell’opera, ma deve necessariamente dissolverla per liberare l’universalità dell’idea da un lato e istituire una familiarità tra opere dall’altro (attraverso “schematizzazioni” come i generi). È la riflessione critica (non il giudizio né il commento) che, rapportandosi con la singolarità dell’opera, ne “dissolve” la sua individualità nell’universalità dell’idea. Senza la critica l’opera sarebbe in un certo modo muta, non avrebbe la capacità di farsi idea, dunque di universalizzarsi, né di “apparentarsi” con le altre opere.

Quindi eludere la critica significa rinunciare allo stesso tempo alla verità dell’opera e alla tradizione delle forme. E dunque significa anche liquidare il tempo, sia come tradizione che come resistenza alla mera operatività.
Con uno stesso movimento si è liquidata la critica, l’opera e la sua storicità, a vantaggio di dispositivi, flussi visuali, ambienti mediali, performatività diffuse da un lato, o di una produzione discorsiva di taglio giornalistico scevra da ogni istanza riflessiva, dall’altro.

Tutto questo con la convinzione che finalmente si facevano i conti con la realtà: nessun debito più da pagare all’idealità dell’arte, nessun vincolo con la tradizione. Tutto finalmente affidato, si è detto, a prospettive teoriche “all’altezza dei tempi”, tendenti a destituire gerarchie fuorvianti, idealità vetuste soppiantate finalmente da una valorizzazione diffusa del “popolare” (maggiormente disponibile a saltare la mediazione critica), e da una tecnicalità mediatica capace finalmente di disfare il piano rappresentativo.

Si è venuta a costituire una polarità oppositiva (utilizzando spesso una lettura semplicistica del Benjamin di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) tra un soggettivismo idealistico centrato sull’auraticità dell’opera, e la totalizzazione del valore di scambio dell’oggetto tecnologicamente mediato, che prescinde da opere e autori.

4. In questa opposizione polare, riduttiva e di comodo, si è eluso il problema vero: quello di pensare il ruolo della critica, dell’opera e della sua storicità in una modalità nuova, proprio alla luce del cinema e delle immagini tecnicamente prodotte. Benjamin chiamerà “dialettiche” le immagini che istituiscono, anche per la loro stessa genesi, una storicità non lineare tra il presente dell’immagine percepita e l’allora dell’oggetto catturato.
In questo senso le immagini hanno, più di altre forme di espressione, un immediato indice di storicità:

L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono a un’epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità soltanto in un’epoca determinata. E precisamente questo giungere a “leggibilità” è un determinato punto critico del loro movimento (Benjamin 2012, p. 529).

Le immagini non “lette” perdono il loro portato veritativo. Dunque, sono proprio le immagini che, più di altre forme d’espressione, rendono esplicita la necessità di una critica. E il cinema più di altre arti, senz’altro più della letteratura, necessita della riflessione critica, che dovrebbe fungere da modello. Invece accade l’opposto: “Il rapporto fra la critica letteraria e la critica cinematografica è l’inverso di ciò che dovrebbe essere. La prima dovrebbe imparare dalla seconda. Viceversa, è per lo più la critica cinematografica a imitare quella letteraria” (Benjamin 1993, p. 588).

Se la critica letteraria ha avuto una vita più continuativa è per la sua base filologica, perché ha scritto “commentari”. Ma la critica che ha come mira la verità dell’opera, cioè il modo in cui l’idea emerge dal sensibile, è diversa da un commentario. E la critica cinematografica proprio per gli oggetti di cui si occupa – i film – ha, o dovrebbe avere, una priorità nel cogliere il tratto di questa verità, sospendendola da ogni determinazione soggettiva, sia da quella del giudizio sia da quella dell’autore, e individuando i tratti immediatamente storici dell’immagine. Storicità ben lontana da quella lineare e continua dello storicismo, al quale al fondo si richiama la filologia; storicità “dialettica”, dove l’“ora” e l’“allora” si tengono insieme.

Di fatto, invece, nei casi in cui la critica cinematografica si è esercitata, lo ha fatto spesso ricorrendo a categorie o approcci ripresi dalla letteratura, a partire dalla nozione di autorialità, pensata come origine dell’opera, come categoria che tiene insieme linearità cronologica e unità estetica. L’autore o è il nome proprio di un mondo (l’unico modo in cui può essere propriamente pensato) o diviene mero artificio che serve a ricondurre ad unità le condizioni di apparizione delle opere.

5. Una critica pigra o rinunciataria da un lato, una tradizione di studi aperta a cogliere la verità più dalla parte della categoria che da quella dell’opera. Non dimentichiamoci la questione dei metodi della critica, che ha dominato la discussione in epoca semiologica, eludendo il rapporto della critica con la singolarità dell’opera dall’altro, e per ultimo un’adesione forte, anche se spesso implicita, ai principi e alle parole d’ordine del neoliberalismo attraverso la costituzione di zone teoriche di scambio totale, hanno portato alla situazione in cui ci troviamo: una proliferazione di discorsi sul cinema che prescindono dal filmico e sono privi di forza veritativa.

O meglio, se uno dei principi guida del pensiero neoliberale è stato la regolamentazione dell’ordine naturale, dell’ordine cosmico (De Carolis 2017), attraverso un assecondamento di tale ordine (la “spontaneità” del mercato), le grandi categorie che hanno contrassegnato il pensiero sul cinema e le immagini in questi anni hanno corrisposto letteralmente all’adesione a questo “tutto” naturale. È sufficiente pensare alla nozione che tutte le riassume: “ambiente mediale”. Nozione che attesta il “rendersi natura” dei dispositivi tecnologici, che arrivano estensivamente a coprire la totalità empirica dell’“ordine cosmico” nel quale si annulla la singolarità dell’opera. La totalità del mondo è l’insieme degli ambienti tecnologicamente e mediaticamente costituiti. La totalità in cui tutto si perde.

L’opera è invece il non-tutto per eccellenza, che solo la critica può rendere tutto attraverso l’universalità dell’idea che fa emergere dal sensibile questa “parzialità”.
È dunque un dato culturale e politico il fatto che non si interpretino più film, e che la critica occupi uno spazio meno che residuale. Il problema è serio. Non poter contare sulla critica come discorso capace di dare verità all’opera, dissolvendone la singolarità nel carattere universale dell’idea, e coordinandola attraverso uno schema delle forme alle altre opere, significa in buona sostanza mancare il riconoscimento di film importanti, che restano non solo “muti” (senza la critica difficilmente un’opera innovativa parla) ma anche non visti. Pensiamo a come due recenti grandi film italiani, Le quattro volte (2010) di Frammartino e Bella e perduta (2015) di Marcello, abbiano avuto un passaggio quasi clandestino in Italia e una elusione (tranne qualche eccezione) da parte della critica a fronte di grandi riscontri internazionali. In primis in Francia, dove abbiamo l’unica vera grande tradizione critica cinematografica, avviata da André Bazin con i “Cahiers du cinéma” e proseguita da Serge Daney con “Trafic”.

La grande critica è da un lato anche un grande esempio di teoria (Che cosa è il cinema? di Bazin è il libro di critica cinematografica più importante del Novecento, ma anche un momento straordinario di teoria), dall’altro, misurandosi con le opere, diviene passaggio importante per garantirne visibilità e presenza culturale. Per restare a Bazin, non sapremmo mai che cosa sarebbe stato il neorealismo cinematografico senza le letture del critico francese. Senza la critica la teoria diventa astratta e le opere mute. E l’intera cultura cinematografica si prosciuga, a partire dalla sua tradizione, lasciando sul terreno un profluvio di discorsi incapaci di lasciare il segno, di esprimere una qualche verità sulle opere e sul mondo.

6. Il tempo delle “categorie cosmiche” è finito, perché le parole d’ordine sulle infinite possibilità che emergerebbero dalla totalizzazione dei dispositivi tecnici e simbolici stanno tramontando. Si sono rivelate inefficaci. È ora di tornare attraverso la critica al non-tutto dell’opera. Senza che questo ritorno possa essere inteso come ritorno all’indietro, ad una posizione di retroguardia, segnata da soggettivismi idealistici, istanze autoriali, sacralità dell’opera.

Esattamente l’opposto. La critica è l’arte capace di dissolvere l’unità empirica dell’opera, e dunque la sua unicità, estraendone l’universalità dell’idea (sul mondo e sull’arte) da un lato, e individuandone la “familiarità” con altre opere dall’altro, contribuendo così a definire una tradizione (né continua né omogenea).

Per la critica sono gli effetti dell’opera che contano, non le cause. E gli effetti devono essere raccolti per essere resi veri. Tornare all’opera e alla critica significa dunque affermare la verità degli effetti. Quelli che dissolvono la determinatezza dell’opera nella verità che la critica è capace di estrarne (anche con violenza). Da dove il carattere per molti versi sempre distruttore della critica (tutt’altra cosa rispetto al giudizio talvolta negativo nei confronti dell’opera), che non preserva, non salvaguarda, non protegge ciò di cui si occupa: ma lo spinge al largo, in mare aperto, lo porta sotto la potenza dell’idea a costituire una costellazione con le altre opere. Senza tutto questo, senza il tratto agonistico della critica, il discorso diventa vacuo, meramente recensivo, rinunciatario.

*Questo saggio apre il volume Fata Morgana Web 2017. Un anno di visioni (Pellegrini Editore) a cura di Roberto De Gaetano e Nausica Tucci, disponibile a partire da 6 dicembre.

Riferimenti Bibliografici
W. Benjamin, Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Scritti (1919-1922), Einaudi, Torino 1982.
Id., Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 1993.
Id., Le affinità elettive, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995.
Id., Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi, C.-C. Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012.
R. De Gaetano, Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017.
D. Dottorini, La fiamma vivente. Il concetto di critica in Walter Benjamin, in AA.VV., Benjamin, il cinema e i media, Pellegrini, Cosenza 2007.
R. Grusin, Radical mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di A. Maiello, Pellegrini, Cosenza 2017.
H. James, L’arte del romanzo, Pgreco, Milano 2013.

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