Su una spiaggia assolata un bambino scava nella sabbia, alle sue spalle il relitto di una enorme nave affondata in mare. La madre da lontano gli intima di non mangiare nulla. Poi vediamo il bambino nel bagno di casa addentare con voracità un secchio di plastica, lo mastica e ingoia. Da lì a poco la madre soffoca con un cuscino il figlio. Questo inquietante e misterioso infanticidio è l’apertura di Crimes of the Future di David Cronenberg e racchiude una delle rare scene girate alla luce del giorno di un film tutto immerso in una oscurità incipiente, come scavato nel buio, inciso in un corpo notturno, in cui si aprono anditi scuri, si infiltrano nere striature. È come se Cronenberg concepisse questa sua “panoplia”, che è anche una sorta di “endoscopia” e insieme di autopsia della visione interna al suo cinema, in una sorta di svisceramento dell’atto stesso del filmare. Non a caso i titoli di testa, come quelli di coda, scorrono su un magma rossastro in cui l’epidermide e il viscerale si conglomerano, e in cui sembrano scorgersi dei graffiti, delle strane incisioni (l’incidere la carne è un gesto ricorrente nel film). Il “bisturi” filmico del regista canadese compendia tutte le sue ossessioni: la nuova carne, gli organi mutanti, le escrescenze corporali che pulsano di tensioni febbrilmente erotiche, i dispositivi ibridi dove la tecnologia si trasmuta in un coacervo di organico e inorganico. Il film è cosparso da autocitazioni di opere precedenti: dalla coalescenza di carne, protesi, tatuaggi e metalli di Crash (1996) ai gamepod di eXistenZ (1999) alle estroflessioni delle immagini video che investono i tessuti di corpo e cervello di Videodrome (1983) ai disegni di strumenti chirurgici per donne mutanti di Dead Ringers (1988).
Ma è soprattutto dal film omonimo del 1970 che Cronemberg pare ripartire, come volesse risalire a una filogenesi del suo cinema: in quell’aurorale mediometraggio veniva già figurata l’idea di una rigenerazione continua di organi asportati dal proprio corpo. È di questo che si tratta infatti. Sullo sfondo distopico di una specie di “trapassato futuro” in cui tutto pare corroso e rugginoso: i muri scrostati delle case, gli scafi di vecchie navi che galleggiano sulle banchine del porto, i vicoli e gli anfratti dove si aggirano ombre di corpi il cui biomorfismo è in piena mutazione, qui in questo non-luogo il dolore fisico è scomparso così come le pandemie infettive. Il corpo senziente è svuotato da ogni senso. La pervasività delle biotecnologie ha generato una nuova chirurgia a distanza capace di incidere la carne ed estrarre gli organi da organismi umani coscienti. L’apparato medico-chirurgico ha bypassato la malattia e si è trasferito in una nuova forma d’arte, conferendo “bellezza” all’estrazione di organi che non sono più biologici, ma, in quanto “neo-organi” testimoniano della mutazione in atto come vere e proprie creazioni.
L’operazione chirurgica si è conformata in un gesto performativo, in una esposizione del corpo mutante sulla scena di un “teatro anatomico” che si svolge nell’oscurità di luoghi esclusivi, a metà tra la galleria d’arte e il ritrovo clandestino. Qui si esibisce una coppia di artisti, diventati degli idoli, che ci appare subito simbiotica, come già lo era quella gemellare di Dead Ringers: Saul Tenser (un corpo-icona cronenberghiano come Viggo Mortensen, avvolto da una cappa nera simile a un sudario) e la sua assistente Caprice (una Léa Seydoux che sprigiona una sensualità insieme morbida e crudele). In un mondo senza dolore e che scivola nella perdita dell’umano Saul ci appare come un residuo sacrificale di questa soglia dove, per dirla con Bataille, la “parte maledetta” diventa esperienza interiore, e insieme si estroflette nel performativo. Saul sembra essere la concrezione di quello che Antonin Artaud chiamava “corpo senza organi” o “corpo colino” ma insieme da lui si originano “organi senza corpo” come animati di una inquietante bellezza in cui il mostruoso (anche come “mostrazione”) si fa incommensurabile.
Le escrescenze tumorali che fuoriescono dalla sua epidermide incisa dagli strumenti chirurgici che Caprice muove a distanza, come lame sottili e luminescenti, in una sorta di danza macabra, e in un gioco ad alta densità erotica, assumono vita propria e vengono come ridisegnati nel buio della scena dal tocco aereo delle dita femminili. Mentre su un monitor compare la scritta: “Il corpo è realtà” la performance viene ripresa da una miriade di device digitali, e la stessa Caprice filma la scena con una specie di anello-telecamera infilato al dito. Cronenberg ci restituisce questa visione alterata in un bianconero traslucido. Eppure il corpo di Saul sembra essere un ultimo avamposto del sentire in un mondo in cui il corpo, come si dice a un certo punto del film, non ha più significato e viene letteralmente svuotato del senso dell’umano.
L’abilità di Cronenberg sta tutta nell’infondere, disperatamente e lucidamente, nelle posture, nei respiri, nella voce roca, negli affanni, nei rigurgiti del corpo di Saul, tutto il travaglio di questo passaggio (anche nel senso di passione) dall’umano al postumamo, o all’infra-umano, e dall’organico, come senso compiuto e funzionale, a quello che Hölderlin chiamava l’aorgico, il caos illimitante del possibile, il magma ai confini della vita. Quando vediamo il corpo di Saul confitto, imbozzolato, come in una culla-sepolcro, su quei dispositivi biomorfici e insieme tecnomorfi (così simili all’inorganico alieno dei disegni di H.R.Giger) che si contraggono e oscillano, si schiudono e si rinserrano, suppliscono alla sua respirazione, deglutizione, masticazione, allora comprendiamo come la “sindrome di evoluzione accellerata” lo trascina verso uno stato insieme di non-morte e di rinascita “tensiva” e proliferante.
Corpo glorioso e trasfigurato come un Cristo sospeso tra crocifissione perenne e perenne trasfigurazione, oppure come un vampiro che invece di succhiare sangue ne emette di continuo attraverso i tagli, le incisioni, le emissioni di viscere. In questo è come se Cronenberg si riconnettesse alla visionarietà di Tod Browning. La cappa oscura che lo avvolge non l’abbiamo solo già vista in altre parvenze cronemberghiane dei suoi inizi (Transfer,1966 e Stereo, 1969) ma anche nel Dracula (1931) di Browning, e forse Cronenberg ha pensato all’aura inquietante delle esibizioni dei corpi mutati, delle carni mostrificate, delle malformazioni patologiche rese spettacolo in un classico del perturbante come Freaks (1932) sempre di Browning. Fatto sta che anche una atmosfera espressionista riemerge nei giochi d’ombra e nelle nebulosità corrose degli esterni e degli interni. Come pure un’aria di corrusco noir viene dipanata, con una dose di sinistra ironia, tra le pieghe dell’intrigo che avvolge Saul e Caprice.
Il film si muove come su tre registri: una dialogicità metafisica e allusiva, una performatività visionaria e allucinatoria che squarcia le immagini così come le epidermidi e le carni, e una sorta di mistery, appunto di crime, la cui tessitura, per così dire survoltata, fa pensare alle atmosfere lynchiane di Twin Peaks. C’è una coppia simmetrica composta da due funzionari di un fantomatico Ufficio di Catalogazione degli Organi: lei è Timlin (una febbricitante Kirsten Stewart) e lui è Wippet (un caricaturale Don McKellar). I due sono assidui frequentatori delle performance di Saul e Caprice e si propongono di catalogare gli organi estratti durante le esibizioni. Il dissezionamento degli organi andrà a costituire una sorta di “Tavola Anatomica” entro cui la visualità degli organi, secondo le intenzioni di Caprice, si disporrà come una serie di tatuaggi estratti dal corpo di Saul pregni di perturbante bellezza: “Creiamo una mappa che ci guiderà nel caos dell’oscurità”. È Timlin che definendo la chirurgia come il nuovo sesso veicola una potenza erotica che si insinua sempre più nell’empatia tra i corpi che si dischiudono, si aprono, lasciano fuoriuscire una linfa che non appartiene più alla fisicità e possiede una valenza trasfigurante.
L’infanticidio iniziale si ripercuote nello svolgersi del film sullo sviluppo del rapporto sempre più simbiotico tra Saul e Caprice. Il cadavere del bambino viene recuperato dal padre, Lang, che fa parte di una organizzazione radicale di “evoluzionisti” che hanno mutato il proprio apparato digerente diventando capaci di nutrirsi di plastica, il loro cibo è la “candy bar”, una oscura tavoletta composta da rifiuti tossici, che risulta fatale per chi è ancora provvisto di un apparato umano. Il bambino ucciso aveva acquisito la mutazione, sintomo dell’accelerazione evolutiva. Un poliziotto di colore usa Saul da informatore per incastrare Lang, che aveva proposto alla coppia di artisti di incentrare una loro performance, la più ardita, sulla autopsia del cadavere infantile per mostrarne la mutazione in atto. Ma i lembi di carne del corpicino squarciato espongono un groviglio di viscere che appaiono ancora umane, gli organi sono stati trapiantati. L’organico è tornato al suo posto ma solo come un inganno ottico. Lang viene assassinato con due trapani infilati nel cranio. Autopsia vuol dire “vedere con i propri occhi” aveva detto Caprice.
Il film si rivela dunque come una visione endoscopica, una riflessione autoptica in cui il corpo del film e lo stesso atto, politico ed etico, del filmare si compiono. Disteso sul suo letto ossificato Saul deglutisce la “candy bar” quasi come un’ostia sacrificale. Caprice lo riprende con l’occhio tattile della piccola telecamera infilata al dito. Il volto di Saul ora in bianconero, come una sindone, ci guarda dallo schermo. Sul suo volto scorre lentamente una lacrima. Ancora umana.
Riferimenti bibliografici
A. Artaud, C.s.O. Il corpo senza organi, Mimesis, Milano-Udine 2003.
G. Bataille, La parte maledetta. Preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino 2015.
F. Hölderlin, La morte di Empedocle, Garzanti, Milano 2005.
Crimes of the Future. Regia: David Cronenberg; sceneggiatura: David Cronenberg; interpreti: Viggo Mortensen, Léa Seydoux, Kristen Stewart, Scott Speedman, Denise Capezza, Tanaya Beatty; produzione: Argonaut Productions, NEON, CBC, MUBI, Serendipity Point Films, Telefilm Canada, Ingenious Media; origine: Francia, Grecia, Canada, Regno Unito; durata: 107′; anno: 2022.