Dice un’antica leggenda araba (la riprendiamo nella riformulazione di Somerset Maugham, dal testo teatrale Sheppey, del 1933):

C’era un mercante a Baghdad che mandò il suo servo al mercato per comprare delle provviste e dopo un po’ il servo tornò, bianco e tremante, e disse: “Padrone, poco fa, mentre ero al mercato, sono stato spinto da una donna tra la folla e quando mi sono girato ho visto che era la Morte che mi aveva spinto. Lei mi guardò e fece un gesto minaccioso; ora, prestami il tuo cavallo, e io me ne andrò da questa città ed eviterò il mio destino. Andrò a Samarra e lì la Morte non mi troverà”. Il mercante gli prestò il suo cavallo, il servo lo montò, gli piantò gli speroni nei fianchi e andò più veloce che il cavallo poteva galoppare. Poi il mercante scese nella piazza del mercato e vide la Morte in piedi tra la folla, venne da lei e le disse: “Perché hai fatto un gesto minaccioso al mio servo quando l’hai visto questa mattina?” “Non era un gesto minaccioso”, rispose la Morte, “era solo uno scatto di sorpresa. Ero stupita di vederlo a Baghdad, perché avevo un appuntamento con lui stasera a Samarra”.

Lo straordinario libro di Nastassja Martin, Credere allo spirito selvaggio (titolo originale Croire aux fauves, Bompiani 2021) racconta del suo personalissimo appuntamento con la Morte. Non a Samarra, e nemmeno propriamente con la morte, bensì con un orso. Nastassja, Nastja, è un’antropologa francese (allieva di Philippe Descola) che durante una spedizione etnologica nel 2015 sui vulcani della Kamčatka, all’estremità orientale della Siberia, viene aggredita da un orso che quasi l’uccide, massacrandole con un morso la parte destra del viso, fra mascella e mandibola, e poi lasciandole una profonda ferita sulla gamba destra. Ma anche l’orso ne esce male: mentre le addenta la gamba l’antropologa riesce a sfilare dallo zaino una piccozza con cui colpisce con forza l’animale, che scappa via sanguinante. Non c’è una vittima in questa storia, ed è questa la prima e forse la più importante delle scoperte che ci riserva questo libro che è insieme memoir, saggio di antropologia e di psicologia sociale, romanzo di formazione e di metamorfosi.

In effetti il punto focale della leggenda araba non è tanto nell’incontro con la morte, quanto nell’inevitabilità dell’incontro con quello che, nella psicoanalisi, si chiama il reale. Un incontro che Nastassja Martin non solo non può evitare (tutti, prima o poi, passiamo per Samarra), ma che ─ ed è questo che rende il libro così attuale nel tempo dei quotidiani bollettini di morte per Covid ─ in nessun modo vuole evitare. Per questo, in fondo, Nastassja Martin non ce l’ha con l’orso, che non ha fatto altro che agire da orso, ossia andare anche lui verso la sua Samarra. «Nastja, hai perdonato l’orso?» le chiede così l’amico Andrej; «di nuovo silenzio. Devi perdonare l’orso. Non rispondo subito, so di non avere scelta, eppure per una volta vorrei ribellarmi, contro il destino, contro i legami, contro tutto ciò verso cui andiamo e che è ineluttabile, vorrei gridare ad Andrej che avrei voluto uccidere l’orso, espellerlo fuori dal mio sistema, che ce l’ho a morte con lui per avermi sfigurato in questo modo. Ma non lo faccio, non dico niente. Respiro. Sì, ho perdonato l’orso» (Martin 2021, p. 33). Lo ha perdonato perché come l’orso non poteva che cercare di ucciderla così lei non poteva non avventarsi contro di lui quando gli si para davanti all’improvviso nella nebbia. Se ami la vita non puoi non perdonare l’orso.

Per questa stessa ragione, continua a dirle Andrej, in realtà l’orso «non ha voluto ucciderti, ha voluto marchiarti. Adesso sei medka, colei che vive tra i due mondi» (ivi, p. 34). In effetti l’incontro con il reale, se non ci annienta, lascia un segno, un marchio. Ora Nastassja Martin ha capito, per questo è diventata una medka, perché ora il suo sguardo può vedere anche quello che chi non ha incontrato l’orso non riesce a vedere, vede come una donna ma vede anche come vede un orso. Soprattutto ha capito che il reale non solo non è ciò che mette a rischio la vita, al contrario, la vita comincia solo dopo essere sopravvissuti all’incontro con il reale, solo dopo, cioè, essere passati per Samarra.

Mi dico che, senza volerlo ammettere, ho dovuto cercare sull’altopiano colui che avrebbe infine rivelato la guerriera che è in me; che proprio per questo motivo quando mi ha tagliato la strada io non sono scappata da lui. Anzi, mi sono gettata nella battaglia come una furia, e ciascuno ha lasciato il suo marchio sul corpo dell’altro. È difficile da spiegare, ma so che questo incontro è stato preparato. Da molto tempo avevo gettato le basi necessarie a portarmi fin dentro la bocca dell’orso, verso il suo bacio. E mi dico: chissà, magari anche per lui è stato lo stesso (ivi, p. 70).

Se c’è qualcosa, invece, che il nostro tempo disinfettato e impaurito proprio non riesce a sopportare è l’incontro con l’orso, con l’orso che ci aspetta a Samarra o in Kamčatka, con il nostro orso. Nastassja Martin quest’orso lo ha cercato a lungo, e non per mettersi alla prova, come invece dice il luogo comune, come se si trattasse di una sfida o di un gioco pericoloso, ma perché sentiva che se non fosse passata per Samarra non avrebbe mai smesso di avere paura della vita, di difendersi dalla vita. Per questo dice a sé stessa, in mezzo ad un calvario di operazioni, infezioni e drenaggi, che «se mi salvo, sarà un’altra vita» (ivi, p. 107). Per questa stessa ragione quello che per lei è stato l’orso per noi oggi è il SARS-CoV-2, un’altra incursione impossibile nelle nostre esistenze. Per Nastassja Martin non c’è nessuna spiegazione per quell’incontro, perché questo sono gli incontri, assurdi e privi di senso, e tuttavia le nostre esistenze si costruiscono proprio e solo a partire da quegli eventi insensati. È l’altra scoperta di Nastassja Martin; come non ha senso prendersela con l’orso perché si comporta come un orso così non ha senso chiedersi perché proprio a lei sia capitato un incontro del genere. Fare a meno del senso, delle recriminazioni, delle lamentele. La vita ha il muso terribile di un orso, non c’è proprio altro da dire:

Non è mia intenzione esprimere a parole un pensiero; preferisco scriverlo: oggi seduta in riva al fiume nella neve bagnata scrivo che esiste una legge implicita, silenziosa. Una legge adatta ai predatori che si cercano e si evitano nelle profondità dei boschi o sulle dorsali della terra. Questa è la legge: quando si trovano se si trovano, i loro territori implodono, i loro mondi si rovesciano, il loro consueto avanzare si altera e i loro legami diventano inscindibili. Esiste una sospensione del movimento un blocco una sosta uno stupore che assale le due creature selvagge prese nell’incontro arcaico: quello che non si prepara, quello che non si evita, quello che non si rifugge (ivi, p. 108).

A che cosa, infine, «non si rifugge»? Al reale dell’orso. Nastassja Martin scopre così che solo rimanendo fedeli alla sua assoluta incomprensibilità è possibile “salvarsi”, e quindi aprirsi fino in fondo alla sua potenza: «Sono di nuovo sola nella stanza, sto male. Qualche ora fa ho vomitato sangue. […] Apro il mio quaderno nero, scarabocchio fino all’alba. Questa notte, scrivo che bisogna credere allo spirito selvaggio, al suo silenzio, al suo ritegno; credere al chi va là, ai muri bianchi e nudi, alle lenzuola gialle di questa stanza d’ospedale» (ivi, p. 63). È sempre e solo questa, in fondo, la posta in gioco: credere al fatto del mondo, cioè al divenire-orso di Nastassja, al divenire-Nastja dell’orso: «Disinnervare rinnervare mescolare accorpare innestare» (ivi, p. 63).

Nastassja Martin, Credere allo spirito selvaggio, Bompiani Editore, Milano 2021.

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