Proviamo a immaginare di riuscire a vedere il mondo come lo può vedere un uccello dall’alto dei cieli, oppure come si presenta dal punto di vista di una nuvola. Di colpo tutte le distinzioni territoriali che ad uno sguardo umano appaiono affatto evidenti, i confini che separano le diverse proprietà e i diversi territori, con tutti i nostri terribili “divieto di accesso”, ebbene, di colpo non esistono più.

L’uccello nel cielo vede il mondo, il mondo così com’è, come un tutto indiviso e indivisibile. In realtà gli occhi dell’uccello non vedono, propriamente, il mondo, come se il suo sguardo fosse separato dal mondo che sta osservando, perché quello sguardo fa parte del mondo, ché non c’è alcuna posizione esterna rispetto al mondo; il mondo non è altro che la totalità di tutti i punti di vista sul mondo. È il mondo, allora, che si osserva attraverso gli occhi dell’uccello. La caratteristica distintiva di questo sguardo inumano, allora, è che si tratta di uno sguardo impersonale, nel senso che non è lo sguardo di un soggetto, cioè di un io distinto e separato, che dall’esterno sta osservando il mondo come se, appunto, soggetto e mondo fossero due entità separate.

Si tratta di uno sguardo che tiene insieme chi guarda e ciò che viene osservato, ossia uno sguardo che non separa e distingue bensì uno sguardo che unisce. È questa la posta in gioco del libro di Leonardo Mastromauro, Che cos’è il Sud? Saggio sulla terra inappropriabile (Meltemi 2024), come riuscire a vedere il mondo come lo potrebbe vedere un animale non umano. Ossia chi non vede il mondo come qualcosa suddiviso nei diversi territori, ognuno dei quali appartiene a qualcuno. Vede il mondo come un inappropriabile, appunto. 

Il punto di vista umano, al contrario – almeno dell’umano occidentale che ha talmente introiettato la forma di vita capitalistica (e i suoi presupposti metafisici) da non riuscire a immaginare un modo diverso di stare al mondo – è quello di chi pensa che non ci sia, propriamente, la terra, piuttosto pensa che l’originario sia costituito dal territorio, ossia dalla terra appropriata, suddivisa dagli esseri umani per essere sfruttata e posseduta. Questo contrasto è antico come la nostra tradizione, come si può vedere nello scontro fra Caino, il contadino, e Abele, il pastore, cioè appunto fra chi possiede un territorio e chi, invece, muove liberamente il suo gregge per la terra. Non a caso la prima città, Enoch, viene fondata da Caino: 

La città di Enoch, allora, rappresenta il primo intento di dominio sulla terra, il primo momento in cui si presenta una condizione di possesso territoriale. Qui, il destino delle città terrene, come commentato da Agostino, è dominato da conflitti e predominio di un gruppo su di un altro. Abele invece, che era pastore, visse come straniero sulla Terra senza mai fondare nulla facendosi prototipo di quel sine proprio che diverrà modello per i francescani. Allora è possibile affermare che è proprio la fondazione di Enoch a inaugurare un processo destinato a caratterizzare il ruolo di dominio dell’essere umano sulla Terra (Mastromauro 2024, p. 9).

Pensare la terra secondo la nozione di “territorio” significa quindi pensarla solo come oggetto della presa e del possesso umani. Da notare quanto questa nozione produca inevitabilmente conflitto perché da un lato il “proprietario” di un territorio non vuole che altri possano entrarvi, e, per converso, chi ne è escluso desidera invece appropriarsene dall’altro: «L’esercizio del terrore – o della violenza – è, quindi, l’azione fondativa del territorio: terrore e territorio, terrēre (atterrire, spaventare, impaurire) e territorium, sono co-originari» (ivi, p. 16), cioè appunto nascono insieme e si tengono insieme reciprocamente. Il dispositivo che produce il territorio viene chiamato da Mastromauro:

Macchina geopolitica [che] definiamo [come] il processo di creazione di legami biopolitici – finzioni giuridiche, politiche, sociali e linguistiche – attraverso cui la relazione fra essere umano e mondo, essere umano e spazio abitabile è governata e amministrata. Nel momento in cui essere umano e mondo non sono in uno stato di contatto o immanenza ma fra di essi si interpone una frattura, i legami biopolitici possono operare (ivi, pp. 108-109).

Al territorio Mastromauro contrappone invece il “paesaggio”, che non è di nessuno, che anzi può esistere come paesaggio che si offre liberamente allo sguardo e al passaggio proprio perché non appartiene a nessuno: «Se il territorio può essere vissuto ed organizzato, il paesaggio può solo essere visto o contemplato» (ivi, p. 25). In effetti il paesaggio non è una cosa, e quindi non può essere fatto oggetto di appropriazione privata come un terreno o un’automobile. Il paesaggio esiste propriamente quando qualcuno lo osserva o lo percorre senza meta.

Su Marte non esistevano paesaggi finché una sonda terrestre non ha cominciato a mandare sulla terra delle immagini della sua superficie. Un paesaggio, in questo senso, è l’indefinita apertura di uno spazio ad una fruizione libera e disinteressata. Questo non vuol dire che un paesaggio possa esistere solo per un essere umano; degli uccelli poggiati su un filo della luce forse stanno anch’essi godendo di un paesaggio, non si può escludere, oppure un gatto sul davanzale di una finestra che osserva quello che succede in una strada. Il punto fondamentale è che il paesaggio, diversamente da un territorio, è inappropriabile: «Il paesaggio non è […] il risultato di una particolare relazione con il mondo dove, per così dire, l’impronta dell’essere umano è presente nella sua stessa disattivazione o inoperosità» (ivi, p. 31).

Siccome il paesaggio non appartiene a nessuno, non c’è bisogno, per goderne, di essere un soggetto proprietario, di essere un “io” che si contrappone ad un “tu” che – come succede nel caso del territorio – vuole appropriarsi di quello che è mio. Non c’è più alcun “mio” e alcun “tuo” nel paesaggio (tantomeno un “nostro”). In questo senso «il paesaggio è […] la destituzione puntuale del territorio […] il paesaggio è la dimensione spaziale che si apre quando tutti i dispositivi di dominio territoriale giungono alla loro disattivazione» (ivi, p. 34). È in questo contesto che si pone la questione del Sud, non tanto come luogo fisico, quanto come operatore di disattivazione del dispositivo territoriale, cioè di quel dispositivo che produce da un lato i territori e dall’altro i conflitti che derivano da questa appropriazione. A questo Sud si contrappone il Nord, che

incarna il modello antropocentrico attraverso cui il mondo, le sue forme di vita e le relazioni che tra essi intercorrono, diventano infinitamente appropriabili. Il Nord è quel sistema strutturale dove le condizioni che fanno dell’essere umano il soggetto dominante delle relazioni vengono confermate di volta in volta. Nelle visioni nordcentriche l’essere umano dev’essere a tutti i costi separato dalle altre forme di vita che, a loro volta, smettono di essere soggetti attivi e diventano oggetti (ivi, p. 114). 

Il Sud, per Mastromauro, non è quindi un luogo geografico, quanto una sorta di contro-dispositivo deterritorializzante (la coppia concettuale deleuziana-guattariana “territorializzazione” e “deterritorializzazione” è al centro del libro) che disattiva le pretese proprietarie del punto di vista del Nord territorializzante. Nel Sud, allora, prevale la nozione di “uso” rispetto a quella di “proprietà privata”, perché appunto «la categoria di “uso” rende inoperosa la relazione soggetto-oggetto» (ivi, p. 156).

Si pensi, ricorrendo ancora una volta ad un esempio animale, ad uno scimpanzé che usa una foglia arrotolata come una sorta di bicchiere. La foglia serve a bere, quando lo scimpanzé non ha più sete lascia andare la foglia, che quindi non è un suo oggetto, una sua proprietà personale. Allo stesso tempo la foglia non smette di essere una foglia perché l’animale l’ha usata per bere. L’uso è temporaneo e contingente.

Nell’uso della foglia lo scimpanzé non afferma la sua autonomia soggettiva rispetto all’oggetto foglia, così come questa non è definitivamente subordinata allo scimpanzé. La foglia e lo scimpanzé si sono incontrati, e per un breve lasso di tempo sono stati in relazione. In questo senso gli uccelli nel cielo e gli scimpanzé nella foresta vivono perennemente nel sud, perché non hanno bisogno, per vivere, di affermare sé stessi come soggetti proprietari e tantomeno hanno bisogno di possedere qualcosa. Gli animali usano il mondo, non lo possiedono, abitano la terra non il territorio:

Se quindi volessimo provare a dare una definizione di Sud […] potremmo dire che esso è un’intensità che attraversa le relazioni spaziali e che, nell’atto stesso di destituire l’operare della "macchina geopolitica", apre la vita alla dimensione dell’inappropriabile. (ivi, p. 163).

Leonardo Mastromauro, Che cos’è il Sud? Saggio sulla terra inappropriabile, Meltemi, Milano 2024.

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