Gotham City, Italia, marzo 2020. A reti unificate la televisione mostra il capo del governo che annuncia un’invasione inedita e paurosa. Ci ordina, per far fronte a un’emergenza sanitaria senza precedenti, di rinunciare a buona parte delle garanzie dello stato di diritto. È fatto divieto di ogni forma di socialità: dobbiamo restare in casa e aspettare che tutto finisca. Esercito, camionette della polizia e dei carabinieri sorvegliano minuziosamente i movimenti di chi fa la spesa, compra un giornale, ha un cane. Droni sorvolano il territorio promettendo una sorveglianza assoluta. Milioni di bambini sono chiusi nelle loro case da settimane. Molti anziani da giorni muoiono da soli e senza cure. Ci garantiscono persino una App in grado di segnalare la presenza vicino a noi di un contagiato. I telefoni cellulari oltre che a comunicare come al solito servono a monitorare i nostri spostamenti. Governatori di regioni periferiche interpretano il ruolo di sceriffi che non fanno né sconti né prigionieri. Fuori dalla città, sulle grandi arterie che conducono alle aree industriali più importanti del Paese, il traffico continua quasi come sempre: il mercato non può attendere.
Eppure non sta succedendo niente; poco più di qualche lamento via web. Letteralmente: siamo fermi, impauriti, obbedienti. Perché? Forse semplicemente perché sì: appare tutto fatale perché preparato e organizzato da tempo. Non da adesso le nostre case sono dei bunker da dove possiamo fare (quasi) tutto; da tempo sapevamo cosa aspettarci quando un nemico senza scrupoli — uno con cui non puoi negoziare una tregua o venire a patti — ci avrebbe attaccato: lo abbiamo visto, immaginato, sognato. A queste immagini e sogni, al nostro inconscio simbolico contemporaneo da decenni allenato all’apocalisse, sembrano ispirarsi le decisioni politiche attuali. Non manca neanche chi — lo confessiamo: sono quelli che ci stanno più antipatici (i più classisti e noiosi) — intravede nell’emergenza un’occasione per rallentare e prendersi cura di sé nella propria casa (questa idea lascia affiorare il privilegio: detto che non tutti hanno una casa, lo slogan “io resto a casa” suppone che le case siano tutte ugualmente comode e spaziose). Insomma, non c’è altra realtà possibile oltre quella che in queste settimane è allestita, immaginata, alimentata da chi gestisce il potere, il sapere, la scienza e fa di conto. Si diffonde un realismo assoluto che colpisce chiunque e a cui chiunque si adegua.
Tolleriamo tutto; ogni giorno qualcosa in più. Nessuno si rivolta; chi lo fa a titolo individuale sembra incespicare nella mera trasgressione destinata a confermare la vigenza della sospensione delle regole abituali. Esiste solo il necessario e il suo corollario più evidente: l’essere realisti. L’impossibile, che per noi è il nome della politica, tutto ciò che ci permette di pensare diversamente da come la realtà ci impone di fare, svanisce tra un programma e l’altro della televisione.
Il pericolo Coronavirus c’è; non scherziamo. Ma la risposta che abbiamo fornito — la gestione della minaccia — era predisposta ben prima che questo virus — un organismo senza spina dorsale: né vivo, né morto… acellulare — si facesse vivo. L’eccezione non ha nulla di eccezionale. Probabilmente il pur lapidato Giorgio Agamben di questi tempi, seppur imprudente, a ben vedere non aveva tutti i torti: l’inveramento dello stato d’eccezione attuale non significa che stiamo vivendo una rottura epocale ma soltanto una forma di disvelamento plateale.
Michel Foucault lo scriveva più di quarant’anni fa: il primato della dimensione economica che emerge nel secondo dopoguerra a danno di qualsiasi altra sfera dell’esistenza umana si deve necessariamente accompagnare con una sistematica medicalizzazione della politica. È indispensabile che ciò avvenga perché la vita sociale per quanto complessa possa apparire, laddove presenta degli ostacoli all’espansione della ricchezza del capitalismo, un problema non di carattere politico ma, come dire, meramente naturale.
Lo ripetiamo: in fondo non sta succedendo niente a cui non fossimo preparati, anzi meglio che non avessimo già vagheggiato. È tutto cominciato molto tempo fa, forse la sera del 30 ottobre 1938 quando l’emittente radiofonica CBS trasmise uno sceneggiato interpretato dall’allora ventitreenne Orson Welles, tratto dal romanzo di fantascienza di Herbert George Wells, La guerra dei mondi: invasioni nemiche e scenari di distruzione di massa che da quel momento coltivano il nostro universo che, negli anni, tanto cinema ha continuato a nutrire senza sosta.
Nel suo viaggio indietro nel tempo James Cole, il protagonista de L’esercito delle 12 scimmie (Gilliam, 1995), dal 2035 si ritrova catapultato nel 1990. Annuncia a tutti che nel 1996 un terribile virus porterà il genere umano alla quasi totale estinzione: i pochi superstiti saranno costretti a vivere sottoterra e gli animali prenderanno il possesso totale del mondo. Cole è considerato un pazzo e internato in un manicomio dove incontra la dottoressa Railly che, dopo un primo momento di diffidenza, comincia a dar credito alle parole dell’uomo. Proprio come lei, noi sappiamo che Cole non è un folle e anzi è proprio grazie al suo racconto che possiamo dire di aver già assaporato ciò che oggi ci sequestra lo sguardo, le parole, il corpo, i desideri.
Una lunga serie di altri film hanno anticipato le nostre visioni e allucinazioni contemporanee. È sufficiente fare una ricerca veloce su Google e la lista si rivela lunghissima: Virus letale (Petersen, 1995), 28 giorni dopo (Boyle, 2003), Io sono legenda (Lawrence, 2008), Carries — Contagio letale (Pastor, 2009). Ma in fondo è l’intero filone del cinema apocalittico contemporaneo a fornire le condizioni di adattamento ambientale a quello che fino a ieri ci sembrava solo un incubo paranoide, dai toni fantascientifici. Rivisto oggi Contagion (Soderbergh, 2011) più che un film di fantascienza sembra incredibilmente un documentario sui tempi che corrono: l’origine della malattia, la diffusione, i sintomi, le morti, la violenza di chi sopravvive, l’arrivo del vaccino e poi forse — ci speriamo — il ritorno a una tanto agognata e presunta normalità.
Il Coronavirus ha dunque molto in comune con la schiera di nemici cui la fantascienza ha dato vita. Anzitutto la capacità distruttiva: come gli extraterrestri provenienti da Marte o da chissà dove, questo virus può annientarci tutti e farla finita con l’intero genere umano. Ma soprattutto, come ogni nemico ubiquo e sconosciuto, può essere ovunque, potenzialmente sempre in agguato, eppure invisibile; per questa ragione in fondo chiunque di noi è potenzialmente e inconsapevolmente al suo servizio, suo complice e alleato involontario. Non si vede il virus, non con occhi umani almeno: è già questa la sua forza, l’indice della sua invincibilità. Sotto gli occhi di tutti, invece, emergono gli scenari da fine del mondo di città deserte e strade desolate, in cui si stenta a credere che qualcuno abbia mai potuto abitare. Li abbiamo visti molte volte, in centinaia di film, e oggi non abbiamo difficoltà a riconoscerli, persino forse a percepirli, nella loro inquietante inospitalità ma allo stesso tempo come una presenza familiare.
Eravamo pronti; forse non lo sapevamo, ma eravamo pronti. Per questo motivo ciò che stiamo vivendo non è un evento, una rottura epocale, perché tutto era largamente immaginabile o, ancora meglio, già visto. Come se il nostro inconscio collettivo fosse ampiamente disposto a penetrare in uno stato d’eccezione madornale senza fare troppa resistenza: la natura che difendiamo, rinunciando a tutto, a qualsiasi diritto, libertà, desiderio, necessità che non sia quella di sopravvivere, si associa alla naturalezza con cui (quasi) ogni residente oggi in Italia di fatto è in quarantena.
Nonostante il discorso pubblico sia pronto a dire che l’emergenza ci ha consegnati a scenari di guerra, in realtà, non è vero, perché non stiamo vivendo nulla di veramente eccezionale. Almeno non una guerra come quelle che il secolo scorso ci ha fatto conoscere. Quelle sì erano imprevedibili, tanto che il cinema ha fatto molta fatica per riuscire a rappresentarle. Nel nostro caso, invece, il racconto ha preceduto ampiamente l’esperienza di queste settimane. Per questa ragione, c’è da pensare, tutto oggi (ogni scelta governativa, ogni previsione, ogni indicazione di comportamento) appare inevitabile, quasi — diremmo — ordinario nella sua straordinarietà.
La cosa curiosa è che se avesse ragione Macron, e fossimo veramente in guerra contro il virus (al suo fianco si è schierato pure l’ineffabile Badiou di questi tempi), ognuno di noi nelle proprie case sarebbe in prima linea, rintanato nella propria trincea, pronto senza sosta a dare battaglia con però la bizzarra impressione di continuare in fondo la condizione dell’essere-trincea che sembra sia diventata, ben prima di oggi, la quotidianità di ciascuno di noi. Ma se siamo in trincea, ci chiediamo, chi prende una boccata d’aria, è un disertore? Eroi a buon mercato! Non abbiamo solo voglia di ordine e guerra, ma in questa maledetta primavera anche di un’avventura e di una storia; di qualsiasi storia: pure una storia dove non accade letteralmente niente. E quindi ci chiudiamo in casa senza reagire.
Abbiamo imparato, ancora negli ultimi anni, che non esiste natura che non sia informata dalla tecnica; anzi, a più riprese, ci è stato detto che è tecnica la stessa esistenza umana. Le due cose coincidono da quando la tecnica ci lascia vedere sempre meglio, respirare meglio, comunicare senza interruzione: da qualche anno siamo tutti, continuamente, fotografi, registi, montatori, immersi in uno spettacolo che si alimenta senza tregua. Anche a questo siamo stati preparati, all’idea di poter rinunciare a buona parte delle nostre esperienze, o meglio di poterle rimpiazzare con deleghe tecnologiche che oggi sperimentiamo ventiquattro ore su ventiquattro.
Di nuovo, fra gli altri, è stato uno dei prodotti mediali più discussi e di successo degli ultimi anni a esercitarci a tutto questo: gli episodi distopici di Black Mirror, di cui abbiamo sentito ininterrottamente discutere come di uno degli oggetti audiovisivi più interessanti sul mercato mondiale, impallidiscono rispetto alla realtà che in questi giorni stiamo vivendo. In compenso hanno fatto la loro parte nella produzione del dispositivo securitario in cui ci troviamo incastrati: offrono gli strumenti per riconoscere questa situazione come già accaduta, senza che ciò ci metta però nella condizione di poter immaginare una reazione diversa. Per cui ciò che stiamo vivendo — l’intasamento tecnologico delle nostre esistenze e la sospensione di moltissime garanzie giuridiche — non ci mette più di tanto in allarme.
È così che abbiamo ben presto accettato come un fatto incontrovertibile e non come l’esito di una decisione governativa (di per sé stessa opinabile) l’interruzione di ogni relazione extra-domestica, sostituita dalla mediazione di una attrezzatura già largamente in uso: WhatsApp, telefonate e videochiamate, piattaforme social a cui abbiamo affidato la salvaguardia di tutte le nostre relazioni affettive, professionali, persino mediche. Per non parlare di tutte le forme di intrattenimento domestico a cui, appunto, eravamo già stati abituati: Youtube, Netflix, Amazon Video, YouPorn, e tutte le altre piattaforme di video on demand già pronte per soddisfare ogni nostra esigenza. Il problema è al più di chi, non pochi a dire il vero, non possiede una strumentazione tecnica adeguata: sono questi ultimi a-tecnologici a fare esperienza della fine di ogni esperienza che il resto del mondo vive con naturalezza. È attorno a questa differenza che si sedimenteranno, di qui a breve, nuove insopportabili differenze sociali, di cui pochi sembrano preoccuparsi.
Naturalmente anche sul web si scaricano le nostre passioni, rabbie, emozioni. Non si tratta quindi di pensare che da una parte c’è la realtà e dall’altra il virtuale svuotato di senso. Nessuna fiacca nostalgia del passato; le cose sono terribilmente più complesse. Semplicemente, senza che nessuno in particolare lo volesse (non esiste il Padre/Sovrano cattivo, la Spectre, pronta ad amministrare premi e colpe), nella nostra esperienza delle cose — particolarmente in Italia che ancora una volta, incredibilmente, come cinquant’anni fa, diventa un laboratorio mondiale: prima le stragi di Stato, poi il crollo improvviso di un potere apparentemente monolitico, Berlusconi, oggi il Coronavirus in forme per adesso altrove sconosciute — è scomparsa la politica nel senso più pieno che esso implica: prendersi dei rischi; anche grandi (come invece in Francia, ad esempio ancora i Gilets jaunes, sono disposti a fare). Sì, perché rifiutarsi di fare ciò che ci dicono di fare, vale a dire imporci di coincidere soltanto con la nostra esistenza biologica, quando però gli operai del bresciano devono continuare a fabbricare revolver nelle officine Beretta, vuol dire fare politica; ma la politica è il campo in cui chi si muove deve avere qualcosa da perdere. In ogni film apocalittico, proprio quando il nemico sembra invincibile, se le cose ritornano sul binario giusto, è perché qualcuno si rende conto che deve rischiare molto, moltissimo, quasi tutto.
Il punto non è il web, i media, le serie tv che assorbono ogni discorso e passione visiva ed eccitazione sociale. Il problema è la separazione di tutto questo da qualsiasi forma d’esperienza; da qualsiasi sofferenza, delirio politico, ambizione a pensare l’impossibile (ossia, la politica), relazione con ciò che è strano ed estraneo e quindi fatalmente traumatico.
È singolare pensare che Walter Benjamin nel 1933, per determinare il carattere più intimo e scabroso della catastrofe della Grande guerra, parlava di un collasso dell’esperienza: i reduci, pur avendo partecipato a un evento epocale, mostruoso, senza precedenti storici, tornati dal fronte, non sapevano raccontare. Muti: mancava qualsiasi epica al loro vissuto; nessun eroismo di fronte alla guerra dei materiali si rivela legittimo e tollerabile e quindi c’era poco da testimoniare. Probabilmente è esagerato ma il nostro avvilimento e il dolore terribile di chi ha perso le persone più care di questi giorni sembra ricalcare una situazione analoga: siamo a corto di esperienza, perché, almeno dalle nostre parti, è proprio il carattere indecifrabile, singolare, gratuito dell’esperienza, persino l’esperienza di non farne alcuna, ad essersi perduto.
Singolare: giornate allo stesso tempo infinite e brevi come un lampo perché, pur vivendo la “fine del mondo”, non accade niente. Professori di ogni ordine e grado, umanisti dal fiuto raffinatissimo e letture elegantissime, come se niente fosse, impartiscono lezioni davanti al computer senza avere né il tempo né la voglia d’interrogare la trasformazione radicale del loro statuto, di che cosa diventa il loro sapere quando si esprime invitando gli studenti a disattivare il microfono. Bambini, adolescenti, privati dei corpi, di ogni amico, intasano la rete di videochiamate dove la più ovvia delle domande, diventa un interrogativo persino insolente: che cosa stai facendo? La vita continua; ci si organizza tutti insieme mentre là fuori succede di tutto, cioè, proprio niente.
Chissà, forse ha ragione un amico che ci diceva che questa situazione ci permetterebbe di vedere ciò che senza Pasolini negli ultimi quarant’anni non siamo stati in grado di vedere da soli e unicamente questo stato di eccezionale normalità lascia platealmente emergere: abbiamo sotto gli occhi oggi tutta insieme la seconda apocalisse antropologica che attanaglia il nostro paese dopo quella descritta da Pasolini. Siamo diventati ammorbiditi consumatori di emozioni, avventure, storie; ci privano di qualsiasi cosa, e siamo tutto sommato sereni nel nostro rifugio.
Stiamo cercando di dire che tutto quello che sta accadendo, come se non stesse accadendo (quasi) niente, probabilmente è possibile soltanto facendo seriamente i conti con un’ipotesi che anni fa anticipava Peter Sloterdijk: il diventare mostruoso non tanto delle situazioni estreme, ma del quotidiano; la qual cosa implica evidentemente una complessiva mutazione antropo-tecnologica che è talmente evidente che pare addirittura difficile da spiegare.
Epilogo (con-vivere con il virus)
All’inizio degli anni ottanta Renato Nicolini, assessore alla cultura di Roma fra il 1976 e il 1985 e ideatore dell’Estate romana, aveva concepito, perché non restassimo perennemente impigliati in una stagione difficile e decisamente più violenta e affascinante di questa, che bisognasse rompere con la tirannia della necessità e tornare a rivalutare ciò che — quasi sulla scia della dépense di Bataille — definiva l’effimero: ciò che necessario non è; eppure forse è la sola ragione per cui vale la pena lasciare le proprie case e affollare uno spazio che non ci appartiene, lo spazio pubblico. Per esporsi a forme d’imprevedibilità che non abbiamo già immaginato, desiderato e consumato ancora prima di abbandonare le nostre tane kafkiane.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995.
G. Bataille, La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 2015.
P.P. Pasolini, Lettere luterane, Garzanti 2015.
P. Sloterdijk, Non siamo stati ancora salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004.