Tu ami molto i disegni di anatomia e quelli delle macchine di Leonardo da Vinci, a cui ti sei ispirato. E poi hai raccontato di una tua visita al Museo della Specola di Firenze, quando ammirasti gli straordinari modelli anatomici barocchi di Clemente Susini e Gaetano Giulio Zumbo. Allora eri intento a preparare il tuo film “Vital”, dove per l’appunto uno studente di medicina disseziona il cadavere della persona amata, e dove i disegni leonardeschi sono molto presenti. Ora, c’è un modo di definire i disegni di Leonardo, le cere anatomiche barocche ecc., e cioè “macchine anatomiche”. Si tratta quindi di dispositivi della visione che sezionano il corpo. Per te il cinema è una macchina, un dispositivo, che mostrando l’interno, anatomizzando i corpi, può anche trasformarli?
Il protagonista di Vital è molto curioso di sapere qual è il processo con cui si è formato il mondo, vuole guardare dentro questo processo. Cerca una somiglianza tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra il microcosmo e il macrocosmo. C’è uno strumento ottico per questo: il microscopio, attraverso cui vediamo il mondo piccolo ingigantito, e questo piccolo mondo, ingrandito, somiglia al cosmo, alle galassie. La sua idea fissa è quella di scoprire, di rendere visibile questo mistero, e questo lo porta a interessarsi dell’anatomia: capire come, dentro al nostro corpo, si manifesta questo mistero. Ma resta un mistero: alla fine non capirà, rimane un tentativo, il tentativo di rendere visibile il sistema del mondo. Questo è il mio film, e forse questo è il cinema.
Il cinema sarebbe allora come un bisturi, uno strumento che penetra nel corpo, e nel corpo del mondo, lo esplora, ma con questo stesso “atto” del vedere, modifica e forse distrugge, vanifica, la stessa possibilità di mostrare il mistero della vita, e la possibilità della vita di darsi in visione.
Sì, è una metafora che mi piace: effettivamente avvicinandosi con la macchina da presa alla realtà, possiamo estrarne dalla profondità, l’invisibile… che però resta invisibile!
Oggi si discute molto della possibilità di vedere il cinema, i film, non più nella sala cinematografica, ma in una serie di altri canali di diffusione, punti di dislocazione della visione, microdispositivi (computer, telefonini) o macrodispositivi (facciate di palazzi ricoperte da maxischermi). In questo senso Tokyo è una metropoli esemplare, una città ottica: come se tutta la città, disseminata di schermi, si fosse trasformata in uno schermo, si potrebbe dire “autoptico” (del resto l’etimologia stessa di “autopsia” sembra richiamare questa possibilità). Che cosa pensi del fatto che il cinema non si trovi più nel suo luogo deputato e sia rilocato in luoghi diversi e frammentati?
Prima bisognava andare nella sala, certo, ma soprattutto bisognava essere al buio, bisognava spegnere la luce, altrimenti non si vedeva niente sullo schermo. Quella era una intimità che ci faceva battere il cuore. Invece oggi questa emozione, il battito di cuore che avevamo all’inizio della proiezione, non esiste più. Questo mi dispiace.
Si può dire che in questo senso il cinema è qualcosa di intimo, di nascosto, e che la sua collocazione vera è nel nostro corpo (tu hai parlato di cuore)? Entrare in una sala è come entrare nel proprio corpo? È come andare a letto, spegnere la luce e cominciare a sognare? C’è una fisicità endoscopica ed endogena del dispositivo cinematografico? Nella domanda “che cosa può il cinema?” riecheggia quella deleuziana “che cosa può un corpo”?
A proposito di questo rapporto tra corpo, intimità e cinema di cui parli, mi ricordo che quando ho avuto l’idea di girare Tetsuo (1989) volevo esprimere soprattutto una sorta di erotismo, quando toccavo il metallo sentivo una sensazione molto forte, fisica, qualcosa di particolarmente eccitante, feticistico. Pensavo fosse qualcosa di personale, ma, girando il film, esplorando questa sensibilità, mi sono accorto che questo rapporto tra uomo, materia, attrezzo, protesi artificiale, è qualcosa di basilare, di primigenio, ed è anche alla base dell’evoluzione e della conoscenza. Mi colpisce sempre il ricordo dell’inizio di 2001: Odissea nello spazio (1968) di Kubrick: è un piccolo attrezzo che viene lanciato nel cosmo e si trasforma in una immensa astronave. Questa immagine è quella del destino dell’uomo: ci innamoriamo del prolungamento del nostro corpo, lo stacchiamo da noi, ne facciamo un oggetto, la proiezione di un nostro corpo, lo trasformiamo e ci trasformiamo. Questa è la tecnologia, alle origini c’è un rapporto intimo con il nostro corpo. Non è un caso se questa pulsione amorosa si traduce in un’arma, le armi sono prolungamenti del corpo, e le amiamo come parti del nostro corpo. Ne possiamo fare oggetti d’amore oltre che di violenza. Possiamo amare un coltello per questo e usarlo per cucinare, per uccidere, per tagliare, ma anche come attrezzo, oggetto erotico: è la stessa cosa per il computer. C’è sempre un collegamento intimo, erotico.
Un erotismo della protesi e dell’oggetto… Quello che dici mi fa pensare a un grande film di Ferreri: “Dillinger è morto”, dove Piccoli si innamora di una pistola e ne fa un oggetto feticcio, colorato, di cui ama più la forma che la funzione. Allo strumento si sovrappone qualcosa. Come nei due “Tetsuo” al corpo si sovrappone un rivestimento macchinico, che però lo rende feticcio, lo trucca oltre che trasformarlo, lo decora ritualmente. Ma questa corazza, questo rivestimento, non viene dall’esterno, proviene dall’interno del corpo, attraverso un pathos della carne, uno spasmo, un’apertura dolorosa. Ne risulta un’ibridazione, un dispositivo ibridato uomo-macchina, tecnomorfo; tu gli dai nomi diversi nei due “Tetsuo”: Body Hammer, Iron Man. L’organico mescolato all’inorganico dà luogo a un dispositivo: è ancora un corpo, è ancora “un cinema”?
Tutto comincia con il cinema di Cronenberg: la parte metallica, la parte meccanica è qualcosa che si introduce dall’esterno per contaminare o modificare il corpo, salvo che per una parte, che è il cervello, che può modificare il corpo dall’interno. Eppure si produce, dopo Cronenberg, una visione che fonde la parte meccanica con quella organica, si sviluppa qualcosa d’altro. Dopo aver visto Videodrome mi sono reso conto di questo, ho cominciato a rispettarlo come un padre. E come ogni figlio dovevo proseguire sulla strada che lui mi indicava, non potevo tornare indietro, e nello stesso tempo dovevo in un certo senso tradirlo, portare alle estreme conseguenze quella visione, anche contro la sua visione stessa, la fusione tra organico e non organico doveva generare qualcosa di diverso.
C’è tutto un cinema che si inoltra nel corpo come dentro un dispositivo, così come esplora il dispositivo-cinema assimilandolo al corpo: tu hai nominato Kubrick e Cronenberg, io penso anche a David Lynch, soprattutto a un film come “Inland Empire”. Si tratta in questi casi, come nel tuo, di una fusione tra interno ed esterno, tra esogeno ed endogeno. Un mostro dentro di noi e un dentro di noi che “si mostra”, qualcosa che ci contamina dall’esterno ma che poi viene incorporato in modo invisibile o impossibile da mostrare. È l’aporia del cinema stesso come “mostrazione” (fin da Frankenstein come mostro elettrificato, macchina fatta di pezzi di corpo, grazie a una dissezione, un’anatomia trasmutativa). In che consiste per te questo rapporto tra interiorità e impulsi esterni, spasmi artificiali? In questo senso il cinema è protesi, meccanismo esterno o insorgenza interiore, un meccanismo endogeno, introiettato, metabolizzato? In futuro potremo non aver bisogno della macchina da presa come protesi ma potremo filmare con il nostro corpo, muovendoci, in modo organico?
All’inizio del mio lavoro la tecnologia era un punto centrale, attirava il mio interesse, ma poi man mano che questa mia indagine andava avanti, andava oltre, ho cominciato a interessarmi a qualcosa di più interiore, di più intimo, che poi mi sono accorto aderiva, coincideva con il corpo umano. Se si vive a Tokyo si è circondati da apparati tecnologici, non ci si rende conto neanche più che intorno, da qualche parte, esiste la natura. Allora c’è bisogno di fermarsi, e di guardare, ma di guardare se stessi come un pezzo di natura. Vital è nato proprio da questa idea: che fermandosi e guardando dentro, nel nostro corpo come nella nostra natura, avendo la percezione del nostro proprio interno, si può arrivare forse a vedere qualcosa. Quanto più ci si inoltra dentro questo tunnel, quanto più si va in profondità, tanto più avviene qualcosa, cominciamo a vedere qualcosa: improvvisamente ci si rende conto di essere immersi in una natura che non si era mai vista, di cui non si poteva immaginare una visione. Questo diverso modo di vedere è ciò che ho voluto esplorare in Vital. Per questo è un tentativo, perché la macchina da presa resta un attrezzo, non so quanto possa andare oltre.
In fondo già Vertov preconizzava un cineocchio. In “L’uomo con la macchina da presa” cercava proprio di andare oltre, e il dispositivo diventava una specie di “sonda organica”, anche se tutto veniva come “estroiettato” dall’uomo-macchina da presa. Il tuo cinema è come se avesse estremizzato questa lezione dell’avanguardia sovietica, “Tetsuo” estroietta l’occhio meccanico, rende il metallico della macchina da presa un corpo organico, che fermenta e si trasmuta, e con lui tutta la visione, lo stesso film diventa simbiosi di questo meccanismo, di questo dispositivo; ma una volta fagocitata la macchina è come se apparisse una “seconda natura”.
Sì, mi sono molto interessato a questo cambiamento, a questa mutazione del punto di vista di cui parli. Ma poi quello che mi ha interessato ancora di più è il rapporto tra la macchina da presa e il soggetto umano, ma più dal lato dell’umano, della vita. L’uso della macchina a mano per me è sempre più in funzione di un avvicinamento al corpo intimo dell’uomo. Anche se fin da Tetsuo per me era importante la simbiosi tra il metallo, la macchina e il corpo, lo era in un senso feticistico, come sostituzione e trasformazione del corpo umano. In A Snake of June (2002) qualche critico ha notato che era la macchina fotografica, in una scena, a denudare la donna: ma per me la macchina fotografica, il suo meccanismo, doveva essere esorbitante, il più grande possibile, l’apparenza doveva sovrastare, essere enorme, e anche il suono dello scatto doveva essere esorbitante per suscitare un erotismo interno, intimo, l’interiorità dell’attrice: era questa che volevo mettere a nudo. Il modo di girare, la presenza ingigantita della macchina eccitava dall’interno la scena del rapporto sessuale.
Così il dispositivo diventava l’anatomia di una interiorità.
Fondamentale per me è la funzione della macchina da presa come attrezzo di eccitazione.
In “A Snake of June”, e in altri tuoi film, è molto presente l’elemento naturale: il fuoco, l’aria, l’acqua, la pioggia, l’onda dei rigagnoli. Nella cultura antropologica giapponese a questi elementi si aggiungono il legno, il metallo. La mineralità non è tecnologica in questo caso, ma è un elemento naturale, quasi quintessenziale, una sorta di “quinto elemento”.
Per me il metallo è un elemento “a parte”. Effettivamente fa parte della natura, ma rispetto alle altre materie per me suscita erotismo, ed è collegato con l’attrezzo, con la protesi, con l’utensile: è una cosa in più. Ora intorno a noi la tecnologia compone nuove nature, nuovi elementi: i metalli, i cementi costituiscono un eccesso che si sovrappone al mondo e alla natura. Il nostro corpo si sta come atrofizzando, oppure comprimendo, come fosse sotto la pressione di tutto questo apparato. Spesso nei miei film il protagonista, pressato da questo meccanismo, non ce la fa più e allora scoppia, esplode. Ed è in questi momenti estremi, in cui il corpo non ce la fa più, in questi apici che la natura si scatena: piove a dirotto, si accende un immane incendio, si sprigionano scintille elettriche nell’aria. Questo collegamento tra pressione dell’apparato tecnologico e natura, scatena ed evoca un ritorno dell’umano, dell’essere umano stesso: insorge l’umanità che teniamo dentro.
Come se la natura frapponesse una forza, una potenza alla macchina, al dispositivo, che dovrebbe metterla in forma, artificializzarla.
La macchina, il metallo, la tecnologia ci pongono in un ambiente che dovrebbe essere piacevole, in cui tutto dovrebbe essere facilitato. Ma a un certo punto il corpo stesso non ce la fa, e come un urlo scoppia da dentro e poi deflagra. Ciò io cerco di tradurlo in una metafora, in una visione metaforica. Quando il corpo non ce la fa più si sprigiona anche la gioia di avere un corpo. E il cinema, che è una macchina esso stesso, può esprimere, anche in modo violento, questa gioia. Il vento, la pioggia, il fuoco arrivano per valorizzare il corpo.
Come se a suscitarli fosse l’esasperazione della macchina. In “Tetsuo II” e in “A Snake of June” i corpi di Taniguchi e Rinko partono da uno stato di sottomissione e accedono a uno stato di sovranità. E ciò avviene attraverso un movimento di trasformazione, uno spasmo ma in modo opposto, dalla violenza del metallo pesante alla leggerezza della danza del serpente.
Forse è tutto molto semplice: in entrambi i casi la pressione dell’apparato della macchina induce ad essere più naturali, a scatenare la natura, e ciò esprime una liberazione. In un caso con il combattimento sotterraneo ferro contro ferro, nell’altro caso con l’acquazzone sotto cui la donna danza.
Il cinema è anche un dispositivo memoriale, dà forma alla memoria, costruisce blocchi di tempo. In “Vital” il protagonista ha perso la memoria, e vorrebbe accedere alla memoria contenuta nei corpi, dissezionandoli.
Anche la ricerca della memoria, e il ritorno della memoria, è una liberazione, e la metafora di questo ritorno anche qui è la pioggia. Filmo spesso questa metafora. Una liberazione del corpo attraverso il cinema è anche un riacquistare la memoria, che è la memoria del proprio corpo.
In “Kotoko” (2011), che è sicuramente il film in cui ti spingi più oltre, il ritratto di Cocco, la cantautrice, passa attraverso la danza, la leggerezza e la ferita, la violenza masochistica, e ciò è assimilato al dispositivo del film (che viene anche “messo in abisso”, in una specie di tuo alter-ego, lo scrittore), che è una sorta di utensile per squarciare il corpo ma anche l’immagine. Succede nel film come se la macchina da presa fosse collocata in noi che guardiamo, come fossero gli spettatori a girare il film, come in una soggettiva impossibile.
Era da tempo che volevo fare un film su Cocco, ma non è un ritratto, non è una biografia, è l’assimilazione di una molteplicità dei suoi aspetti interiori, a partire dalla violenza che ha subito e che infligge al suo corpo. Lo stato oppresso dal corpo è tipico della condizione femminile giapponese, che subisce una imposizione del punto di vista maschile, ma anche di tutto l’apparato della società. Per cui anche nell’interesse dello scrittore, e quindi della macchina da presa, verso di lei, vede un mostro, che sta dietro di lei, ma anche dentro e davanti a lei. Lo scrittore è come un altro me stesso, perché durante un’intervista mi sono accorto che c’era come una perdita, un vuoto, un buco, dentro questa cantante, che è anche poetessa. Quando sparisce lo scrittore è come se sparisse la macchina da presa, il punto di riferimento, e si mette in evidenza questo vuoto. Eppure esiste una liberazione, ed è il canto e la danza, che sono erotici. L’erotismo permette questa liberazione dall’oppressione.
Dicevo prima che in A Snake of June la liberazione di Rinko è una liberazione che passa attraverso il corpo. A Snake of June doveva essere un film porno. Poi mia madre ha avuto una malattia e mia moglie un figlio. La debolezza di mia madre e la nascita del mio bambino sono “entrate” nel film e lo hanno modificato profondamente, per così dire dall’interno. Se in Vital il protagonista vuole vedere, accorgersi di ci che lo circonda, escogitare un modo per vedere il cosmo e poi scopre che per farlo deve scrutare dentro la macchina del corpo umano, in Kotoko la finalità del guardare, dello scrutare dentro, era qualcosa che apparteneva a me stesso, al mio stare alla macchina da presa, volevo andare dentro, conoscere, tentare un approccio che fosse il più vicino possibile, tanto vicino da uscire da me stesso: per questo c’è la sensazione che è lo spettatore stesso a riprendere Cocco, a tal punto vicino da entrare nel cuore, nel corpo e nell’anima di lei.
Il cinema stereoscopico, il 3D, oggi ritorna come una tentazione per molti registi. Alcuni come Scorsese, Zemeckis o Herzog ne fanno un uso autoriale.
Per me i miei film è come se fossero già in 3D, anche prima quando “giro nella mia mente” senza la macchina da presa. Nello stesso tempo per me il 3D non è importante: non sono le immagini che devono uscire, ma gli spettatori che devono entrare. E poi girare in 3D renderebbe ogni angolazione assai macchinosa. Richiederebbe tempi lunghissimi che per me sarebbero impossibili, dato che giro in maniera istintiva. Quando ho realizzato Nightmare Detective (2006) avrei voluto però girare la scena onirica in tre dimensioni. Avevo in mente un film sui sogni dei bambini. La mia testa è sempre stata, letteralmente, piena di mostri. Da piccolo ho visto una serie televisiva dell’autore del primo Godzilla: ogni episodio era caratterizzato dall’apparizione di un mostro. Per me era una via di fuga dalla realtà oppressiva della scuola. Anche adesso sono come circondato da uno schermo circolare saturo di apparizioni mostruose. Il cinema, in un certo senso, mi ha salvato la vita. Pensa a cosa sarebbe stato di me senza il cinema, con tutti questi mostri dentro di me! Quando ero piccolo sognavo spesso. Scappavo dai mostri e nello stesso tempo, volevo salirci sopra, affrontarli, ma non ci riuscivo e mi risvegliavo impaurito. Provavo una sensazione molto strana, insieme di attrazione e timore, fascinazione e paura.
Deleuze scrive: «Datemi dunque un corpo». Fino a che punto la materia del cinema aderisce al dispositivo? Forse questa materia è sia tecnologica che filogenetica. Appartiene al bíos. È possibile che quello che noi abbiamo dentro sia analogo a quello che accade nello spazio profondo? È la domanda degli umanisti, è la domanda di Leonardo.
Se l’anima ha un peso, dove si trova dislocata all’interno del corpo? L’ho chiesto a un medico e mi ha risposto che prima si pensava che l’anima si trovasse nel cuore, adesso, naturalmente, pensiamo che sia la psiche e quindi che la sua sede sia il cervello. Ho assistito alle lezioni di anatomia in una facoltà di medicina: credevo di vedere l’anima apparire sepolta sotto le falde del corpo, ma alla fine non c’era niente, nient’altro che carne. Il posto dell’anima nel corpo è però anche una domanda in relazione con il cosmo. Vedendo “fino in fondo” nelle viscere del corpo umano, sotto i suoi lembi, pensavo di trovare una risposta. Guardando nel fondo non ho trovato niente, ma ho capito che l’interno del corpo è l’altra faccia del cosmo, e forse il cinema è l’attrezzo che può sondarla.
*In copertina Tetsuo II: Body Hammer (1992).