Si può forse cominciare, per capire il senso in cui vogliamo declinare la parola origine, dal comprendere l’ambivalenza che essa ha in italiano, che invece sembra non sussistere in tedesco. Con “origine”, infatti, possiamo tradurre i termini Geburt e Ursprung: il primo strettamente connesso al senso biologico del nascere, o venire alla vita, il secondo con un’accezione più ampia dell’essere disvelato (il venire alla luce, nel modo in cui lo declina per esempio Heidegger). In ogni caso, la questione dell’origine sembra strettamente connessa a quella dell’Heimat, dal momento che quest’ultima pare saper ricomporre l’ambivalenza a cui facevamo riferimento. Che la si intenda come “patria”, o come “focolare domestico”, l’Heimat ha sempre a che fare con il luogo in cui si è venuti al mondo, con la propria origine. Accanto a questo significato biologico del nascere, del venire alla vita, la parola Heimat ne propone una declinazione diversa, intesa proprio come seconda nascita, quest’ultima legata all’allontanarsi dal nucleo familiare, dal luogo in cui si è cresciuti.
In tedesco l’espressione zweite Heimat, nel senso di seconda patria, è un concetto molto chiaro, e ha solo qualcosa in comune con ciò che ho voluto dire con Heimat 2. La differenza è che la prima Heimat è qualcosa che noi non abbiamo scelto e che anzi non possiamo scegliere, dal momento che nessuno può scegliere il luogo da dove viene; dice quindi di un certo senso di destino, di predestinazione. Al contrario la seconda Heimat è frutto di una scelta libera.
Pensavo proprio alla scelta che il giovane Hermann compie nel secondo Heimat, abbandonando il nucleo familiare. E appunto dice: "Sono nato per la seconda volta, e cioè dalla mia testa". Si può dire che l’arte e il cinema creano mondi che non esistono e possono rappresentare un modo specifico di questa inesistenza che viene alla realtà, alla nascita. Un nuovo nascere, un essere di nuovo. Ma se il cinema, proprio come le altre arti, ci mostra il nascere di una vita dal nulla, esso è quasi una sfida alla nascita intesa in senso biologico, cioè alla fragilità dell’esistenza e alla morte. È d’accordo? Non è questo di cui parla, in fondo, un film come Heimat-Fragmente?
Mi sono sempre occupato del rapporto tra arte e vita. Naturalmente esse sono collegate. L’arte non esiste in natura, è stata introdotta dalla creatività umana. Però, nel momento in cui un uomo è attivo dal punto di vista artistico, cioè crea qualcosa, non è mai solo. Si trova sempre in compagnia di altri racconti, di una tradizione millenaria di racconti. C’è, come dire, un mondo narrativo parallelo che ha proprie leggi, una propria esistenza, una propria vitalità. Normalmente ogni artista usufruisce della vitalità di questo mondo parallelo. Può succedere che ci si perda in questo mondo parallelo e si finisca col credere che esso sia in grado di sostituire la vita. Ma quando ciò accade perdiamo qualcosa: l’arte deve sempre cercare di ristabilire il contatto, il collegamento con la vita vera. Ogni nuova generazione di cineasti deve scoprire da sé come mettersi in contatto con la storia del cinema. Per me questo costituisce la filosofia del fare cinema. Da una parte l’arte cinematografica proviene dall’amore e dall’entusiasmo per il cinema, dall’altra però non possiamo non immettere in questo mondo parallelo un po’ delle nostre esperienze personali. E questo può verificarsi quando noi talvolta troviamo nuove immagini che non provengono dalla storia del cinema, ma dalla propria anima, dalla propria interiorità. L’ho sempre detto: bisogna chiudere gli occhi per fare un film. La cinepresa è un modo di aprire gli occhi, ma la vera arte cinematografica si ha quando gli occhi sono chiusi. A partire da questa scoperta ho cercato di fare una specie di training personale e la mattina, quando giro un film e mi reco sul set, cerco di trovare un momento di meditazione, per cui ad occhi chiusi cerco delle immagini che sono dietro la storia che voglio raccontare. Quando le trovo divento di nuovo un cineasta e, quindi, mi fa piacere rientrare nella storia del cinema e parlare la lingua che viene parlata nel cinema.
In questo senso, il processo che parte dal chiudere gli occhi va verso un riaprire gli occhi e un vedere il mondo come se fosse la prima volta, dopo aver trovato le immagini.
È un momento felice questo, davvero, accade di rado. Mi sono sempre chiesto da dove venga la capacità di raccontare. Credo che sia la possibilità data all’uomo di occuparsi del mondo non in modo scientifico e nemmeno in un modo realistico. Chiunque racconti storie, sia come letterato che come cineasta, sa che c’è un’atmosfera specifica nel raccontare. Cosa succede? Entriamo in uno spazio che si trova tra l’autore e il suo pubblico. Questo spazio non esiste in realtà, non è qualcosa di tangibile, ma nonostante questo ci entriamo. Credo che sia l’unico filosofo che si sia davvero occupato di questo problema sia stato Kant. Egli si è occupato proprio del rapporto fra il fenomeno e il concetto (Anschauung und Begriff). Se da un punto di vista filosofico, però, questa dicotomia è insolubile, nell’arte del racconto il problema si può risolvere, dal momento che grazie al racconto entriamo in uno spazio intangibile che ci permette di riunire “visione” e “concetto”.
È quello che Gilles Deluze definisce “percetto”.
Certo, nel mio caso però si è trattato di una scoperta di carattere molto pratico. La domanda è: dove sta la cinepresa? Possiamo dire che la cinepresa prende il punto di vista dell’autore ma anche quello dello spettatore. Ovviamente quando si gira non c’è uno spazio fittizio, posizioniamo la cinepresa in uno spazio geometrico già esistente, a partire dal quale dobbiamo definire uno spazio narrativo. Prima di parlare dell’aspetto filosofico, mi soffermerei piuttosto sull’aspetto pratico di questa cosa. Credo che l’arte di raccontare sia nata migliaia di anni fa, quando gli uomini si raccoglievano intorno a un fuoco. Guardare tutt’insieme il fuoco rappresenta per me la situazione base, l’origine del racconto. Siamo ritornati al discorso da cui siamo partiti: cioè il luogo da cui abbiamo avuto origine. Penso che veniamo tutti da questa prima esperienza che consiste nel volgere lo sguardo verso il fuoco: un’altra declinazione di ciò che chiamiamo Heimat.
È la possibilità che un’esperienza come la guerra ha negato a Paul: stare intorno al focolare e raccontare. Quando Paul torna dal fronte, non sa raccontare ciò che ha vissuto, probabilmente perché il suo sguardo è stato per troppo tempo lontano da quel fuoco.
Il problema nasce sempre quando coloro che raccontano e coloro che ascoltano non sono uniti da un’esperienza comune. Ulisse, per esempio, ritorna da un viaggio che non riesce a raccontare perché le esperienze che ha vissuto durante la sua lunga assenza non possono essere condivise. Ecco perché il suo ritorno è una catastrofe.
Una delle figure ricorrenti in Heimat è appunto quella del ritorno. Dal punto di vista narrativo, per esempio, il primo Heimat tratta di un doppio ritorno: il ritorno di Paul a Schabbach, dopo la fine della guerra, e poi il suo rientro dagli Stati Uniti. Questa figura del ritorno è anche declinata film dopo film, nel prosieguo di Heimat, e si sviluppa apparentemente senza un termine: si va e si ritorna nel tempo. Per questa ragione, la struttura circolare dei tre Heimat ha a che fare sempre con un luogo del ritorno: il paese, la città e la casa. E in Heimat-Fragmente è il luogo di una bobina cinematografica, o di una cabina di proiezione, un luogo di rinascita delle immagini. So che sta lavorando a un altro Heimat. In questo caso, la continua figura del ritorno come sarà declinata?
Sono sempre stato affascinato da questa ciclicità dell’andare e del tornare. Dobbiamo rompere il rapporto con le persone con cui abbiamo vissuto per poi renderci conto più tardi che avevamo bisogno di questo rapporto, che abbiamo spezzato andando via. Diversamente, non riusciamo più a capire chi siamo e non possiamo raccontarci. Io credo che sostanzialmente tutti i grandi racconti dell’umanità trattino di questo tema, dell’andare via e del tornare. Prima ho citato l’Odissea, ma naturalmente possono venire in mente anche altre opere medievali: il Don Chisciotte o altri romanzi nei quali si tratta sempre di questo, di andare via e tornare. A ben vedere essi contengono sempre l’immagine di un fuoco intorno al quale è possibile raccontare la propria storia. Purtroppo oggi il focolare non è più al centro della nostra vita, al suo posto abbiamo un apparecchio televisivo oppure lo schermo cinematografico.
Ha nominato Ulisse. C’è un punto dell’Odissea in cui Ulisse si commuove ascoltando la propria storia, alla corte dei Feaci: in realtà quella che sta ascoltando è l’Odissea stessa. In Heimat-Fragmente lei fa qualcosa del genere: non si tratta soltanto di una mise en abyme del film; c’è la stessa commozione dovuta a un ritorno in una patria che però, in questo caso, è la patria del film stesso, del cinema stesso. È nata da un sentimento di questo tipo l’idea di fare Heimat-Fragmente?
Si può dire così. In realtà mi sono occupato molto dell’Odissea e in Heimat ci sono molte scene che fanno riferimento ad essa. Per esempio in Heimat 3 quando Hermann e Clarissa sono lì nella loro nuova casa e lei canta una canzone di Alban Berg, Dormendo torno nella mia casa: è un riferimento chiaro all’Odissea perché anche Ulisse ritorna ad Itaca dormendo.
A proposito di Hermann e Clarissa. Si può dire che un incontro d’amore sospende in qualche modo il tempo ordinario e proprio per questa ragione rappresenta una nuova nascita, la nascita di una nuova temporalità. Mi pare che questa dimensione sia presente sia in Heimat 2 che in Heimat 3, dove appunto Hermann e Clarissa decidono di dare avvio a una nuova vita: di andare a vivere insieme, di comprare una casa. Forse nell’incontro d’amore risiede la vera possibilità di dar vita a qualcosa di totalmente nuovo, non aspettato, e quindi gratuito in qualche modo.
Sì, l’amore ha una doppia valenza. Da una parte ci porta appunto verso una nuova esperienza, ci apre a delle nuove prospettive, però nello stesso tempo ci butta fuori dalla vita precedente. E questo è il motivo per cui spesso si decide di andar via. Contrariamente a quello che la maggior parte delle persone pensa, l’amore non è un motivo per restare, ma un motivo per andare.
Questo appartiene molto alla tradizione del wanderer romantico.
Io, infatti, sono un romantico, anche se tardo.
A questo proposito, il suo cinema, così come alcuni grandi romanzi del Novecento come L’uomo senza qualità di Musil, l’Ulisse di Joyce, è una sorta di ritorno al romanzo di formazione, al grande racconto che aveva avuto inizio nell’Ottocento romantico. Ma si tratta di un ritorno disincantato che assume il romanticismo alla luce del Novecento, avendo coscienza, cioè, che qualcosa è andato irrimediabilmente perduto, ovvero la capacità di vivere la natura e la storia insieme. Si sente di far parte di questa tradizione novecentesca? Secondo lei, è ancora viva?
C’è una tradizione che continua anche nel cinema, una tradizione del racconto epico, in cui rientra per esempio Olmi con L’albero degli zoccoli, ma anche Novecento di Bertolucci, Fanny e Alexander di Bergman, o Kaos, il film siciliano dei fratelli Taviani. C’è una continuazione di questo filone letterario nel cinema. Non credo, però, che questa vocazione epica sia una caratteristica specifica del XIX secolo. Certo, ci sono stati grandi narratori in questo periodo, ma prima ce n’erano anche di più. Credo che la specifità del romanzo degli ultimi secoli sia un’altra. In essi c’è un’utopia narrativa che immagina di poter creare un intero universo in cui esistono, vengono rappresentati, tutti gli elementi della vita, ma secondo un nuovo ordine. È l’utopia dell’arte, per cui noi saremmo in grado di creare una nuova forma per la vita, perché la vita stessa non ha una forma e l’arte ne cerca una da attribuirle.
Non trova che questa utopia sia sempre esistita, l’idea di un ritorno all’età dell’oro, al paradiso terrestre? Nella modernità, però, questo sentimento coincide con la volontà di cercare una patria perduta, un luogo perduto. Si tratta di un luogo che viene continuamente spostato e che quindi non verrà mai ritrovato; un luogo che in molti casi sta nell’interiorità, dietro quegli occhi chiusi di cui parlavamo?
È tutt’e due le cose insieme. In realtà non possiamo mai veramente ritornare.È un concetto filosofico noto. Eraclito ha detto: «Non ci si può immergere due volte nelle stesse acque». Panta rei, tutto scorre. Per questo, l’uomo è sempre destinato a qualcosa di tragico quando si illude di poter ripristinare una situazione perduta. È un’esperienza che facciamo anche nella storia, nella politica.
Di più, quando si cerca di ripristinare un ordine perduto e si rinuncia all’idea del semper novus, per dirla con Benjamin, si arriva a un ordine politico conservatore.
C’è però il rovescio della medaglia: la memoria, il ricordo. Infatti noi ci portiamo dietro il ricordo del mondo perduto, dentro di noi, e questa è una situazione produttiva.
L’epicità del racconto di cui abbiamo parlato a proposito di Heimat corrisponde al racconto di una famiglia, ma anche di un’intera nazione, della sua fine, di una Germania che finisce e che deve ripensare se stessa come nazione nuova, dapprima dopo la Seconda Guerra Mondiale e poi dopo la caduta del muro di Berlino. Questa idea di raccontare la nascita di una nazione è connaturata al cinema? Pensiamo a Griffith e a Nascita di una nazione: l’epicità del racconto cinematografico non consiste forse nel racconto di una grande epica nazionale e collettiva?
Mi viene in mente una frase di Chris Marker: «Non riesco a immaginare come facessero le persone a ricordarsi delle cose prima che esistesse il cinema». Il cinema è la nostra memoria collettiva. E questo è anche argomento del cinema.
Così come lo è il tempo, perché il cinema è un costrutto del tempo. Il suo cinema ha con il tempo un rapporto centrale, anche con un senso circolare del tempo. Ci può parlare del suo progetto di declinare ancora Heimat, questa volta nel futuro?
Occuparsi del tempo vuol dire occuparsi di musica. Cinema e musica sono arti che hanno molto in comune, in entrambe il tempo è molto importante. Ecco perché anche in Heimat mi occupo molto di musica. C’è un elemento che corrisponde alla forma: che cos’è il tempo? Il tempo della nostra vita? Ciascuno di noi ha una percezione diversa del tempo, ma accanto a questo c’è anche un tempo fisico. Oggettivo, misurabile. C’è un modo artistico di riportare l’ordine in questo caos temporale: il ritmo, il montaggio. Non appena mi occupo del tempo, mi occupo di un problema di forma e, quindi, di come mettere il tempo a una distanza per cui non mi può danneggiare. E poi c’è il grande mistero dell’esistenza umana, il mistero della morte. Noi viviamo la morte in ogni momento. Vista così la vita diventa un continuo dire addio a qualcosa…
Un “essere per la morte”, come dice Heidegger.
Ma la tragedia più grande sta nel fatto che in ogni attimo perdiamo qualcosa. È come quando Goethe dice: «Attimo fermati, sei così bello!». Esprime così un dolore, perché sa di non poter fermare quel momento. Però quando diamo al tempo una forma ritmica, con il montaggio di un film, riusciamo a salvare qualcosa da questo processo tragico, perché nella forma ritmica il tempo ha consistenza. È ciò che mi piace del cinema e che il cinema ha in comune con la musica.
In qualche modo, c’è dunque un elemento rituale del cinema. Eliade dice che il rito è ciò che fa ricominciare il tempo ogni volta. Allora il cinema, forse più del teatro o come il teatro, ha un elemento rituale in sé, il fatto di ridare inizio al tempo, di farlo rinascere.
Alcuni dicono che è un processo magico.
Riferimenti bibliografici
M. De Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Einaudi, Torino 1994.
J. Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano 1996.
R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1990.
Omero, Odissea, Einaudi, Torino 1989.
Filmografia Nascita di una nazione (D.W. Griffith, 1915); Novecento (B. Bertolucci, 1976); L’albero degli zoccoli (E.Olmi, 1978); Fanny e Alexander (I. Bergman, 1982); Kaos (P. e V. Taviani, 1984); Heimat (E. Reitz, 1984); Heimat 2. Cronaca di una giovinezza (E. Reitz, 1992); Heimat. Cronaca di una svolta epocale (E. Reitz, 2004); Heimat-Fragmente (E. Reitz, 2006).
*Il testo pubblicato è un estratto della conversazione con Edgar Reitz contenuto in Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 16, Pellegrini Editore.