L’ultimo film di Cristian Mungiu, Animali selvatici (2022), ha tutte le sembianze di una favola contemporanea, già dall’ambientazione che vede i fatti narrati svolgersi in un piccolo villaggio immaginario annidato tra le grandi foreste e le montagne innevate della Transilvania. La storia si dipana in un contesto – il cui territorio era stato a lungo conteso tra rumeni, ungheresi e tedeschi, e al contempo di fede cattolica, protestante, ortodossa –, oggi intenso luogo di passaggio delle migrazioni che dal Medio Oriente e dal sud-est asiatico si spostano verso l’Europa. Dopo aver lasciato il lavoro in Germania per aver picchiato il suo capo che lo ha definito uno zingaro, Matthias torna nel suo villaggio natale, in cui le prospettive di lavoro sono ancora più cupe ma dove può ricongiungersi al figlio – rimasto traumatizzato e muto dopo aver attraversato da solo il bosco – e corteggiare la sua ex amante Csilla, liberale e istruita proprietaria di una panetteria che, assumendo lavoratori a basso costo dallo Sri Lanka, provocherà un duro scontro col resto del villaggio.
Mungiu disegna una moderna Babele in cui si parla rumeno, ungherese, francese, tedesco, cingalese e inglese, ma nelle cui dinamiche di convivenza prevale un costante sentimento di inquietudine, pronto ad esplodere, nonostante, il villaggio sia di fatto chiaramente multilingue e multietnico. C’è un groviglio di istanze nel film al limite del caotico, molteplici linee di tensione rese attraverso un montaggio inquieto, frammentato e implementato da continui sdoppiamenti di piani. Queste forze aspre e sconnesse, che attraversano la pellicola, confluiscono verso la fine in un piano sequenza di 17 minuti, in cui il regista riprende con una camera a mano l’assemblea degli abitanti del villaggio, sezionando i piani di tutti i personaggi, proprio mentre la discussione degenera, animata da preconcetti e intrisa di assurdità.
Il film, così caoticamente attraversato, configura un campo di forze in grado di rendere la complessità e la stratificazione di confini millenari e al contempo labili, difficilmente definibili o distinguibili gli uni dagli altri. Differenze e linee di separazione determinano la realtà sociale che ogni comunità immagina di essere, e sono proprio tali limiti, reali o immaginari, a generare un’identità, che separa rigidamente un “noi” da un “loro”, facendo assumere all’altro/altri, i tratti del nemico. Forse per questa contrapposizione irrisolvibile di amico/nemico, Jean Genet ha scritto che dal momento in cui la Palestina dovesse nascere come una nazione tradizionale, egli non potrebbe più condividerne nulla. Al contrario per Genet la nazione palestinese vive nel sogno, essa si costituisce nell’esilio e nell’immaginario non può che formarsi come un’entità del tutto inusuale, senza Stato e senza territorio.
Analizzare i confini oltre i connotati geografici o fisici, ma dentro le contraddizioni culturali, sociali, economiche o religiose che tali limiti comportano è il proposito del volume di Marco Aime e Davide Papotti, Confini (2023). Attraverso un approccio a due voci che intreccia la prospettiva dell’antropologia culturale con quella geografica, il saggio propone una riflessione sui confini che travalica la natura sfuggente e difficilmente classificabile del concetto, applicandolo a differenti dimensioni della vita sociale e cogliendone le molteplici implicazioni, decisive per il modo in cui le società umane si organizzano. Con Leroi-Gourhan, l’interazione tra l’uomo e lo spazio, la necessità di organizzare l’ambiente tracciando linee reali o immaginarie, è una delle più significative caratteristiche culturali del genere umano. Lo spazio, insieme al tempo, è una coordinata primaria dell’azione sociale. Per organizzare e dare un senso allo spazio è necessario delimitarlo e dunque separare il “nostro” spazio da un tutto, tracciando una linea che separa e segna dove qualcosa finisce. Vi è, dunque, una relazione strettissima fra lo scopo confinario e l’agire umano che rende il concetto di confine ambiguo e difficilmente classificabile. Una volta tracciati, infatti, i confini agiscono sul pensiero stesso, imbrigliando l’umanità in quei simboli che essa stessa ha delineato.
I confini operano sulla realtà confermando, da un lato, una certa unitarietà delle comunità e, dall’altro, spingendo ad immaginare il diverso, che sta al di là dello spazio in cui ci troviamo. Per quante differenti funzioni il confine possa assumere, il suo concetto mantiene una tensione sempre presente che delimita un “qui” rispetto ad un “altrove”, un “noi” a un “loro”. Si pensi alle diverse vicende storiche che riguardano il conflitto attorno a due religioni, o alle tensioni dentro le società, tra generazioni diverse. O ancora ai confini di classe e alla distribuzione diseguale delle risorse, ai limiti sulla base del possesso, oltre che, con Bourdieu, alla distinzione di habitus che connota le differenti classi sociali. Un inconscio collettivo di ogni classe sociale segna una distanza che non è esclusivamente economica, ma anche culturale, morale, estetica che finisce per generare conflitti di gusto.
Le culture, allora, in quest’ottica, tentano di proiettare un ordine sul mondo attorno a una comunità, attraverso una classificazione di tutte le parti che la compongono, a cui si dà il nome di “natura”. Una separazione tra natura e cultura che non è universale ma che, a partire dal XVII secolo, grazie agli sviluppi tecnologici, ha permesso alle società europee di affermare una posizione dominante sul mondo, tracciando una demarcazione netta tra la sfera umana e quella dell’ambiente, inteso come altro da sé e pensabile, dunque, come fonte di estrazione di valore.
Tornando al concetto di spazio, si può dire che l’idea di confine territoriale è un derivato del movimento colonizzatore dell’Europa moderna che, con la definizione dello Stato, ha moltiplicato le linee divisorie sulle mappe del globo. Il processo evolutivo di configurazione e riconfigurazioni dei confini statali, in termini di controllo territoriale, sicurezza e sovranità, fa pensare ai confini come il risultato tangibile di processi politici, sociali, economici. Il mondo visto in questo modo è compartimentato in forme statali e territori che sembrano elemento statico ed immutabile, istituzioni date per sempre, prive di fluidità interna.
Considerare il carattere dinamico dei confini, la loro genesi costitutiva, non significa altro che coglierne la storicità, riconoscendoli come un tratto assai breve della vicenda umana sulla terra. Il novanta per cento degli attuali confini internazionali, infatti, risale agli ultimi due secoli. Il criterio temporale, allora, non può essere pensato come sinonimo di stabilità, come dimostra il continente africano, tra i più instabili del mondo nonostante la longevità delle sue frontiere. La variabile temporale con cui è possibile maneggiare il concetto di confine non fa altro che chiarire quanto una sua definizione sia necessariamente il risultato di una contingenza temporale e spaziale. Una “archeologia del confine” permette di indagare le dinamiche di territorializzazione del genere umano e delinea i confini come il risultato della caratterizzazione umana dello spazio.
La stessa questione dei confini di genere, intesa come prodotto di una costruzione sociale e culturale, non è altro che un processo della società che definisce e organizza i propri individui sulla base di alcuni e definiti criteri culturali. Tale processo presuppone pratiche specifiche da seguire fin dall’infanzia a seconda del sesso, definendo, così, uno schema binario rigido, affatto universalizzabile e che non tiene conto della molteplicità dei sentimenti del singolo, delle inclinazioni individuali e contestuali. Una questione, questa, che presenta forti implicazioni linguistiche: se solo si pensa alla necessità delle lingue di evolvere continuamente, alla ricerca di possibili modalità attraverso cui pensare fuori dalle logiche binarie.
Le lingue possono al contempo unire o dividere, ma esse cambiano inevitabilmente poiché a mutare sono le relazioni tra gli individui e le parole necessarie per gestirle. L’esperienza linguistica è, infatti, in grado di definire la realtà, ma al contempo ne rimane incastrata e, al mutare di quella realtà, spezza i suoi stessi confini per riuscire a ricomprendere ciò che si sta trasformando. Proprio per i valori simbolici che il confine può incarnare, esso rappresenta un elemento fecondo per la riflessione artistica ed è facilmente assimilabile a diversi processi di creazione estetica: sia per quanto riguarda la possibilità di una “incarnazione visuale” della geografia di un confine esistente – in un discorso che comprende scienza, geografia e arte – ma anche per la possibilità di rendere effettivamente concreta una cesura nel paesaggio naturale, al di là della sua esistenza reale sul territorio.
Il concetto di confine è per sua natura multiforme ed è, di conseguenza, in grado di manifestarsi in molte sembianze differenti. Questa sua peculiarità strutturale è il prodotto del suo operare nel tempo, che ha sedimentato un’esperienza storica, politica, sociale, morale, psicologica. A ben vedere, l’idea di confine può configurarsi come un “archetipo dell’immaginario”, poiché nonostante le diverse possibilità e l’efficacia con cui si dà nel mondo, tende a essere rappresentata come una linea chiara, ferma, “ideal-tipica”. Questo scarto tra la realtà con cui sono presenti nel mondo e la loro rappresentazione, assegna ai confini un inevitabile grado di astrattezza che, forse, permette di invertire i termini del discorso e di domandarsi se non è possibile immaginare un mondo senza confini. Oppure, come Agamben in un intervento sulla sparizione della Galizia (2023), ci si può chiedere se non è forse il tempo di smettere di avere fiducia nei nomi e nei confini tracciati sulle mappe, domandandosi piuttosto che fine hanno fatto le forme di vita che sulla carta geografica non ci sono più.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, La guerra in Galizia, Quodlibet (24/04/2023).
J. Genet, Palestinesi, Stampa alternativa, Roma 2002.
Marco Aime, Davide Papotti, Confini – Realtà e invenzioni, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023.