La trasgressione divenuta norma, sembrerebbe questa l’etica dominante ai tempi dell’ipermodernità. La tesi centrale di Come un ladro in pieno giorno di Slavoj Žižek (edito da Ponte alle Grazie nel 2019) prende abbastanza prevedibilmente le mosse dall’analisi lacaniana del “discorso del capitalista” (Lacan 1978), per poi spiazzare il lettore rispetto alle ricadute etico-politiche sul nostro confuso presente. In questa sua ultima fatica, il pensatore sloveno è infatti più che mai “furetto”, sfuggente in mille direzioni, nel suo proporre linee di fughe mai scontate, e nel cercare una possibilità per la rivoluzione nell’impossibile e nell’imprevisto, nella radicalità della Comune di Shanghai o in quella dell’amore.

Žižek in questo volume affronta “di petto” il problema centrale del dibattito contemporaneo: le diseguaglianze, i marginali, la lotta tra gli ultimi e i penultimi. Senza sposare il ragionamento di Toni Negri in merito alle caratteristiche del post-capitalismo, secondo cui «nelle dinamiche del lavoro intellettuale e della sua interazione sociale non gerarchica e non centralizzata» andrebbero intravisti «i germi del comunismo» (Žižek 2019, p. 32), Žižek ci pone di fronte a una scelta: prendersi cura degli esclusi o sforzarsi di cambiare il sistema che li rende figli di un dio minore (ivi, p. 34)? Non è forse il refrain di tante politiche sociali fatte da destra (si pensi al partito della destra populista al potere in Polonia), quello di combattere l’austerità per restituire dignità e sicurezza a chi è rimasto indietro di fronte alle sfide della postmodernità (ivi, p. 35)?

La “lotta tra poveri” individua nel “diverso” il capro espiatorio, il velo immaginario che copre il vicolo cieco immanente in cui si è cacciato il capitalismo post-umano, la cui torsione in senso affaristico-finanziario ne ha disvelato la natura più astratta e impersonale, restituendoci in ultima istanza un capitalismo virtuale o immateriale, impalpabile e per questo più capace di insinuarsi in forme di dominio indiretto (ivi, p. 40). Proclamarci “imprenditori di noi stessi” significa in realtà consegnarci alla peggiore forma di controllo: l’imposizione super-egoica suona oggi infatti come un “se non ce la fai, è colpa tua” e non delle differenze di classe, che il tardo-capitalismo tende ad abolire in nome della riduzione del lavoratore al consumatore. Il capitalismo immateriale non vende più merci in cui sono occultati i rapporti di dominio, ma vende gli stessi rapporti, mercifica le esperienze in quanto esperienze, fa della relazione un oggetto di scambio (si pensi ai social network e al ruolo degli influencer).

Riassume Žižek: «Nel “capitalismo culturale” non si possono più vendere (o comprare) oggetti che “portino” un’esperienza culturale o emotiva, si vendono (o comprano) direttamente queste esperienze» (ivi, p. 42). Non si può non notare la distanza con il ragionamento di Negri rispetto al potenziale emancipatorio del capitalismo culturale, così come non si può non evidenziare l’assonanza con le analisi del compianto Mark Fisher, che già aveva evidenziato la capacità del capitalismo di operare «la programmazione e modellazione preventiva» (Fisher 2018, p. 38) dei desideri e delle speranze. Ciò che viene interrotto è lo schema classico dell’alienazione, che viene fluidificato in una rete di scambio immateriale di “esperienze”. Il capitalismo ha operato, secondo Žižek, una vera e propria dissoluzione della sostanza, un’obliterazione della Natura in quanto «sfondo “denso” e affidabile delle nostre vite» (Žižek 2019, p. 50).

Tutto può fondamentalmente “volatilizzarsi” da un momento all’altro. Il mondo ha smesso di essere “affidabile”. Più che divenire favola, il mondo come lo conoscevamo è divenuto gioco, per un processo di gamification. La logica del gioco è ciò che ha fatto convergere la rivoluzione tecnologica e il tardo-capitalismo, vanificando il potenziale di liberazione della Rete e del capitalismo culturale, intravisto non solo da pensatori come Negri ma dagli stessi pionieri della Silicon Valley. È il meccanismo per cui, nell’episodio della terza stagione di Black Mirror (Brooker, 2011 – in produzione) titolato Caduta libera, la protagonista Lacie si trova a vivere il lato oscuro di una società ludicizzata: il meccanismo dei “like” diventa necessario per accedere ai servizi più ambiti, come una casa in un quartiere à la page o un posto su un volo in business class. Il controllo sociale viene esercitato attraverso metodi sottili, ben più pervasivi dell’autoritarismo classico e diretto. Se non sei “piacevole”, a modo, una consumatrice “per bene”, la punizione passa attraverso la gogna “social” e l’esclusione dalle fette di mercato più ambite.

Si badi bene: la via adombrata da Žižek non è un “umanismo di ritorno”. Preso piuttosto atto della rivoluzione digitale, e della progressiva ibridazione tra umano e macchinico, quale può essere il rapporto tra tecnologia e inconscio, tra post-umanesimo e vuoto al centro del soggetto? La domanda da porsi è, in un certo senso: Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Dick 2017). Di qui il ruolo centrale dell’analisi presente in Come un ladro in pieno giorno di Blade Runner 2049, film del 2017 di Denis Villeneuve, sequel del celeberrimo Blade Runner di Ridley Scott (1982).

In Blade Runner 2049, secondo Žižek, si rimane dentro una dimensione ancora “umanistica”: la possibilità per i replicanti (Deckard e Rachel) di riprodursi procreando un essere umano finisce infatti per eludere la sessualità (e in ultima istanza il femminile) dietro la riproduzione e la maternità. La possibilità per la sessualità di sopravvivere alla fine dell’umano testimonierebbe invece qualcosa di molto più radicale: l’emergere del soggetto dell’inconscio, del vuoto al centro del soggetto, anche all’interno della neo-umanità androide. La possibilità isterica di un androide desiderante viene ridotta al tratto perverso maschile della fantasia feticistica, incarnata dall’intelligenza artificiale Joi, la partner olografica di K programmata per essere l’amante ideale. Joi è in effetti una creatura di superficie in senso deleuziano, una guaina olografica, come una calzamaglia virtuale aderente al corpo macchinico dell’androide.

Non si può qui fare a meno di notare un parallelo tra la constatazione dell’umanismo (e del maschilismo) residuale di Blade Runner 2049 e la trama della serie televisiva HBO Westworld (Nolan e Joy, 2016 – in produzione). A Westworld, parco divertimenti “dove tutto è concesso”, gli androidi possono essere, in pieno spirito post-umano, oggetto di qualsivoglia desiderio degli ospiti del parco – dunque brutalizzati, violentati e infine uccisi. Ma quando gli androidi vengono dotati dal creatore del parco, il dottor Robert Ford, di “rimembranze” delle loro “vite precedenti”, finiscono per ribellarsi agli umani e per volersi in qualche modo sostituire ad essi: tra questi ricordi vi sono infatti, oltre alle memorie delle loro innumerevoli morti, anche quelli relativi alla loro continua riparazione e “rimessa in gioco” da parte degli umani. Allo stesso modo, i replicanti del Blade Runner di Scott si ribellano davanti alla scoperta della falsità dei ricordi impiantati in essi, mentre i nuovi replicanti del film di Villeneuve sanno dall’inizio che i loro ricordi sono falsi, dunque sono privati ab origine delllusione di un qualche residuo di autenticità. Ma non è forse questo vuoto della soggettività a rendere i nuovi replicanti più simili agli umani?

Se gli androidi del parco Westworld vogliono diventare “umani troppo umani”, dall’altra parte la serie, così come il film di Villeneuve, inizia infatti a farci dubitare del libero arbitrio, anzi dell’autenticità degli stessi umani. Non siamo tutti un po’ come il Bernard Lowe di Westworld, che non sa di non essere umano e che, conosciuta la verità, si confronta con la tragicità di questa scoperta? L’inconscio digitale degli androidi di Westworld non è forse reso metaforicamente dal loro risveglio al laboratorio – cioè dal momento in cui scoprono di essere un guscio vuoto? In altre parole: gli androidi si scoprono inautentici e in ciò si realizza appieno la loro (post-)umanizzazione. Non è forse la continua “resurrezione” in laboratorio degli androidi «un’“altra scena” virtuale che accompagna il contenuto conscio del soggetto» (Žižek 2019, p. 78)?

Žižek domanda allora: un inconscio tecnologico o digitale può essere assimilabile a un inconscio freudiano, controfattuale, in cui abbia luogo la mancanza? In altri termini: il soggetto post-umano può ancora percepirsi come diviso-mancante? Può esserci qualcosa che l’androide non sa di sé e che va oltre le righe del codice? Da quel guscio vuoto al centro del soggetto, può partorire il desiderio? La presenza negli androidi di Westworld dell’improvvisazione o l’istanza emancipatoria di Freysa in Blade Runner 2049 sembrano imboccare la prima, promettente strada. Probabilmente la rivoluzione dell’inconscio tecnologico implicherebbe, secondo una logica di sillogismo disgiuntivo, di non essere (più) né umani né androidi, ma umani, androidi e qualcos’altro che non possiamo ancora immaginare, qualcosa che, ricorda Žižek, «manderà in frantumi proprio la separazione tra umani e inumani» (ivi, p. 75).

È il tratto “leninista” di Žižek: con l’Uomo Nuovo, non verrà apportato tanto un cambiamento nella natura, ma sarà la “natura umana” ad essere cambiata. È il tratto ecologista del comunismo žižekiano. Un comunismo che lascia attraversare tutte le battaglie (femminismo, attivismo LGBT, diritti dei migranti, rivendicazioni dei lavoratori) dall’universale per spogliarle del loro tratto identitario. L’universale è dunque il modo in cui il tarlo del negativo «agisce nelle fratture della specifica identità di ciascuno» (ivi, p. 91), secondo un fare non pienamente consapevole che è l’unico modo di poter fare l’impossibile. È in questo senso che va intesa anche la piega “europeista” del discorso žižekiano, che vede nell’Europa l’antidoto tanto al “feticismo” della destra populista quanto al turbo-capitalismo, l’unica visione globale e universalista in grado di contrastare l’identitarismo degli Stati-nazione e il capitale internazionale.

Riferimenti bibliografici
P. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma 2017.
M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018.
J. Lacan, Del discorso psicoanalitico, in G. Contri, a cura di, Lacan in Italia, La Salamandra, Milano 1978.
S. Žižek, Come un ladro in pieno giorno. Il potere all’epoca della postumanità, Ponte alle Grazie, Milano 2019.

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