Mi ritrovo a scrivere questo breve testo durante la Pasqua ebraica 2020, poco dopo l’annuncio del ritiro di Bernie Sanders dalla corsa per la nomination democratica alle prossime elezioni presidenziali. Sanders, il candidato ebreo alla presidenza che ha avuto maggior successo nella storia degli Stati Uniti d’America, ha messo fine alla sua campagna nata con l’obiettivo di guidare il popolo americano verso la terra promessa del Socialismo Democratico. Il ritiro di di Sanders mette fine anche alle speranze e ai sogni, che animavano il suo movimento, di una rivoluzione capace di trasformare la società americana grazie alla sua elezione a presidente nel 2020.
Ma per molti attivisti, tanti dei quali hanno partecipato al movimento popolare che ha supportato la campagna presidenziale di Sanders, la pandemia di Covid-19 offre nuovi spiragli di speranza per la decostruzione del capitalismo e la sua sostituzione con un sistema economico e sociale che sia giusto ed egualitario allo stesso modo per umani e non umani. Per questi pensatori rivoluzionari la pandemia mette a nudo l’insostenibilità e le diseguaglianze dell’attuale sistema. Piuttosto che adoperarsi per tornare al normale stato delle cose, precedente alla pandemia, perché non approfittare di questa decostruzione per far nascere una politica economica più umana e un nuovo stato sociale? Perché, per parafrasare Steave Earle, non cominciare la rivoluzione adesso?
Sebbene sia solidale con questo desiderio, almeno per il momento il popolo eletto resta schiavo delle forze del capitalismo. La città splendente sulla collina sta affrontando la sua serie di piaghe, provocate da chissà quali divinità: il faraone Trump, i Repubblicani, i suprematisti bianchi, i Cristiani evangelici, la devastazione ambientale, il razzismo strutturale, l’ingiustizia economica, la fine dello stato di diritto, la crudele chiusura dei confini e ora il Covid-19. In risposta all’ultima di queste piaghe, l’ingiusta e imprevedibile uccisione dei primi infetti, siamo stati chiamati questa volta, non a contrassegnare con il sangue le nostre porte, ma a marchiare i nostri volti con delle maschere.
Mi sono chiesto che tipo di funzione svolgono queste maschere. Naturalmente esse funzionano come espressione del distanziamento sociale della collettività, non diversamente dal sangue sugli architravi delle porte degli ebrei egiziani, attraverso cui si chiedeva a Dio di risparmiare i primogeniti tenendosi a distanza dalle loro abitazioni. Più nello specifico ho cercato di dare un senso al nostro mascheramento pandemico in relazione alla questione della resistenza popolare, della ribellione o rivoluzione, chiedendomi se le nostre maschere possono essere viste (o possono essere fatte per funzionare) come segni di una resistenza collettiva, non soltanto al virus, ma alla forza devastante del capitalismo che allo stesso tempo ha favorito l’attuale pandemia di Coronavirus e da cui risulta fortemente esacerbato.
Certamente, la storia recente ci ha presentato svariati esempi di casi in cui oggetti quotidiani o cose ordinarie sono state associate a movimenti di resistenza politica, funzionando come mediazioni radicali che catalizzano o assemblano un’agentività rivoluzionaria. Nella rivoluzione arancione del 2004-2005 in Ucraina, i nastri arancioni si sono trasformati in una collettività rivoluzionaria di colore arancione.
Nella rivoluzione degli ombrelli di Hong Kong del 2014, ombrelli gialli e di altri colori hanno contribuito ad intensificare e accentuare le folle dei manifestanti come anche a creare un interessante sotto-genere di arte rivoluzionaria.
A partire dal 2018, il Movimento dei gilet gialli in Francia ha utilizzato giubbotti gialli catarifrangenti per unificare nella propria causa una serie di rivendicazioni, di carattere populista, per una giustizia economica, incluse tra le altre, tasse più basse sui carburanti, la reintroduzione di una tassa di solidarietà sul patrimonio, l’aumento del salario minimo e l’implementazione di iniziative referendarie da parte dei cittadini.
E più recentemente il movimento italiano delle Sardine ha preso come simbolo il piccolo pesce da banco per tenere insieme un movimento di opposizione alla politica anti-immigrati ed euroscettica di Matteo Salvini. Queste forme di mediazione non umane sono state e restano cruciali nel creare ciò che Jonathan Flatley (2012) definisce un contro-stato d’animo rivoluzionari (revolutionary counter-mood).
Sebbene si possa essere tentati dal pensare che questi oggetti rivoluzionari, siano essi simbolici o metaforici, rappresentino una resistenza collettiva che esiste a prescindere e indipendentemente da questi ombrelli o giubbotti, la mia idea, invece, è che essi funzionino piuttosto come mediazioni metonimiche di questi movimenti rivoluzionari, catalizzando e tenendo insieme un contro-stato d’animo rivoluzionario. Questi oggetti non rappresentano in nessun senso, esplicito o letterale, le richieste o il carattere di questi diversi movimenti, non funzionano cioè secondo un procedimento logico o metaforico. Piuttosto questi oggetti rivoluzionari sono in un certo senso ontogenetici, funzionano come mediazioni radicali, sono una forma di “terzità”, per usare il termine con cui Peirce indica ciò che definisce «la tendenza a prendere abitudini». Nel caso di questi movimenti rivoluzionari, radunarsi con nastri arancioni, con gli ombrelli, o con i giubbotti gialli è parte stessa del contro-stato d’animo o dell’abitudine e della resistenza della collettività necessarie per ogni forma di movimento rivoluzionario.
O, prendendo in prestito le parole di Davide Panagia (2018), possiamo dire che questi oggetti eseguono l’atto della mediazione radicale che Rancière (2016) definisce «la partizione del sensibile». Questi oggetti di mediazione rivoluzionaria aiutano a produrre una «convergenza tra le forze a disposizione, mettendo le cose in relazione reciproca», come gli ombrelli o i gilet stessi, le rivendicazioni e gli obiettivi dei movimenti rivoluzionari, le persone che si radunano nelle strade o le loro molteplici rimediazioni nei giornali, nelle tv, in rete. Queste cose o oggetti non sono un epifenomeno secondario rispetto a delle collettività pre-esistenti, ma sono mediazioni radicali che contribuiscono a generare le collettività intese come qualcosa di qualitativamente diverso dalla semplice somma di individui isolati. Le mediazioni rivoluzionarie di questo tipo contribuiscono a creare e a tenere insieme le abitudini di un’assemblea collettiva ed esse stesse generano istanze di resistenza individuali. La moltiplicazione di questi oggetti rende evidente la moltiplicazione della forza in una collettività rivoluzionaria. Per il solo fatto di rappresentare qualunque cosa, questi oggetti funzionano come un indice di intensità, molteplicità o potere e non come la rappresentazione di un particolare concetto rivoluzionario o di una specifica rivendicazione.
Ma possiamo dire la stessa cosa delle maschere? Funzionano allo stesso modo? Oserei dire, che questa è una domanda molto più complicata, perché le maschere svolgono una doppia funzione. Da un lato indossare una maschera in quanto parte di una collettività rivoluzionaria – come le maschere di Guy Fawkes in V per vendetta (McTeigue, 2005) o la maschera di Joker in Joker (Phillips, 2019) – serve a nascondere l’identità individuale di chi la indossa.
Dall’altro lato, come gli ombrelli, i gilet o le sardine, queste maschere generano una collettività rivoluzionaria, moltiplicando, attraverso la ripetizione, l’intensità della collettività rivoluzionaria o resistente. Eppure in questi due esempi cinematografici le maschere hanno anche un valore simbolico o rappresentativo collegato a figure storiche reali o di finzione. Ma le maschere, a prescindere da qualsiasi riferimento, possono funzionare anche solo per nascondere, come accaduto ad Hong Kong durante la resistenza dell’Ottobre 2019, in cui l’utilizzo delle maschere serviva ad impedire il riconoscimento facciale, tramite tecnologia, usato dalla polizia per identificare e perseguire i leader delle proteste.
Se è vero che tutte queste maschere hanno diversi obiettivi storici o strategici, esse funzionano anche per tenere insieme una collettività rivoluzionaria e per creare un contro-stato d’animo attraverso la partizione del sensibile. Dimostrano, cioè, come delle maschere simboliche funzionano sia a livello metonimico che metaforico. O più precisamente, mostrano che oggetti simbolici possono essere trasformati in mediazioni rivoluzionarie attraverso la rimediazione della metafora come metonimia.
E questo mi porta al curioso caso delle maschere per il Covid. Da un alto, indossare queste maschere può essere visto come un modo per creare una sorta di collettività socialmente distanziata, quando andiamo al mercato, o ci muoviamo per strada, sui marciapiedi, nei bus o sui treni delle nostre città. Dall’altro, l’obiettivo di queste maschere è di separarci gli uni dagli altri, di tenerci distanti e non certo di riunirci in grandi assembramenti. Ma le maschere possono anche creare forme di solidarietà o collettività. Le persone, ad esempio, hanno cominciato a far circolare online le istruzioni per permettere a ciascuno di creare la propria maschera e hanno cominciato a condividere immagini di se stessi e dei membri della proprie famiglie mascherati e pronti ad avventurarsi nel mondo.
L’atto di indossare la maschera del Covid-19 può essere visto come un atto di cura collettiva e reciproca, rivolta non tanto a preservare la salute in un individuo in particolare, ma la salute della collettività. O detto altrimenti, le maschere Covid-19 rappresentano delle forme di partizione del sensibile segnando delle divisioni tra gli individui.
Certamente prendersi cura degli altri, preoccuparsi della collettività in sé, è una buona ragione per indossare le maschere. Ma la mia domanda è se queste maschere di cura collettiva possono essere trasformate in maschere di protesta, di vendetta, di ribellione, di resistenza, di rivoluzione. Sebbene la storia sia in evoluzione, ho i miei dubbi. Innanzitutto, queste maschere servono a trasformare i singoli cittadini in pazienti. La ragione principale per cui indossiamo la maschera è che in questo modo una persona asintomatica non trasmetta la malattia agli altri. Il presupposto implicito, dunque, è che tutti dovremmo comportarci come se fossimo infetti dal virus o come se fossimo potenziali pazienti. Questo risulta particolarmente evidente per quelle persone che indossano mascherine chirurgiche o mediche, ma il presupposto resta a prescindere dall’aspetto della maschera che porti. Indossare le maschere è una forma di cura, individuale e collettiva. E in tempi come questi abbiamo bisogno di tutta la cura e l’attenzione possibili.
Ma indossare una maschera non ci proteggerà dalla nostra storia. Mascherarci per la cura della collettività non fa altro che perpetuare una logica di resilienza, che riguarda innanzitutto la sopravvivenza (individuale e collettiva) delle condizioni sociali, politiche ed economiche della pandemia in quanto tali. E forse per ora, questo è tutto quello che le maschere possono fare. Ma non possiamo aspettare la fine della pandemia di Covid-19 per lavorare ad un cambiamento strutturale. Anche ora, mentre cerchiamo di proteggere noi stessi e i nostri vicini dal diffondersi dell’infezione, dobbiamo spingere le persone a mascherarsi per il cambiamento, non solo per la cura. La cura è importante, ma non se si fonda sull’accettazione di uno status quo ingiusto e iniquo.
Molti di noi provano un’intensa rabbia nel vedere le ingiustizie messe a nudo ed esacerbate da questa pandemia. È giunta l’ora di collettivizzare tale rabbia e di trovare il modo per realizzare un vero cambiamento, che dovrebbe cominciare, innanzitutto, con la distruzione di tutto ciò che ha valore per coloro che vogliono mantenere questa strutturale ingiustizia sociale, da cui traggono beneficio. E come suggeriscono gli esempi dell’Ucraina, di Hong Kong, della Francia e dell’Italia, la creazione di un collettivo rivoluzionario può essere attivata dalle forme di mediazione radicale che possono fondarsi sulla «tendenza a prendere abitudini».
Forse il miglior esempio recente di questo tipo di mediazione rivoluzionaria può essere rintracciato nel caso delle femministe cilene mascherate, che hanno rappresentato un’importante forza nelle proteste cilene, iniziate nell’ottobre 2019, contro l’ineguaglianza sociale. Nel marzo 2020 donne mascherate hanno protestato pubblicamente in massa in tutta l’America Latina durante le manifestazioni per la Giornata Internazionale della Donna. Ancora più efficacemente, il 9 Marzo, il giorno dopo le grandi manifestazioni di massa delle donne, le femministe cilene mascherate hanno mobilitato la popolazione in uno sciopero generale per protestare contro le persistenti ingiustizie in tutto il paese.
Ora che indossare una maschera per la cura degli altri sta diventando un’abitudine, questo potrebbe essere il momento perfetto negli Stati Uniti e in tutto il mondo, forse attraverso saccheggi (Osterweil 2020) o rivolte (Clover 2019) organizzati in flash mob o in forme di collettività più piccole, per cominciare a lavorare, non soltanto alla cura reciproca, ma per la distruzione e l’espropriazione di quelle forze che impediscono tale cura, che sia a vantaggio dei poveri, degli immigrati, dell’ambiente o delle persone di ogni colore, genere o etnia. Le nostre maschere Covid non ci hanno ancora portato a questo punto, ma credo che contengano in se stesse la potenzialità radicale di mobilitare le collettività alla resistenza o forse anche alla rivoluzione attraverso la ridistribuzione del capitale e del potere politico.
Riferimenti bibliografici
J. Clover, Riot. Strike. Riot.The New Era of Uprisings, Verso, New York 2019.
J. Flatley, How A Revolutionary Counter-Mood Is Made, “New Literary History”, Vol. 43, No. 3, Summer 2012.
V. Osterweil, In Defense of Looting. A Riotous History of Uncivil Action, Hachette, New York 2020.
D. Panagia, Rancière′s Sentiment, Duke University Press, Durham 2018.
J. Ranciere, La partizione del sensibile, Derive Approdi, Roma 2016.
*La traduzione dall’inglese è di Angela Maiello.