Nel film Cold War il tema dello sguardo si declina attraverso un percorso di continua ricerca, di confronto con se stessi e con l’Altro, e di corrispondenza intima con i vari modi dell’esistere; sarà, infine, il percorso di una serenità ritrovata. L’intreccio narrativo si complica sempre più nel corso del film a causa delle circostanze storiche in cui la narrazione si inserisce; eppure il soggetto del film può sorprendere per la sua apparente semplicità: una relazione amorosa che prosegue nel tempo.
L’intimità della storia d’amore è dunque prefigurata e ricercata proprio al di là di quella stessa contingenza storica che pur la definisce: il soggetto sembra ridursi sempre più, diviene essenziale e, in questo modo, procede, consapevole di non poter tralasciare la propria urgenza discorsiva: il sentimento amoroso lì compreso supera qualsiasi materialità storica e pervade qualsiasi ambizione estetica, e configura il film, dunque, come un film sull’amore: un film che nasce dall’amore, che si sviluppa attorno all’amore, all’analisi del sentimento, del suo nascere e del suo svilupparsi, e al ritorno, infine, a una trattazione emotiva, densa solamente del sentimento che la nutre, al di là di qualsiasi sua elaborazione analitica. Come scrive Fromm:
L’unico modo per conoscere profondamente un essere è l’atto di amore; questo atto supera il pensiero, supera le parole. È il tuffo ardito nell’esperienza dell’unione […]. È la consapevolezza che non riusciremo mai ad "afferrare" il segreto dell’uomo e dell’universo, ma che possiamo tuttavia conoscerlo nell’atto d’amore. La psicologia come scienza ha i suoi limiti, e […] la diretta conseguenza della psicologia è l’amore (Fromm 1996, pp. 41-42).
E, spogliato dal suo sembiante, pur problematico, di spessore politico, storico, materialistico, lo sguardo del film non è, infine, se non sguardo d’amore. Del resto, l’intero film è costruito come un movimento di sguardo, ora atteso e ora disatteso. I frequenti stacchi al nero, ad esempio, realizzati a partire da una necessità narrativa ma che non sempre coincidono con la svolta didascalica cronologica, imprimono all’opera proprio questo ritmo, tipico di un respiro, di uno sguardo che apre e chiude gli occhi, e ancora, se si vuole introdurre un altro tema presente nel tessuto narrativo, di un movimento musicale.
Da una prospettiva di analisi strettamente iconografica, invece, l’elemento dello sguardo è concretizzato nel film attraverso l’inquadratura in dettaglio di un affresco, e dell’unico particolare rimasto da quel dipinto ora consumato dal tempo: gli occhi. L’affresco si trova all’interno di una chiesa semidistrutta, e gli occhi appartenevano alla raffigurazione pittorica del viso di Cristo. L’inquadratura appare per due volte nel corso del film. La sua ripetizione, il suo soffermarsi sul dettaglio, la sua collocazione narrativa e iconologica, compongono lo spazio del film attraverso una sequenza pregna di spiritualità e, ancora, di intimità.
Infine, a proposito di sguardo, il tema del confronto è operato grazie a un altro elemento caro al cinema di Pawlikowski: lo specchio. Specchio e sguardo sono due oggetti che si confondono tra loro, e appaiono nell’opera anche in una relazione non necessariamente concreta e oggettivata: anche in assenza di uno specchio, lo sguardo in Cold War non indica mai un semplice guardare, ma è sempre anche un riflettersi; non è mai solo un riflettersi, ma è anche un confrontarsi con l’Altro.
Ritorna frequentemente, allora, l’immagine della folla e, in rapporto ad essa, dello sguardo dei protagonisti. Il protagonista maschile, ad esempio, è inquadrato durante il suo lavoro di direttore del coro, durante lo spettacolo, e dà quindi le spalle al pubblico presente in sala; la protagonista femminile, al contrario, si esibisce in spettacoli canori e dunque guarda direttamente al pubblico, ma, in un’occasione, può anche dargli le spalle per voltarsi, indirizzarsi ai musicisti e concordare con loro il ritmo della canzone. Il rapporto con il pubblico, con la folla che riempie l’inquadratura, si configura dunque, spesso, come uno sguardo negato o fuggito.
E per l’elemento dello specchio, il processo scopico è il medesimo. All’interno di un salone di ricevimento, i due etnomusicologi con i quali si apre il film, poi raggiunti dal funzionario staliniano che, in seguito, provocherà la separazione dei due amanti protagonisti, sono addossati al grande specchio che scorre lungo tutta la parete della stanza. Lo specchio riflette illusoriamente ciò che ha davanti: la folla che riempie la stanza da ballo e che sembra porsi dietro ai tre personaggi. I riflessi dei corpi dei tre personaggi, invece, sono oscurati a causa della presenza del vero corpo, che coincide visivamente con il riflesso speculare, ora annullandolo, ora, appena, rivelandolo, come se fosse però la schiena di un estraneo.
In definitiva, dunque, la continuità fra i tre personaggi in primo piano e la folla è solo apparente; guardando la folla, inoltre, i tre, in realtà, nella realtà in cui ci è dato assistere, ossia a quella dell’inquadratura, le danno le spalle. Oppure, in un’altra importante inquadratura, il corpo di Wiktor appare dietro il vetro della sala delle incisioni musicali, mentre quello di Zula appare come un riflesso doppio sulla stessa superficie vitrea, e dunque sulla stessa, fantasmatica, inquadratura. Lo specchio indica, dunque, una realtà rielaborata, riflessa, ma anche offuscata da un’immagine sempre precaria, e pronta a dissolversi. Per citare le parole di Rosamaria Salvatore:
La percezione proveniente dalla superficie riflettente di una Gestalt unitaria è, contemporaneamente e fin dal suo aurorale manifestarsi, impregnata da un vissuto di alienazione, di mancanza, di sottrazione. La definizione di sé è ancorata ad un riflesso che perviene da un altrove (Salvatore 2011, p. 31).
Per soffermarmi sullo sguardo, sul riflesso, sulla dialettica visiva e scopica, però, l’atto di guardare assume particolare rilevanza nel momento in cui si staglia come relazione di sguardo tra i due protagonisti. Lui guarda lei, lei guarda lui, spesso in campo e controcampo, a volte nella stessa inquadratura, a volte nello stesso campo. E quando Wiktor, durante uno spettacolo, tra il pubblico, guarda Zula mentre si esibisce sul palco, anche Zula lo guarda; e quando il posto in platea rimane vuoto perché Wiktor è sequestrato dalla polizia del regime, l’inquadratura che prima lo ritraeva tra la folla ora produce quel vuoto, immerso tra le file di spettatori; Zula, dall’altra parte, osserva il vuoto, e chiude gli occhi.
Un’altra tematica, dunque, è quella dell’assenza. Lo sguardo d’amore che attraversa il tempo e lo spazio, si delinea nella sua assenza. Si ama a partire da un’assenza, sembra dirci il film, si ama in assenza, e da quel vuoto si genera un pensiero, un sentimento, un’immagine; è forse dall’immagine, dal cinema, dall’arte, che si può allora imparare nuovamente ad amare, a interrogare il ritorno del reale che scaturisce proprio dal suo confronto con l’immaginario, e che da assenza diviene nuova, inedita, inattesa presenza. Dichiara ad esempio Lacan:
D’altra parte, è assolutamente chiaro che oggi l’amore […] è al livello […] di ciò che si presenta come la materializzazione più viva della fiction nella sua essenzialità. Per noi è il cinema […]. Quanto viene espresso nel mito della caverna lo vediamo tutti i giorni illustrato dai raggi danzanti che, sullo schermo, manifestano i nostri sentimenti allo stato di ombre. Ed è proprio a questa dimensione che nell’arte dei nostri giorni appartengono in modo eminente la difesa e l’illustrazione dell’amore (Lacan 2008, p. 38).
In una sala cinematografica, davanti allo schermo, amare è dunque manifestare se stessi a contatto con un’ombra, o un’assenza. Sempre secondo l’interpretazione psicanalitica lacaniana, amare è donare all’Altro la propria assenza, la consapevolezza della propria mancanza, il sentimento del bisogno della presenza e dell’esistenza dell’Altro. Secondo Lacan, infatti, «è nella misura in cui la funzione dell’erastes, di colui che ama, in quanto è il soggetto della mancanza, viene al posto e si sostituisce alla funzione dell’eromenos, dell’oggetto amato, che si produce la significazione dell’amore» (ivi, p. 45). Infine, se la percezione dell’assenza può simulare una disarmonia nella vita di coppia, essa, però, manifesta sempre quel vuoto che, ogni volta, si deve imparare a riconsiderare, in vista di un possibile sguardo in grado di circoscriverlo ed elaborarlo: un equilibrio condiviso.
L’ultima inquadratura del film è un’inquadratura vuota su quel paesaggio che, prima, era spesso ritratto in campo lungo, anche in presenza dei personaggi, elementi piccoli e indistinguibili persi in uno spazio vasto e confuso. Ora, il vuoto del paesaggio è ravvicinato; coincide con lo sguardo dei due amanti; è prodotto dallo spostamento di sguardo dei due che, posizionandosi in fuori campo, semplicemente attraversano il limite dell’inquadratura e si posizionano oltre, oltre la soglia del tempo che prima li osservava e ora è osservato. Dall’altra parte, è come se gli amanti vedessero meglio se stessi.
La tematica dello sguardo, in questo senso, va intesa in termini lacaniani, ossia come percezione, riflessione, rielaborazione di un vissuto. Come scrive Rosamaria Salvatore, «l’oggetto sguardo è qualcosa che sorge al di là di ciò che si vuol vedere» (Salvatore 2011, p. 96). Inoltre, lo sguardo si prefigura, nella sua concrezione immaginifica, come sintesi di prima, ora, dopo: nell’immagine e nello sguardo finale di Cold War, è come se le tre dimensioni temporali fossero così concretizzate in un’unica inquadratura, generata e alimentata a partire dalla sua simbolizzazione del vuoto. Amare è, infine, amare nel tempo, amare anche nell’assenza e assorbire il suo vuoto, osservarlo, rifletterlo, e ripensarlo, per sé, e per l’Altro.
Riferimenti bibliografici
E. Fromm, L’arte di amare, Mondadori, Milano 1996.
J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961, Einaudi, Torino 2008.
R. Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psicoanalisi, Quodlibet, Macerata 2011.