Quando gli spettatori si accomodano nei palchetti si ritrovano affacciati sulla platea svuotata: sono sparite le poltrone rosse e al loro posto c’è una distesa di monitor, vecchi modelli di computer (quando si chiamavano “ordinatori” o “calcolatori”): ciascuno è una postazione con poltrone di vilpelle, sedie di legno traballanti, tavolini e comodini, vecchi arredi come naufragati da una risacca temporale. Siamo messi di fronte appunto a una “discarica” del tempo. Sul boccascena in alto un display fa scorrere delle cifre luminose, il palcoscenico è desolatamente vuoto. Le luci del teatro sono tutte accese e nel silenzio di quel tempo sospeso fa il suo ingresso un uomo che in un dialetto dell’entroterra campano intesse un’ode al paese natio: “Paise mio, bellu paise!”, ma non lo nomina perché al solo nominarlo quel paese si dissolverebbe. Dice di chiamarsi Salvo Panza e che fa l’infermiere. Infatti l’uomo accompagna uno alla volta a sedersi di fronte ai monitor un gruppo di anziani, dal passo incerto e traballante, fino a comporre una sorta di specchio rovesciato e deformato del nostro sguardo di spettatori. Potrebbe essere la sala d’aspetto di una stazione, oppure la sala comune di un ospizio. Intanto sopraggiunge, indossando il medesimo giubbotto di pelle di Salvo, la figura segaligna e allampanata di un certo Michele Cervante, anche loro si rispecchiano l’un l’altro.

Cominciamo a capire che ciò cui assistiamo è una sorta di trascrizione di un testo fondativo della letteratura di tutti i tempi, il Don Chisciotte di Miguel De Cervantes, immerso nella congerie inquieta e desolante del nostro mondo contemporaneo, ma visto come da un recesso temporale astratto, messo tra parentesi in una visione insieme concettuale e allucinatoria. Tale l’impostazione spaziale e la lettura registica che fin dall’inizio Antonio Latella, fedele al suo stile analitico e alla sua vocazione scenica che tende sempre a una “anatomia” drammaturgica, fornisce a un testo di Ruggero Cappuccio Circus Don Chisciotte (rimesso in scena nella nuova stagione del Teatro di Napoli, dopo il debutto al Campania Teatro Festival), dove, con una lingua immaginifica risuonante di barocchismi, si immagina l’incontro nella notte di una stazione abbandonata alla periferia di una Napoli disfatta tra un hidalgo dei nostri tempi, intellettuale disilluso, invecchiato e spiritato (un Michelangelo Dalisi dall’eloquio lieve, melanconico e insieme affilato) e il suo contraltare, una specie di ombra proiettata da se: il sanguigno, terragno, buffonesco figlio di un entroterra campano (un Marco Cacciola debordante di vitalità, sarcasmo e ironia), ennesima incarnazione dello scudiero Sancho Panza (c’è qualcosa di pasoliniano in questa coppia intellettuale/ragazzo di strada).

Ora l’operazione che Latella compie rispetto al testo di Cappuccio consiste in una specie di “prelievo” e di disseminazione-scomposizione visiva delle parole del testo, che si depositano tanto nella recitazione che assume il valore di “re-citazione” dislocata, con un procedimento che si potrebbe definire “godardiano”, quanto nei punti attrattivi dello spazio scenico. Anzitutto sul display luminoso che scorre a scomporre-ricomporre la parola riducendola a cifratura luminosa, e contemporaneamente nell’inesausto dialogo tra i doppi di Chisciotte/Cervante e Sancho/Salvo, che si rivelano l’uno come doppio-rovesciamento dell’altro. Latella lo scrive nelle sue note di regia; «non c’è un servo e un padrone, non c’è un intellettuale e un uomo del popolo, c’è un solo uomo che sa essere entrambi gli uomini, entrambe le possibilità che la vita ci ha dato: una attraverso la letteratura che si fa vita, l’altra attraverso la vita che si fa letteratura» (2023). Questo essere duplice, sdoppiato, si fa via via specchio reciproco così come lo sguardo inerme degli anziani che fissano il monitor anche quando su di esso tremola la nebbia del senza-immagine o quando dai tubi catodici o dai relais comincia a diffondersi un fumo che fa andare in tilt ogni possibilità di riproduzione, si fa specchio alla nostra posizione di spettatori. L’incontro avviene allora in una cifratura del tempo che scorre scandito dal lettering del display e si muove in un incessante tentativo di decifrare il mondo, per via allucinatoria, sovrapponendovi il sogno utopico di una meta cui il viaggiare tende ma non prende mai forma se non, come in Cervantes, in una visione evanescente che fa apparire come giganti i mulini a vento, e che evoca una età dell’oro di fronte a una terra desolata, oppure trasfigura una bettola in un castello, e i merli di quel castello in una translitterazione fantastica vedendoli volare come neri uccelli. “La parola non salva. Fu data all’uomo perché l’uomo vi nascondesse dietro il suo pensiero” è l’apodittica sentenza di Michele Cervante. In tal modo, ancora con un taglio alla Godard, la parola e l’immagine si riflettono e si scambiano di posto, sono l’una cifra dell’altra: la parola immagina, e l’immagine prende a parlare. In un momento tra i più significativi e suggestivi dello spettacolo sui monitor passa l’immagine aurorale delle origini del cinema, quella di L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) dei fratelli Lumière, e ci appare come il segno di una origine interminabile e inattingibile del tempo.

Così come ancora sui monitor in un altro momento compare un cavallo in corsa prelevato dal film Il cavallo di Torino (2011) di Béla Tarr, cineasta che del lavoro sul tempo, scomposto e ricomposto con una sorta di modalità cubista, ha costruito il suo stile. Viene da dire che il nesso tempo-parola-mondo presieda dunque a questo spettacolo che assume così anche una risonanza “borgesiana”. Quello stesso Borges che nel suo racconto Pierre Menard, autore del Chisciotte, contenuto in Finzioni (2003), immagina una riscrittura del testo di Cervantes da parte di un immaginario scrittore francese del Novecento, concependo un vertiginoso paradosso: il testo trascritto identico parola per parola assume alla luce del tempo un significato altro. Scrive a proposito del racconto di Borges, Maurice Blanchot:

Borges ci propone d’immaginare uno scrittore francese contemporaneo che scriva, partendo da pensieri propri, delle pagine che riproducano testualmente due capitoli del Don Chisciotte: assurdità memorabile, non diversa da quella cui si assiste in ogni traduzione. In una traduzione noi abbiamo una stessa opera in un doppio linguaggio; nella finzione di Borges, abbiamo due opere nell’identità dello stesso linguaggio e, in questa identità che non è tale, il vertiginoso miraggio della duplicità dei possibili. Ora, di fronte a una replica perfetta, l’originale è cancellato e perfino l’origine. Così il mondo, se si potesse esattamente tradurlo e raddoppiarlo in un libro, perderebbe ogni principio e ogni fine per diventare quel volume sferico, finito e senza limiti, che tutti gli uomini scrivono e in cui sono scritti: non sarebbe più il mondo, ma sarebbe, sarà, il mondo pervertito nella somma infinita dei suoi possibili (2019, p. 128). 

Questa idea di un mondo scritto e parlato e immaginato simultaneamente sembra presiedere alla regia di Latella anche nel suo “cifrare” alla lettera il testo di Cappuccio che a sua volta riverbera quello di Cervantes. I “portatori” di parola si rispecchiano negli spettatori muti che abitano come in un viaggio immobile lo spazio sventrato della platea teatrale, e che sembrano ridotti a cecità, attoniti, muti e astenici viaggiatori sperduti, simili agli “hollow men” di T.S. Eliot, sterili abitanti di una “Waste Land”. Quando appunto gli anziani nel finale vengono ripresi per mano da Salvo Panza e condotti fuori dalla platea, la loro inerzia di detrito pare riassorbita nella memoria del mondo e ricondotta a segno vivente di quanto hanno inciso nella nostra mente le parole del mondo, i libri fondativi depositati nel tempo e nel pensiero umano (sul display si compongono titoli e autori come L’uomo senza qualità, La ricerca del tempo perduto, Critica della ragion pratica, e via via Spinoza, Quevedo, Fichte, Saramago, fino, non a caso, al Borges di Fervore di Buenos Aires). Ognuno di quegli esseri umani pare rinominarsi e incarnare un libro, come nel finale di Fahrenheit 451 di Truffaut (1966). Così residua in noi spettatori una sorta di ebbrezza del naufragio, e rimaniamo attoniti a guardare dall’alto quel cerchio vuoto, quasi la pista di un circo a fine spettacolo, disseminato di monitor, mentre un vapore invade lo spazio e lo risucchia come in una discarica entro cui incessantemente cifrare e decifrare il tempo del mondo.

Riferimenti bibliografici
J.L. Borges, Finzioni, Adelphi, Milano 2003.
M. Blanchot, Il libro a venire, il Saggiatore, Milano 2019.
A. Latella, Note di regia , Programma di Sala, Teatro di Napoli-Teatro Mercadante, 2023.

*La foto in copertina è di Ivan Nocera.

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