«Travis Bickle non è mai stato in nessun cazzo di Vietnam». Lo scrive Quentin Tarantino in Cinema Speculation, uno dei libri di cinema più interessanti usciti di recente. L’espressione, al di là della sua perentorietà, individua una questione centrale per rileggere Taxi Driver (1976), capolavoro della storia del cinema tornato ora nelle sale in occasione dei suoi cinquant’anni (che in realtà si festeggeranno nel 2026).
L’ex marine che a inizio film cerca lavoro come tassista perché non riesce a dormire e ha difficoltà relazionali e che poi affonda in una deriva psichica che lo porta prima a tentare di uccidere un senatore poi a compiere una strage per liberare una prostituta minorenne, forse in effetti in Vietnam non ci è mai stato. Ancora Tarantino:
Il mio problema non è che Travis sia un contaballe. In mancanza di flashback, le uniche prove che sia stato nel Vietnam sono quanto dice a Joe Spinell e il suo giaccone verde. Bene: Travis passa tutto il film a dimostrare al pubblico di essere un narratore inattendibile e delirante, che mente costantemente ai suoi interlocutori. E il giaccone l’ha comprato in un negozio di eccedenze militari (2023, pp. 270-271).
Ora, la questione, come dicevamo, individua forse un nodo centrale del film, che è qualcosa che ha a che fare con la costruzione di un personaggio che si inserisce in una precisa tradizione, letteraria e cinematografica americana, ma non solo, eredità che lascerà a sua volta a tanto cinema futuro (un esempio su tutti, l’Arthur Fleck dei Joker di Todd Phillips). «Insomma… qual è il tuo problema?» chiede a Travis l’addetto al colloquio di lavoro (Joe Spinell) nella scena che apre il film. Qual è il problema di Travis? È questo il nodo. In effetti, sia la sceneggiatura di Schrader sia il film finito di Scorsese non sviluppano più di tanto il passato in Vietnam di Travis. Che sì, narrativamente, può giustificare la sua conoscenza delle armi e la preparazione dell’attentato politico (anche se poi l’esecuzione sembra molto lontana da una perfetta logica militare e infatti fallisce miseramente) ma non pare diventare mai la causa originaria delle azioni e della condizione di inadeguatezza di Travis nel presente.
Qualcosa che al contrario accade in maniera molto evidente in Rolling Thunder, altra sceneggiatura firmata da Schrader che diventa film nel 1977, per la regia di John Flynn. Qui evidentemente il trauma della guerra del maggiore Charles Rane, che a inizio film torna a casa dopo sette anni di prigionia in Vietnam (presenza questa volta comprovata dai tanti flashback che gli fanno rivivere le torture), è ciò che determina il “problema” del personaggio nel presente della storia.
Il fatto è che il problema di Travis è di natura diversa. Lo dice lo stesso Schrader:
Il problema di Travis è lo stesso degli eroi esistenziali, vale a dire: perché esisto? Ma Travis non capisce che questo è il suo problema, così lo focalizza altrove: e io penso che ciò sia un segno dell’immaturità e dell’ingenuità “giovanile” del nostro paese. Noi non comprendiamo propriamente la natura del problema, cosicché l’impulso autodistruttivo, invece di essere rivolto all’interno di noi come avviene in Giappone, in Europa e in tutte le culture più antiche, si dirige verso l’esterno. […] Travis non è abbastanza intelligente da capire il suo problema. Dovrebbe uccidere se stesso invece di quelle altre persone. (Schrader in Thompson 1976, p. 11).
È nel rapporto con l’altro in quanto immagine distorta di sé che risiede il nodo irrisolto della deriva esistenziale di Travis, di un personaggio che non compie alcun arco di trasformazione e di superamento del proprio conflitto, e che forse prende coscienza del proprio problema quando ormai è troppo tardi (la celebre scena, nel finale, del dito puntato alla tempia a mo’ di pistola).
Ora, questo permette di inserire Travis Bickle all’interno di tutta una genealogia che trova in Ethan Edwards di Sentieri selvaggi (film di cui Taxi Driver ma anche Rolling Thunder non sono che due riscritture) il suo più diretto corrispettivo e l’archetipo dell’antieroe moderno. Sentieri selvaggi è il momento in cui l’epos lascia il posto al romanzo, in cui l’eroe non è più a rassomiglianza del mondo dell’epopea, chiuso e perfetto, in cui l’interiore e l’esteriore coincidono perfettamente, l’anima e l’azione fanno tutt’uno, ma entra in gioco il conflitto. Dall’odio verso gli indiani nel film di Ford a quello verso i neri in quello di Scorsese e Schrader (passando per i messicani in Rolling Thunder) il centro resta il percorso di un personaggio incapace di risolvere un conflitto che è primariamente interiore, ed entrambi diventano il racconto dell’impossibilità di ritrovare l’unità organica e la pienezza del mondo epico, l’impossibilità di accettare che la condizione intatta di partenza è perduta per sempre. Il primissimo piano degli occhi di Travis che riempiono lo schermo chiudendo circolarmente il film sono l’equivalente della porta che si chiude, ancora una volta circolarmente, alle spalle di Ethan, mentre si allontana claudicante lasciandosi dietro un interno nero: l’immagine perfetta di una luminosità ormai perduta.
Il 1976 è però anche l’anno in cui nelle sale esce Rocky, che nella serata dei premi Oscar dell’anno seguente strappa a Taxi Driver il premio per il miglior film. Ora, Taxi Driver e Rocky sono gli emblemi perfetti di due diverse idee di cinema e di due immagini dell’America (entrambe le vicende sono ambientate in momenti celebrativi della nazione americana: il Giorno del Ringraziamento e il bicentenario dell’America per Rocky e i giorni intorno al 4 Luglio per Taxi Driver).
Il vero motivo per cui oggi Rocky non potrebbe più avere lo stesso impatto che ebbe nel 1976 è che bisognerebbe essere passati per tutti i film cupi, impietosi, pessimisti e disperati dei primi anni Settanta per essere stesi dalla catarsi ottimistica di Rocky (Tarantino 2023, p. 330).
Se in Rocky si ritrova tutta la tradizione dell’epos, della rinascita del sogno americano attraverso la parabola esemplare di un working class hero (cfr. Glaviano, Masciullo, Volpi 2024) che ne incarna perfettamente i valori, Taxi Driver diventa al contrario l’emblema di un legame ormai spezzato con il mondo che si pensa di ricostruire attraverso la violenza e di un malessere che non affonda, banalmente, le radici in una causa originaria collocata nel suo passato, ma che è consustanziale al personaggio. Perché Travis non è mai stato in nessun cazzo di Vietnam.
Riferimenti bibliografici
Rocky. Analisi della sceneggiatura di Sylvester Stallone, a cura di G. Glaviano, P. Masciullo, G. Volpi, Dino Audino Editore, Roma 2024.
Q. Tarantino, Cinema Speculation, La nave di Teseo, Milano 2023.
R. Thompson, Screenwriter. Taxi Driver’s Paul Schrader, in “Film Comment”, n. 2, 1976.
Taxi Driver. Regia: Martin Scorsese; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia: Michael Chapman; montaggio: Marcia Lucas, Tom Rolf, Melvin Shapiro; interpreti: Robert De Niro, Jodie Foster, Albert Brooks, Harvey Keitel, Leonard Harris, Peter Boyle, Cybill Shepherd, Martin Scorsese; musiche: Bernard Herrmann; produzione: Columbia Pictures; origine: USA; durata: 114′; anno: 1976.