Come sarebbe stato Taxi Driver girato da De Palma, che è stato il primo a leggere la sceneggiatura di Paul Schrader? In cosa sarebbe stato diverso dal film di Martin Scorsese che conosciamo? Il film possibile vicino a quello reale, il film che non è stato fatto vicino a quello che è stato fatto. Il giudizio è sempre comparativo. E la comparazione non riguarda solo oggetti dati, ma anche oggetti possibili. Mettiamo sempre in atto una tale operazione comparativa giudicando un film, un’opera. Soltanto la lasciamo implicita.

Quentin Tarantino, nel saggio che dà il titolo al per molti versi sorprendente volume Cinema Speculation (ben tradotto da Alberto Pezzotta per La nave di Teseo), la rende, da artista e da creatore, esplicita e ci dice che «Il Taxi Driver di De Palma non sarebbe stato solo un thriller: sarebbe diventato un thriller politico (un po’ come Blow out)» (Tarantino 2023, p. 279). Un film mentale, dunque, in cui eventualmente rifare Hitchcock o il Repulsion di Polanski. Non certo il grande film d’azione e di vendetta, un remake di Sentieri selvaggi (The Searchers) di John Ford, com’è il film di Scorsese seguendo l’ispirazione di Schrader.

È all’interno di una genealogia tutta americana, incentrata sull’azione e la vendetta, e sul rapporto con l’“altro” (da indiano a nero), che va letto dunque il film di Scorsese. Mentre in De Palma avrebbe risuonato ancora una genealogia europea e inglese, la relazione mentale e la “fluidità visiva” di Hitchcock.

L’azione è dunque la questione centrale di tutto il grande cinema americano anni settanta, quello di cui parla Tarantino nel libro. L’azione è la questione americana da sempre e non solo in un’accezione generica, ma secondo una idea che il Pragmatismo americano (Peirce, James, Dewey) aveva già pensato: l’azione è l’approdo del pensiero e della parola. L’interpretante ultimo è un abito, dirà Peirce, cioè un’attitudine ad agire e a pensare.

Ciò che va pensato – ciò che un certo cinema pensa – attraverso l’azione non sono tanto i suoi ideali e la sua morale, ma i suoi effetti, la sua imputazione e la violenza che ne scaturisce contro se stessi (senso di colpa) e contro gli altri (vendetta).

I grandi film di cui parla Tarantino – da Bullit a Getaway (a cui l’edizione originale del libro dedica la copertina) a Fuga da Alcatraz a Daisy Miller – nei quali si respira un’aria incredibile di libertà, conquistata con i movimenti degli anni sessanta, hanno tutti al loro centro il destino violento dell’azione, il suo vincolo con il personaggio che la compie e con l’attore che lo incarna. Questo vincolo è indissolubile ed ha destini tragici, e dunque anche “catartici” (è chiaro fin da Aristotele), come ben dice Tarantino quando difende la violenza nei film da sguardi troppo moralisti, che cercano di inscriverla nella sanzione morale che lo spettatore apporrebbe opportunamente a ciò che vede. Moralismo incluso spesso nelle parole degli stessi registi che si giustificano: «Mai una volta che dicano che la violenza cinematografica è liberatoria» (ivi, p. 267).

Le parole che Tarantino dedica a personaggi ed attori, e al loro legame con la prassi, sono meravigliose. Anche quando questa prassi si fa letteralmente abito e stile: «Ma poi entra in scena il Frank Bullit di Steve McQueen. Gli spettatori lo vedono per la prima volta mentre si sveglia la mattina dopo essere andato a letto alle cinque. […] Bullit non ha una moglie insoddisfatta, ma una fidanzata molto soddisfatta e molto gnocca interpretata da Jacqueline Bisset. Quando lo si vede per la prima volta al lavoro, anche lui è in giacca e cravatta,  ma sono una giacca e cravatta che gli stanno da Dio» (ivi, p. 45).

In un certo senso, il personaggio che si manifesta nell’azione che compie deve tener conto dell’essere dell’attore che lo interpreta: «Se scrivi un film per McQueen – o per un qualunque attore, se è per questo –, devi sapere adattare il materiale di partenza alle sue possibilità. Anche se ciò viene a scapito della caratterizzazione del personaggio: ma devi evitare ciò che non consentirebbe all’attore di venir fuori nel modo migliore» (ivi, pp. 122-123).

E naturalmente l’essere dell’attore, il suo carattere, è determinato dai precedenti personaggi interpretati. Scegliere per i personaggi gli attori giusti è decisivo, ma per questi ultimi scegliere i personaggi giusti lo è di più. Nel primo caso puoi avere un film più o meno riuscito, nel secondo caso modelli diversamente il tuo essere. Proprio Tarantino, da regista, è stato capace dei recuperi più imprevisti di attori finiti fuori scena, rimodellando altrimenti il loro essere (esemplare il caso di John Travolta e Pam Grier).

Ma ciò che colpisce in Cinema Speculation è come Tarantino, formatosi esclusivamente attraverso il cinema, non solo action movies d’autore, ma anche film di serie b, film di exploitation ecc., dunque film senza necessità di mediazione critica, faccia attraversare le pagine del libro non solo dai ricorrenti riferimenti a Pauline Kael, ma dedichi un intero capitolo a Kevin Thomas, secondo critico del “Los Angeles Times”, rivendicandone l’importanza nella valorizzazione di un certo cinema (ha scoperto Jonathan Demme). Con ciò assegnando al discorso critico in genere non una funzione ancillare nel rapporto film-pubblico, ma per molti versi decisiva nell’attribuzione di un senso al film e all’esperienza cinematografica in genere.

La critica è una pratica tra le altre che svolge un ruolo importante di valorizzazione dei film, di costruzione di mappe interpretative (sia sincroniche che diacroniche) che ne favoriscono e arricchiscono la lettura, di formazione del gusto. Quel mondo che chiamiamo cinema trova nella critica un operatore di fondazione decisivo. E Tarantino col suo stesso libro ce lo mostra (e probabilmente ce lo mostrerà anche con il suo prossimo film, A Movie Critic).

Certo la critica non può essere dissociata dall’amore per il cinema. Ne scaturirebbe un discorso senza vita, come quello di alcuni critici che «guardavano dall’alto in basso film che davano delle emozioni e registi che, al contrario di loro, capivano che cosa voleva il pubblico […]. Oggi, più vecchio e più saggio, mi rendo conto quanto dovevano essere tristi. Scrivevano come uno che odia la propria vita, o almeno il proprio lavoro» (ivi, p. 166). In definitiva per Tarantino – come per Serge Daney – il critico deve essere un avvocato difensore più che un giudice dei film.

E – anche da grande lettore di critici cinematografici – Tarantino, qui diventato lui stesso a movie critic, parlandoci di quella generazione di cineasti che negli anni settanta si sono nutriti e formati con il cinema, i Movie Brats, costruisce in un modo specificatamente americano il suo discorso appassionato su quel mondo condiviso che chiamiamo cinema. E ci dice che in definitiva nei grandi artisti non c’è mai soluzione di continuità tra il fare cinema e il parlare di cinema.

Quentin Tarantino, Cinema Speculation, La nave di Teseo, Milano 2023.

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