Gilles Deleuze
Quarto potere (Welles, 1941).

Un giorno il secolo sarà deleuziano, diceva Foucault. Profezia che si è avverata forse fin troppo bene! Per un verso le analisi de L’anti-Edipo e di Mille piani sono gli strumenti concettuali più efficaci per capire che cosa è in gioco qui e ora, nell’età del mercato, delle forze produttive scatenate e della rete. È vero, però, che nel panorama intellettuale degli ultimi vent’anni ci sono pochi filosofi osteggiati più di Deleuze. Se è molto simpatico agli studenti, che a tutta briglia vogliono scrivere tesi di laurea e di dottorato su di lui, risulta parecchio antipatico ai professori dell’onda neoconservatrice cavalcata, per esempio, da Žižek e da chi è convinto che Deleuze è l’autore di libri “pessimi”, proprio nel senso che Lacan dava all’aggettivo, perché messo di fronte alla scelta: le père ou le pire, Deleuze non sceglie il padre. La stessa scelta del bambino che non vuole diventare adulto. Ma anche del bambino “vecchio”, nato alla fine della nostra epoca, che si mette a giocare dopo essere stato cammello, leone e aver limato i denti al drago del tu-devi, che non riconosce nessun paradigma o principio dell’azione, si comporta come la physis an-archica dei filosofi preplatonici, come la rosa di Silesius che fiorisce senza un perché. Decisamente troppo per gli avveduti professori – un poco psicanalisti, un poco stalinisti – che si preoccupano di fare diga contro la marea del “desiderio mercificato” e i suoi flussi, vogliono rintuzzare la peste del “tardo capitalismo”. Troppa imprudenza per il buon senso del “non-solo-ma-anche”, “da-una-parte-dall’altra”, che passa il giorno a guardarsi i lacci delle scarpe e fa gli scongiuri perché ogni pietra lanciata in alto prima o poi ricada. Deleuze, invece, è come Alex DeLarge: addio forza di gravità! Nel suo gergo vorrebbe dire: tracciare una “linea di fuga”, anche al cinema.

C’è un libro di Deleuze, però, che raccoglie soltanto consensi e plauso, un libro che sembra fatto apposta per piacere, quello in due volumi sul cinema: L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, usciti in Francia nel 1983-85 e pochissimo tempo dopo in traduzione italiana per Ubulibri. Adesso Einaudi li ha ripubblicati. Deleuze non ha scritto uno studio sulla storia del cinema, ma “una tassonomia, un tentativo di classificazione delle immagini e dei segni” (L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, 2016, p. 3), il cui immediato precedente è la semiotica di Peirce.

Il cinema pensa e fa pensare. I suoi strumenti non sono i concetti, ma le immagini: principalmente l’immagine-movimento (nel cinema “classico”, prima della nouvelle vague) e l’immagine-tempo (nel cinema che viene dopo Godard). La cinematografica capacità di pensare va alle “cose stesse”. È un pensiero concreto. Le immagini sono le cose. Per Deleuze non ci sono da una parte la realtà, dall’altra le immagini. Da una parte l’esperienza, dall’altra le condizioni di possibilità dell’esperienza. Da una parte il dentro, dall’altra il fuori. C’è un unico piano empirico-trascendentale dell’esperienza, le cui due metà si abbattono l’una sull’altra. Lo sforzo del pensiero è di mettere a fuoco la soglia dell’abbattimento reciproco. Per fare questo, non dobbiamo servirci solo dei concetti, ma anche delle immagini cinematografiche.

Il sofista che il filosofo Deleuze convoca all’inizio de L’immagine-movimento per rivaleggiare e contendere, è il fenomenologo. Husserl pensa che le “cose stesse” non sono le cose, le cose-immagini, il mondo, ma la soggettività dell’Io-esperisco, l’Io-posso della coscienza umana. Così facendo, sollevando la cosa-coscienza sopra l’enticità delle cose-senza-coscienza, la fenomenologia scambia l’essere con un ente. Invece, per Deleuze, l’essere non può mai coincidere con una cosa isolata, neppure con la coscienza umana. L’essere è un piano anonimo su cui le cose coscienti e le incoscienti, le immagini percepienti e quelle percepite, le immagini “corporeizzate” e quelle che fluttuano libere, s’incontrano senza che nessuna riesca ad accaparrarsi la proprietà del piano, perché il piano non è Ego, ma un impersonale Es. (È chiaramente un Husserl testa di turco quello dei volumi sul cinema, Husserl filosofo trascendentale che scrive il primo libro delle Idee e le Meditazioni cartesiane. Non l’Husserl ben più avventuroso che fa lezione sui dati iletici, il tempo, la cosa e lo spazio, che chiama la coscienza “pensiero di nessuno” e Nirgendheim, terra incognita tutt’altro che “umana”, spazio desertico in cui nessun individuo può mettere piede, e le cui sintesi “passive” – che hanno ben poco di egoico – funzionano un po’ come i concatenamenti macchinici che Deleuze scopre e mette a punto nella sua critica all’edipismo – cioè l’umanismo – della metafisica).

Il cinema è lo strumento di un pensiero anti-fenomenologico e immanentistico in cui l’alto e il basso, il passato e il presente, la coscienza e l’oggetto non si differenziano in modo netto. Non perché tutto precipita nell’abisso nero dell’indistinto. Ma perché l’un lato e l’altro dell’esperienza si in-distinguono proprio mentre differiscono: si danno il cambio, si avviticchiano come piante rampicanti, e in questo avviticchiarsi producono qualche cosa di nuovo. Deleuze lo dice chiaramente quando – nel capitolo IV del secondo volume – parla dell’immagine cristallo, che è forse l’immagine-tempo più interessante, comunque quella che attira più facilmente l’attenzione del lettore.

Un esempio cinematografico di immagine cristallo è la profondità di campo, che permette di raccontare storie diverse nella stessa inquadratura. In primo piano agisce ciò che fa avanzare l’intreccio: è il registro dell’attualità e dell’efficacia. Sullo sfondo, invece, si svolge l’azione “inutile” che appartiene al registro della virtualità. Il “cristallo” sarebbe il bordo su cui l’una azione si abbatte sull’altra. Le due azioni si inseguono “senza posa, correndo l’una dietro all’altra e rinviando l’una all’altra attorno a un punto di indiscernibilità, cioè la coalescenza tra immagine attuale e immagine virtuale, l’immagine a due facce, attuale  e virtuale insieme. […] L’immagine ottica attuale si cristallizza con la propria immagine virtuale” (L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, 2017, p. 82). Questa particolare immagine-tempo “non sopprime la distinzione delle due facce, ma la rende indefinibile, poiché ogni faccia assume il ruolo dell’altra, in una relazione che si può definire di presupposizione reciproca, o di reversibilità” (p. 83).

L’immagine cristallo dà a vedere “il tempo in persona”, “un frammento di tempo allo stato puro” (p. 97). La collisione tra il presente e il passato, l’attuale e il virtuale, produce il futuro, il novum, il registro dell’intensità che tiene sotto schiaffo gli altri due. “Futuro” che dà da pensare, è già pensiero: il pensiero della massima univocità esperienziale, perché, nell’immagine cristallo, l’ontico-attuale diventa equipotente dell’ontologico-virtuale. Il dispositivo cinematografico della differenza – invece di divaricare i termini in modo netto, come accade nella fenomenologia – funziona come il turbine della presupposizione reciproca che spacca e riconfigura i presupposti. Con l’immagine cristallo Deleuze dà una patente di dignità “estetica” alla terza sintesi del tempo di Differenza e ripetizione: lo sparagmòs di un soggetto fatto “in mille pezzi come se il portatore del nuovo mondo fosse trascinato e disperso dallo scoppio di ciò che dà vita alla molteplicità” (Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, 1997, p. 120).

Non sembra, ma l’immagine cristallo è uno spettacolo violento: il corpo virtual-attuale dell’immagine subisce l’emorragia dell’intensità, ed è questo che seduce lo spettatore-filosofo. Con il saggio sul cinema, Deleuze è riuscito a far transitare in modo clandestino il suo delirio concettuale. La rassicurante “immagine cristallo” rende digeribile anche agli stomaci più delicati il tossico dell’intensità. Il “peggio” di Deleuze, infatti, è l’intensità esperienziale sganciata da ogni riferimento all’attualità ontica ma anche alla virtualità ontologica: uno spazio fatto di linee di fuga, senza nessun addensamento, senza “cose”, fatto di movimenti metamorfici, una macchina da guerra incapace di abitare la terra, ma soltanto lo spazio aperto del mare e i cieli, già in predicato di farsi forma di vita fascistoide, vittima del proprio entusiasmo incendiario.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.

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