Cos’è quel ritornello ludico ed enigmatico posto al cuore e nel titolo di Chi ha paura di Virginia Woolf? Che ricorre dall’inizio alla fine del dramma di grande successo di Edward Albee del 1962? Un ritornello, quasi una formula, che sospende l’orizzontalità dell’asse comunicativo, dove l’uso del linguaggio prende la forma di un abuso, di una provocazione e di una violenza costanti che si esercitano tra i due coniugi, George e Martha, per una intera notte.  

Tornando dalla festa del padre di lei, rettore di uno “small New England college” dove George insegna, i due coniugi continuano in una reciproca aggressione verbale, coinvolgendo anche la giovane coppia invitata da Martha, Nick, collega di George, e la moglie Honey. Il tutto accompagnato peraltro da un consumo consistente di alcool. E dove l’atto di parola emerge solo come provocazione e ferimento dell’altro.

Il ritornello, composto da un gioco di parole che punteggia anche lo spettacolo che Antonio Latella ne ha tratto (passato all’Argentina di Roma e ancora in tournée), determina un vuoto nel linguaggio e nella relazione tra i personaggi. Il ritornello è una formula ritmica che sottrae il soggetto all’espressione immediata di sentimenti ed idee, e lo istituisce come effetto di un dispositivo iterativo e ludico. Il ritornello nasce dalla paura, di morire e dunque di vivere, che nel ritornare della parola ritmica ed intransitiva si placa. Come è evidente in un gioco per bambini, chiaro in inglese nell’assonanza tra “Who’s Afraid of the Big Bad Wolf?” e “Who’s Afraid of Virginia Woolf”? Il ritornello è la formula che interrompe il circuito comunicativo, mettendo al centro della scena una sospensione, alla violenza della parola e alla violenza della necessità della parola.

All’acme dell’aggressione tra i due coniugi scatta il girotondo ludico, evidente anche nel film di Mike Nichols del 1966, quando George (Richard Burton), al culmine di una discussione con Martha (Liz Taylor), prende le mani di Honey e insieme cominciano a girare in tondo come due bambini cantando il ritornello. Sulla scena dello spettacolo di Latella si manifesta tutto questo, l’infanzia perenne in cui si trova la coppia adulta, incapace di generare alcunché, né figli né vita insieme

Condotti all’elusione sistematica di ogni principio di realtà, i due coniugi maturi proiettano sulla giovane coppia la loro relazione segnata da conflittualità strutturale. George e Martha vivono esclusivamente lo spazio di tale aggressione, perché abitano la bolla di una illusione narcisistica che proietta l’inesistente nella vita. E cioè la presenza di un figlio mai avuto e che vive solo in un mondo meramente illusorio, a cui marito e moglie hanno deciso di dare vita oramai da tempo.

Una vita puramente immaginaria, in cui la coppia matura include quella giovane nella quale si vede specularmente riflessa. E anche questa è segnata dall’ipoteca di una gravidanza non realizzata. Gravidanza isterica che li porta al matrimonio. Nick deciderà infatti di sposare Honey con la pancia gonfia, prima di ritrovarsela sgonfiata: “puff”.

Nel chiuso di una stanza, nella continuità temporale di una notte, nel carattere astratto e quasi allucinatorio di una scenografia che vede in scena pochi elementi, poltrona, pianoforte e armadio a due ante (una delle quali indica una porta che si apre sul fuori), George e Martha, Nick e Honey, restituiscono nello spazio finito della scena una dinamica di forze che di fatto trasforma i personaggi in mere funzioni, agenti di tali forze

I personaggi entrano in un processo strutturalmente iterativo, restando alla fine quello che erano all’inizio. Nell’illusione condivisa la coppia è paralizzata: incapace sia di dividersi che di amarsi, sia di accedere al tragico-melodrammatico, per la forma aporetica in cui prende corpo il maternal melodramma con la presenza di un figlio inventato e condiviso segretamente da entrambi i genitori, sia di accedere al commedico attraverso una discussione che aprirebbe ad una ripresa dopo la crisi coniugale.

Niente di tutto questo, la potenza del testo, restituita da Latella con una forza che ne coglie tutta la profonda struttura astratta e rituale, rinunciando ad ogni dimensione psico-sociale (presente invece nel film di Nichols), ci mostra un gioco distruttivo sempre più radicale e convulsivo. Dove l’infantilismo dei personaggi si rende icastico nell’iterarsi del ritornello che sospende l’illusione senza ancora arrivare alla verità: «Truth and illusion, George; you don’t know the difference» (Albee 2001, p. 108). Ma lì nessuno sembra sapere la differenza e tutti, abitando l’illusione e incapaci di passare alla realtà, diventano prigionieri feroci di un tale stato, nel quale possono crescere solo ferite ed aggressioni.

Un gioco al massacro che un passaggio alla realtà sospenderebbe. Questo passaggio alla realtà – «From illusion to reality» direbbe Northrop Frye (1990, p. 169) – definisce sempre la commedia, e il suo happy end. Ma il massimo di distensione che il dramma ci consente è l’«esorcismo» – come titola il terzo atto – del finale, dopo il secondo momento che ha definito lo sparpagliamento caotico del corpo della piccola comunità di illusi feroci. L’illusione più radicale viene espunta, il figlio inventato viene fatto morire, la crisi convulsiva finisce, e arriva dopo l’acme la sedazione:  

George: “It will be better”

Martha: “I don’t… know”

George: “It will be … maybe”

Martha: “I’m … not…sure” (Albee 2001, p. 128)

E finalmente abbiamo nell’ultima battuta il riconoscimento della paura, dove il ritornello questa volta torna accompagnando lo svelamento della realtà. La paura diffusa ovunque, totale, ma nascosta al soggetto stesso e convertita in aggressione, viene ritualmente riconosciuta e dunque espunta, escludendo ancora una volta ogni dimensione psicologica:

George: “Who’s afraid of Virginia Woolf…”

Martha: “I…am…George…I…am…” (Ibidem)

La grande originalità della messa in scena di Latella è di aver sentito e percepito la dimensione schematico-rituale del dramma di Albee, liberandolo da ogni vincolo realistico (l’alcool onnipresente nel dramma, nello spettacolo è più enunciato che visto). E dunque anche da ogni rimando al film di Nichols. Nello spettacolo semmai risuonano momenti allucinatori e cromatismi più vicini a David Lynch. 

E questa dimensione rituale è restituita con grande forza dai personaggi, a partire dalla coppia protagonista, e dagli attori che la interpretano: dall’isterismo convulso di Martha, a cui dà vita una brava Sonia Bergamasco, alla compattezza nevrotica e raggelante del corpo e dei movimenti di George, interpretato da uno straordinario Vinicio Marchioni. Se la prima porta i contrassegni della crisi, e quindi porta con sé ancora tracce di un reale che la segnano nei movimenti in scena caratterizzati da sbandamento fisico e morale, George ha la compattezza controllata dell’officiante, di chi guiderà l’uscita dalla gabbia dell’illusione e dal perimetro di uno stato sempre più convulsivo.

La forza dello spettacolo di Latella sta nell’aver tradotto sulla scena quello che è il proprio del tragico in generale, e della sua conversione nel basso-mimetico novecentesco (con protagonisti non più re, ma gente come noi), cioè l’essere la dimensione estetica e narrativa di un dispositivo rituale. Questa è la forza del dramma di Albee – e dello spettacolo di Latella – e in generale della grande tradizione letteraria americana, più orientata verso l’astrazione e la simbolizzazione che il realismo del novel. E per fare questo nulla di meglio che immaginare come intermediari due personaggi che del distacco dalla realtà hanno fatto la loro condizione di esistenza. Questo ha permesso ad Albee di creare il suo dispositivo drammaturgico nel ritmo ternario del rito esorcistico e a Latella di procedere con uno spettacolo notevole di formalizzazione sospesa e allucinata.

Riferimenti bibliografici
E. Albee, Who’s Afraid of Virgina Woolf, Vintage Classics, London 2001.
N. Frye, Anatomy of Criticism, Princeton University Press, Princeton 1990.

Foto di Brunella Giulivo.

Chi ha paura di Virginia Woolf?. Regia: Antonio Latella; testo: Edward Albee; interpreti: Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni, Paola Giannini; produzione: Teatro Stabile dell’Umbria, Fondazione Brunello; durata: 180′; anno: 2023.

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