Mille pagine, quindici interviste ad altrettanti importanti registi hollywoodiani, un numero sterminato di aneddoti e retroscena, una restituzione storica del cinema come esperienza di vita, ma anche l’autoritratto di un regista cinefilo: tutto questo in un libro letteralmente monumentale, Chi diavolo ha fatto quel film?, pubblicato nel 1997 negli Stati Uniti, uscito in edizione italiana dalla casa Editrice Fandango nel 2010, e ora ripresentato meritoriamente ai lettori italiani da La nave di Teseo a due anni dalla scomparsa di Peter Bodganovich. Da mettere accanto ai classici dell’intervista fra cineasti (Hitchcock e Truffaut, Bergman e Assayas, Billy Wilder e Cameron Crowe, ovviamente Bodganovich e Orson Welles), il volume di Bodganovich in fondo li contiene e li riassume tutti, per ampiezza di sguardo, profondità di analisi e autenticità di sentimenti per l’arte del cinema.

Di certo, un volume che raccoglie conversazioni di varia estensione con registi che vanno da Fritz Lang ad Alfred Hitchcock, da Howard Hawks a Don Siegel, ha bisogno di una chiave di lettura. A fornircela è l’autore stesso, che in apertura dichiara: «Se mai è esistito un libro da sfogliare a pezzi e bocconi, è questo; ma qualche lettore può aver voglia di leggerlo dal principio, ed è per lui che il libro è costruito». In questo senso, Chi diavolo ha fatto quel film? letto dall’inizio alla fine è una storia del cinema hollywoodiano classico raccontata da chi l’ha vissuta: le conversazioni sono presentate in ordine di data di nascita del regista intervistato, per cui si va dal più anziano, Allan Dwan (1885), al più giovane, Sidney Lumet (1924); ogni conversazione è introdotta non soltanto da un profilo critico dell’interlocutore, ma anche da un’attenta autocontestualizzazione di Bogdanovich al momento del colloquio. Ne emerge una grande storia di cui il cineasta intervistatore vuole far parte non per risaltare come individuo, ma per sostenere una tesi sull’arte cinematografica: il film ha un autore unico (il regista); tutti gli autori unici fanno parte di una comunità che trasferisce il sapere e il saper fare alla generazione successiva.

La prima parte della tesi ha origine dalla viscerale adesione di Bogdanovich alla politique des auteurs importata negli Stati Uniti da Eugene Archer e Andrew Sarris all’inizio degli anni sessanta: il cinema è un’arte individuale e il nome proprio che firma l’opera ne è letteralmente l’autore, «perché in tutti i film che mi sono piaciuti», dice Bogdanovich, «si sente sempre la visione di un artista, la traccia della presenza del regista, all’interno e all’esterno delle inquadrature, […] si riconosce questa impronta personale da un film all’altro, come si riconosce la mano di un pittore in tutti i suoi quadri». Il titolo del libro assume dunque un carattere programmatico: è una frase estrapolata dalla lunghissima intervista a Hawks, che per rispondere alla domanda su quali registi preferisce, risponde che gli piacciono i registi «che ti fanno capire chi diavolo ha fatto quel film». Venendo alla seconda parte della tesi, per Bogdanovich gli autori cinematografici non sono artisti che reinventano la forma in opposizione ai predecessori, perché «nelle arti c’è una sostanziale continuità, una staffetta nella quale si passa il testimone da un corridore all’altro».

L’attenzione del lettore è allora sempre oscillante tra l’intervistato e l’intervistatore, tra le vite dei più eccellenti cineasti e il cinema stesso come prassi che, indirizzata da un sistema industriale a raccontare grandi storie per il pubblico, lascia tracce indelebili, idiosincratiche del nome proprio di ogni realizzatore. Le storie dei quindici registi sono tutte diverse e però tutte uguali, ciascuno di loro vive le fasi alterne del successo e dell’insuccesso, della fortuna e della sfortuna, proprio come nella struttura aristotelica che genera la forma hollywoodiana. Le domande sono inesorabili, perché l’intervistatore fa parte della stessa comunità dell’intervistato, ne condivide la stessa sorte, nel bene e nel male; allora Bogdanovich può chiedere ad Howard Hawks perché Il magnifico scherzo sia stato un flop, e Hawks può rispondere senza giri di parole: «Secondo me la premessa non era completamente credibile, e per questo il film non è risultato comico come avrebbe dovuto».

Non c’è soltanto il set, nelle vite di questi grandi artisti, ma tutto ciò che sta intorno al set, inclusa la storia del XX secolo; come quando Fritz Lang racconta: «Dopo La confessione della signora Doyle non mi hanno più offerto nessun lavoro, neanche Howard Hughes che, attraverso un intermediario, mi aveva promesso Dio, il mondo e tutto il tesoro di Golconda. Ero fuori gioco, e non sapevo nemmeno perché. Finalmente scoprii che c’erano delle liste fatte da un tizio – non ricordo il nome – e che, a causa dei miei rapporti con certe persone, su una di quelle liste c’era anche il mio nome». Praticamente il Maccartismo in cinque righe, con tanto di damnatio memoriae. Ma in Chi diavolo ha fatto quel film? c’è soprattutto il senso dello stile, del perché si fa una cosa e non un’altra, la capacità di decidere che è il pilastro dell’author theory. Sentiamo Howard Hawks: «A me non piacciono i primi piani, a meno che non diano una grande emozione, a meno che non ce ne sia bisogno. Se riesci a comunicare l’atmosfera emotiva di una scena con gli atteggiamenti e le posizioni dell’inquadratura, secondo me è meglio usare il primo piano solo quando si vuole dare una fortissima accentuazione. […] Si usa al risparmio, non come in tv, dove è tutto un primo piano».

Ma proprio sulla televisione arriva una delle più sorprendenti intuizioni tra le innumerevoli disseminate per le mille pagine del libro-testamento di Peter Bogdanovich; a parlare è Allan Dwan, un uomo nato nello stesso anno dell’invenzione del cinematografo, il regista preferito di Gloria Swanson, l’autore del primo Robin Hood con Douglas Fairbanks: «Secondo me», dice Dwan nel 1970, «per la tv si possono fare cose altrettanto buone che per il grande schermo, se solo si lavora consapevolmente nei suoi limiti. Ma bisogna che arrivi la tv a pagamento. Dopo di che, si potranno pensare per il piccolo schermo anche le produzioni più impegnative. Potranno essere i film migliori di sempre, perché sarà possibile investirci più soldi, visto il rientro economico».

Ecco allora che il libro di Bogdanovich ci appare non tanto e non solo una potente macchina del tempo (e della nostalgia) per incontrare i più nobili fantasmi di Hollywood e leggere le risposte alle domande che tutti hanno sognato almeno una volta di poter fare; è un libro sul cinema del passato ma anche del presente, sulla sua importanza nelle nostre vite, sull’idea probabilmente consolatoria ma efficace che dietro il velo delle immagini si intraveda la sagoma della persona che le ha prodotte.

Peter Bogdanovich, Chi diavolo ha fatto quel film?, La nave di Teseo, Milano 2024.

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