“Tennis is a relationship”. Su questa dichiarazione d’intenti, messa sulla bocca di Zendaya, Luca Guadagnino costruisce il suo ultimo film “americano”. Challengers, la cui anteprima era stata annunciata in apertura all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, poi spostata a causa dello sciopero degli attori di Hollywood, si presenta apparentemente come un film sportivo. Ma già dalle prime immagini capiamo che c’è qualcosa di molto più complesso.

Un ralenti sui volti sotto sforzo di tre tennisti – Tashi (Zendaya), Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor) – rievoca da subito il finale opalescente e così terribilmente flou de Il giardino dei Finzi Contini (De Sica, 1970), dove Micol (Dominique Sanda), Alberto (Helmut Berger) e Giampiero (Fabio Testi) giocano a tennis sorridenti, nel giardino ormai chiuso di casa Finzi Contini. Quel triangolo già queer incastonato dentro il trauma storico per eccellenza viene, così, rinegoziato da Guadagnino in un opening che è già un manifesto. Tashi, Art e Patrick sono i soggetti in campo di un triangolo amoroso, amicale, emozionale che utilizza la metafora della sfida sportiva: i challengers, gli sfidanti, sono anche i duellanti di un triello relazionale configurato dentro quella stessa ibridazione dei generi che caratterizza tutto l’ultimo cinema di Guadagnino.

Abbiamo, come detto, il genere sportivo, riletto sia alla luce del film di formazione, ma anche del triangolo amoroso tipico di tanti melodrammi o commedie romantiche. Guadagnino opera la maggiore destrutturazione proprio nei territori del coming-of-age, sottolineando il convitato di pietra del teen movie americano: il sottotesto omosessuale che sorregge le relazioni tra i maschi adolescenti in campo, ossessionati nel manifestare la propria mascolinità in crisi di fronte all’oggettificazione sessuale del corpo femminile. Pensiamo, a titolo di esempio, a un film come Superbad (Mottola, 2007), manifesto del coming-of-age americano contemporaneo, opera seminale nel promuovere la factory che si costruirà, di lì a poco, attorno a figure creative come Judd Apatow, Seth Rogen ed Evan Goldberg.

Se Guadagnino porta a galla tutta quella queerness inespressa del teen movie americano, in contrappunto alle recenti tendenze globali del queer movie (divenuto un vero e proprio genere) dove tutto è visibile, decide invece di adottare uno sguardo voyeuristico: allineandosi al punto di vista femminile di Tashi, che osserva, desidera e attende (seduta sul letto o sugli spalti) che la relazione omosessuale tra i due maschi si manifesti ed esploda in tutta la sua carica erotico-sessuale; lavorando sul fuori campo, i non detti, le aspettative spettatoriali, e dunque promuovendo un’alleanza tra il suo punto di vista, quello della sua protagonista, e ciò che immagina (e intimamente vorrebbe) lo spettatore; costruendo, infine, una dinamica relazionale ibrida a metà tra Truffaut – come non pensare a Jules e Jim (1962)? – e, per forza di cose, il Bertolucci di The Dreamers (2003).

Nel rileggere il film sportivo in chiave emozionale (il tennis come esperienza erotica, più che religiosa), Guadagnino finisce per ibridare tutti i generi messi in campo tramite riferimenti sia al cinema del passato che a quello contemporaneo, così come al cinema d’autore e, insieme, a quello più commerciale. Tenendo insieme, in un’operazione ambiziosissima, De Sica, Truffaut e Bertolucci con Mottola e Apatow. In tale operazione di queerizzazione dei generi la dimensione transnazionale emerge in tutta la vocazione globale del suo cinema.

La colonna sonora originale firmata da Trent Reznor, ex-leader dei Nine Inch Nails, ormai frequentatore assiduo del cinema d’autore contemporaneo (Lynch, Fincher, Bier, e già Guadagnino in Bones and All), compie un’ulteriore operazione intertestuale. Le note elettro-disco delle tracce di Reznor si sovrappongo ai dialoghi dei personaggi nei momenti più emotivi del film: il suono ridondante della cassa richiama sì i battiti cardiaci, ma si sostituisce alle musiche suadenti di Frank Sinner che musicavano le scene dialogate di tanti melodrammi di Douglas Sirk. Anche attraverso l’utilizzo della musica, la riscrittura operata sui generi classici è costantemente determinata da un punto di vista autoriale che, ricostruendo un arcipelago di referenze al cinema del passato, finisce per far dialogare, in una continua tensione emotiva, e dunque cinematografica, alto e basso.

Anche nella messa in scena, Guadagnino alterna le forme del classico e del moderno: i primi piani del melodramma assieme agli allungamenti dell’inquadratura di certo cinema francese. Nel decostruire la linguistica del film sportivo dentro il campo da gioco, utilizza ralenti dalla lentezza quasi irragionevole, alternandoli a tanta macchina a mano, inquadrature dall’alto (droni?), perfino a un paio di soggettive della pallina da tennis. Ancora una volta, il cinema di Guadagnino sembra per sua stessa natura costantemente proiettato verso la ricerca di un’imprevedibilità dentro quei processi di accumulazione su cui il sistema dei generi si fonda storicamente. Con un paradosso: l’utilizzo programmatico di quell’intertestualità, propriamente tipica dei film di genere, finisce per liberare il suo cinema da qualsiasi ripiegamento interno o schema precostituito, rilanciandolo in un universo globale di significati.

Dentro una complessa articolazione narrativa in continua tensione tra flashback e flashforward, architettata dallo sceneggiatore Justin Kuritzkes (marito di Celine Song, autrice dell’altro triangolo cinematografico dell’anno Past Lives), Guadagnino disegna i corpi dei suoi personaggi maschili a partire da un evidente conflitto: la muscolatura statuaria e neoclassica di un campione come Art, plasmata negli anni da Tashi, contro quella più autentica e umana di Patrick, su cui pesano tutte le aspettative disattese di una carriera indirizzata inesorabilmente verso il fallimento. Tashi, al centro di questo equilibrio (il desiderio dell’incontro tra l’uno e l’altro, e dunque la ricerca della perfezione), porta nella sua corporeità longilinea l’evidenza cronenberghiana delle ferite del passato, sopra e dentro un ginocchio martoriato, ricostruito, ormai inservibile. Nell’interpretare il personaggio forse più complesso e riuscito della sua pur breve carriera, Zendaya si fa eterea, vacua, quasi rarefatta. Ricorda, per certi versi, l’eleganza art-nouveau e androgina di Tilda Swinton nei primi film di Guadagnino. La sua bellezza impura e inafferrabile ha qualcosa di quelle grandi star hollywoodiane, i cui corpi fluttuanti diventano soggetti camp indipendenti e impossibili da oggettivare o sessualizzare. Dopo essere stata a lungo osservata, è proprio Tashi a voler rivendicare la propria agency di osservante. Ed è probabilmente in quell’abbraccio finale, visto attraverso i suoi occhi, che sta tutta la potenza del desiderio di uno sguardo.

Challengers. Regia: Luca Guadagnino; sceneggiatura: Justin Kuritzkes; fotografia: Sayombhu Mukdeeprom; montaggio: Marco Costa; musiche: Trent Reznor, Atticus Ross; interpreti: Zendaya, Josh O’Connor, Mike Faist; produzione: Metro-Goldwyn-Mayer, Pascal Pictures; distribuzione: Warner Bros; origine: Stati Uniti d’America; durata: 131’; anno: 2024.

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