Dopo Suspiria, Luca Guadagnino torna a indagare il genere horror, qui ibridato da un racconto di formazione nel mondo cannibale. Bones and all, la cui traduzione letterale sarebbe «fino all’osso», è ciò che si potrebbe definire un road movie di transizione. C’è il racconto dell’improvvisa metamorfosi di Maren (Taylor Russell) da adolescente a donna, dell’incapacità di reprimere le proprie deviazioni-devianze dai binari della normatività. L’incontro con Lee (Timothée Chalamet, ormai incastonato nella sua stessa icona), con cui condivide la condizione di fluidità tra umano e cannibale, l’aiuta a riconoscere e accettare la propria alterità, a ritrovare sé stessa nello sguardo (e nell’amore) dell’altro. Insieme intraprendono un viaggio nei territori dell’America profonda, che è anche quella dei generi cinematografici, i cui stereotipi vengono continuamente interrogati e ribaltati.

C’è, anzitutto, il cannibal movie di Deodato e D’Amato, riadattato a un dispositivo autoriale e produttivo di alto livello, con l’aggiunta di un profondo ragionamento sul fuori campo. Guadagnino non abbandona alcuno spazio dentro l’inquadratura alla brutalità animalesca degli atti di antropofagia che non-rappresenta, lasciando più campo possibile all’umanità dei suoi personaggi, che ama visceralmente attraverso la macchina da presa. Come contraltare, lascia tantissimo spazio alle discussioni sull’odore, quasi suggerendo allo spettatore di dover sviluppare altri sensi (e dunque altri livelli interpretativi?), oltre la vista, per entrare davvero all’interno del film. C’è, come detto, il road movie libertario alla Gangster Story /Badlands, dove la fuga dei due giovani personaggi innamorati che lasciano dietro di loro una scia di violenza (qui necessaria al nutrimento) viene interrotta da un tentativo di  provare a integrarsi nella società («Let’s do people», si dicono prima di fermarsi e provare una vita “normale”). Ci sono, infine, le declinazioni più autoriali dell’horror europeo contemporaneo, dove lo Zombi Child di Bertrand Bonello incontra la dialettica umano/non umano dei vampiri di Lasciami entrare. E c’è anche, letteralmente, David Gordon Green.

In questo gioco di referenze mai veramente kitsch e postmoderne, ma continuamente ribaltate, riadattate, rilanciate, Guadagnino trova con coraggio e autonomia autoriale la sua strada: i mutamenti interiori ed esteriori, nelle menti e nei corpi dei due ragazzi in fuga (da loro stessi, dalla propria condizione di marginalità, dalla necessità di sopravvivere), lo stesso coming-of-age di Maren che si conclude in una catarsi antropofaga («I want you to love me and eat me, bones and all»), diventano allegorie di una queerness che include e legittima ogni opzione possibile: perché dover scegliere tra umani o cannibali se si è, se ci si sente, entrambi? Perché dover accettare la condizione di marginalità e di eterno nomadismo che la società ha riservato per loro, rinunciando a essere sé stessi? Ma soprattutto, perché dover rinunciare a mangiare ciò di cui siamo fatti, la carne umana, per continuare a vivere e amare?

L’utilizzo della macchina da presa è, in questo senso, funzionale al medesimo obiettivo: movimenti fluidi, tanta macchina a mano, ma soprattutto inquadrature riempite da volti, corpi e carni dei personaggi lasciano, stavolta, poco spazio a qualsiasi orpello estetico, alla smania di controllare gli spazi che spesso caratterizza la cifra stilistica dell’autore palermitano. È un Guadagnino più contenuto del solito, che riparte più dalla sua stessa serie We Are Who We Are (dove, non a caso, con un dispositivo narrativo più articolato dimostra meno ansia di sovraccaricare le immagini) che al barocchismo bertolucciano, da molti giudicato eccessivo, dei suoi primi film. Le musiche originali di Trent Reznor, che richiamano le atmosfere rarefatte da America rurale, un po’ folk e un po’ Lynch (e viene subito in mente il lavoro straordinario di Badalamenti in The Straight Story), sono ibridate dalla colonna sonora non originale. Grazie all’utilizzo di spezzoni dei Joy Division e dei New Order, Guadagnino costruisce momenti di rara potenza visiva ed emotiva, in cui prende in prestito quei paesaggi infiniti di Easy Rider e li aggiorna, di qualche anno, alla scena post-punk e new wave degli anni ottanta.

Sono proprio le musiche non originali a suggerire una collocazione temporale al film, mai esplicitata fino in fondo (a parte un flebile riferimento alla campagna presidenziale Reagan-Bush del 1984). Potrebbero essere gli ottanta, insomma, ma questo non ha importanza. Ciò che conta è che Guadagnino, a oggi e senza Bertolucci, è forse il regista italiano che riesce a raccontare meglio di chiunque altro il desiderio, a rappresentare l’amore senza essere mai pornografico, amando sinceramente, con romanticismo e tanta passione, i suoi personaggi, e dunque il cinema che li costruisce, «fino all’osso».

Bones and All. Regia: Luca Guadagnino; sceneggiatura: David Kajganich; interpreti: Taylor Russell, Timothée Chalamet, Mark Rylance, André Holland, Chloë Sevigny, Jessica Harper, David Gordon Green, Michael Stuhlbarg, Jake Horowitz; produzione: Frenesy Film Company, Per Capita Productions, The Apartment Pictures, MeMo Films, 3MARYS, Dave Kajganich, Marco Morabito, Peter Spears, Timothée Chalamet; origine: USA; durata: 130′; anno: 2022.

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