L’esistenza di Mickey Mouse è un tale sogno dell’uomo di oggi.
Quest’esistenza è piena di meraviglie,
che non solo superano quelle della tecnologia,
ma si prendono pure gioco di esse.
(Walter Benjamin)
Da cento anni la fabbrica dei desideri animati impone nel campo dell’animazione internazionale la sua traslitterazione visuale di onirismo fantasmatico, una fiaba a occhi aperti che si amplifica ancor di più appropriandosi del dispositivo schermico maggiormente deputato alla definizione del sogno e dell’artificio: il cinema.
Si parla, in questo frangente, di “sogno” come di una concezione metafisica che infonde ogni prodotto audiovisivo – animato e non – su cui viene apportata l’inconfondibile etichetta produttiva Walt Disney. Un nome che è anche un marchio, un’identificazione che contraddistingue la mercificazione dell’opera, la sua riproducibilità tecnica imperniata sulla diffusione capillare di uno stilema, un valore identificativo e caratteristico, un sentore immaginifico che caratterizza le forme cinematografiche disneiane in toto. Ma, nonostante la ormai più che definitiva imposizione nel campo dell’animazione e del cinema tout court (basti pensare alle vertiginose acquisizioni degli ultimi anni, dalla Lucas Film alla Pixar, dalla Marvel e alla più recente 20th Century Fox) e dunque la sua egemonia mediale e produttiva, la Disney ha negli anni intessuto una trama transgenerazionale e transmediale in cui risaltassero quelli che paiono essere i cardini fondamentali su cui si basa la quasi totalità della sua produzione: il sogno, la memoria, la nostalgia.
Il 16 ottobre 1923 Walt e Roy Disney diedero vita al Disney Brothers Cartoon Studio, un piccolo studio di animazione nel garage dello zio Robert a Burbank, celebre polo produttivo a poche miglia a nord-est di Hollywood: dalle ceneri delle precedenti società Iwerks-Disney Commercial Artists e Laugh-O-Gram Studios prende forma il Paese delle Meraviglie dell’animazione americana. Proprio il 16 ottobre Walt Disney, dopo un accordo di distribuzione con la Universal, scrive una lettera alla madre della piccola Virginia Davis, protagonista dell’ultimo corto prodotto dalla Laugh-O-Gram prima di fallire per bancarotta, Alice’s Wonderland, per scritturarla nella serie Alice Comedies, prodotto in animazione ibrida mescolando riprese dal vero con disegni animati.
Alice entrava nel mondo dei sogni e diveniva materia vivente all’interno della cornice del fantastico e dell’immaginario, proiettando la propria corporeità e le proprie azioni nel panorama onirico, interagendo con la materia disegnata e bidimensionale come parte integrante di essa. Prima delle Alice Comedies già i fratelli Fleischer avevano creato un sistema comunicativo apparentemente bidirezionale, con i personaggi disegnati della serie Out of Inkwell che sconfinavano nel mondo reale e che interagivano con gli animatori, così come Winsor McCay ai primordi della storia dell’animazione. Ma la scelta di introdurre un personaggio “in carne ed ossa” all’interno della materia fisica animata – e che avrebbe poi rappresentato la fortuna di altre pellicole ibride come Mary Poppins (Stevenson, 1965) o Pomi d’ottone e manici di scopa (Stevenson, 1972) – sembra determinare la volontà di sconfinamento progressivo verso quel mondo dei sogni, un’immersività sempre più palese verso una ridefinizione della corporeità, negando la propria tridimensionalità a favore della bidimensionalità immaginativa. Appropriandosi della liquidità delle forme animate, già i primi esempi di animazione disneiana dimostrano possedere un’incontrollabile latenza onirica, uno sconfinamento verso un mondo altro da sé che avrebbe caratterizzato la quasi totalità della produzione successiva.
La nascita e la maturazione dei Disney Brothers Cartoons Studio si definiscono attraverso la riappropriazione del fallimento, che impone la necessità di coniugare creatività e ascesa alla fortuna dipinta dalla florida way of life americana nei ruggenti anni venti. Un paradosso che esemplifica la coesistenza tra memoria e scoperta, tradizione e innovazione: Walt Disney è memore di un passato difficile, che può essere superato solo attraverso la ridefinizione della materia onirica attraverso l’animazione. Questo, naturalmente, spiega anche la decisa imposizione economica e imprenditoriale che ha caratterizzato lo Studio quasi fin dalle origini, sebbene il mito del sognatore e del creatore di meraviglie sembri aver sempre giustificato gli investimenti che hanno progressivamente decretato l’imposizione produttiva attuale.
La logica della rappresentazione disneyana in questi cento anni si concretizza con l’espressione materica e pittorica dell’onirismo e del metafisico, una sinestesia visuale di cui l’animazione rappresenta le forme spirituali che il live action difficilmente riesce a mostrare: Ėjzenštejn parlava dei film di Walt Disney come di «”sogni dorati” nei quali ci si perde come in un altro mondo, dove tutto è diverso, dove si è liberi da ogni regola, dove si può scherzare come la natura stessa scherzò nei tempi felici della creazione» (2004, p. 17). Cosa ha definito – o ha tentato di definire in prima istanza – questo tortuoso percorso simbolico e trasversalmente iconografico che ha per cento anni accomunato la definizione di “animazione disneiana” (nonostante i frequenti alti e bassi che hanno caratterizzato la storia degli Studios)?
Sempre Ėjzenštejn, in riferimento ai connotati metamorfici propri dei personaggi disneiani, parla di plasmaticità come di una facoltà volta ad assumere molteplici forme, e proprio per questo caratterizzata da una concezione di onnipotenza. Questa si configura come tendenza a diventare qualsiasi cosa che genera inizialmente uno spaesamento percettivo, per poi confluire in un’attrattività data dal ricordo di una mutabilità perduta da parte dell’essere umano, quella fluidità corporea propria dei primi stadi delle origini della vita (sebbene Ėjzenštejn preferisca indirizzare la propria definizione di attrazione verso un rifiuto alla rigidità del sistema capitalistico statunitense, 2004, pp. 29-30)
La concezione di onnipotenza plasmatica sembra dischiudere una filosofia del divenire che esplicita un moto perpetuo che da passato diventa presente e poi futuro, anche grazie alle molteplici possibilità rappresentate dall’animazione digitale. Al tema della nostalgia che pare emergere dai recenti prodotti targati Disney (basti pensare a Coco, 2017, prodotto dallo studio Disney-Pixar) si accompagna una nota fortemente memoriale, caratteristica che definisce non solo la strutturazione di un discorso di tipo narratologico, quanto piuttosto un ricorrere a forme estetiche proprie del periodo aureo dell’animazione statunitense, rappresentato dall’evoluzione e dalla sperimentazione nel corso degli anni venti e trenta, caratterizzati proprio dalla nascita degli Studios Disney.
Sembrano dimostrarlo l’attuale volontà di indirizzarsi verso tecniche di animazione ibrida, come la commistione tra animazione digitale e tradizionale, il ricorrere a tematiche di mitizzazione delle forme narrative attraverso la riattualizzazione e la ridefinizione dei canoni della fiaba e dei suoi personaggi, oltre che la manifestazione di stilemi e scenari riconducibili a modelli passati, ma in cui il mito della nostalgia si palesa attraverso un citazionismo postmoderno non fine a se stesso (dalla saga di Toy Story a Red della Pixar, fino al filone dei remake in live action).
Di un tale impulso celebrativo si carica, non a caso, anche l’ultimo cortometraggio uscito sulla piattaforma Disney+ nel giorno del centenario, Once upon a Studio dove, attraverso una carrellata dei più iconici personaggi, si vuole ripercorrere la storia dell’animazione disneiana mostrando quasi tutti i componenti della grande famiglia (compreso il “figliol prodigo” Oswald, i cui diritti di sfruttamento sono tornati in mano alla casa madre solo di recente, dopo averli perduti a seguito di un accordo con la Universal nel 1928). Da una tale commistione estetica – su un background in live action si installano personaggi in animazione tradizionale e in cgi – l’intento che sembra emergere è quello di mostrare il valore memoriale della paternità e dell’origine, tanto che Topolino, fissando un’immagine appesa del suo creatore e rispecchiandosi in essa (Walt Disney prestò la sua voce come doppiatore fino al 1940), si appella a lui quasi commuovendosi e sussurrando: “Devo andare, ma grazie…avanti con lo show”.
Il prossimo Classico Disney sarà Wish (Buck, Veerasunthorn) in uscita a fine anno: celebrativo del centenario, sarà realizzato in animazione ibrida, rappresentando attraverso l’animazione digitale un’estetica tradizionale e bidimensionale che sembra voler restituire l’iconografia propria dei primi lungometraggi disneiani degli anni Trenta e Quaranta, trasponendolo in una dimensione identitaria che segua le nuove definizioni di inclusione fortemente volute dalla direttrice contemporanea. Un film che pare condensare quei cardini menzionati all’inizio: sogno, nostalgia e memoria, ridefiniti attraverso nuove incidenze formali che tentano di coniugare vecchio e nuovo, tradizione e innovazione, passato e futuro.
Wish come desiderio ma, seguendo una traslitterazione italiana, anche come sogno. Il sogno di Walt Disney di creare un’industria della meraviglia: chissà cosa ne pensa da lassù di quello che è e sarà, cento anni dopo.
Riferimenti bibliografici
S. Ėjzenštejn, Walt Disney, SE, Milano 2004.
J.B. Kaufman, R. Merrin, Nel Paese delle meraviglie. I cartoni animati muti di Walt Disney, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1992.
A. Rabbito, La realtà liquida delle nuove forme di animazione contemporanea, in “Imago”, n. 16, 2018.