Il momento più potente dei tre giorni – dall’8 al 10 ottobre scorsi – del convegno dedicato al centenario della nascita di Andrea Zanzotto (10 ottobre 1921) che si è tenuto a Pieve di Soligo (TV), è stato sicuramente quando i convegnisti hanno potuto visitare le Crode del Pedrè. Le crode sono rocce sedimentarie tipiche del Veneto: in questo caso si tratta di conglomerati di ghiaie e ciottoli con cemento calcareo, massicci e imponenti, che si ergono, come cippi giganteschi, lungo il corso del torrente Lierza. Come scrive lo stesso Zanzotto, a commento della poesia appunto intitolata Crode del Pedrè:

Dopo un abisso di anni mi sono trovato […] alle Crode del Pedrè. […] Ho ritrovato il cupo e inquietante labirinto di massi coperti più o meno di vegetazione o nudi, comunque erti. La vegetazione varia, da enormi piante di edera che quasi sostenevano i massi, a quercioli, ontani, […] tutto quel tenebroso e glorioso labirinto in cui si sedimentava l’infanzia, ma con luci pure, e poi il vuoto di decenni […]. E ritornare ora tutto soffocato da una vita-morte-umidore da un fradicio verdemorto eppure vivissimo come una foresta ariostesca (Zanzotto 2011, a cura di Dal Bianco, p. 955).

È sempre difficile, e spesso del tutto arbitrario, cercare di collegare la poesia ad un luogo particolare, tuttavia è altrettanto difficile non vedere in quelle pietre un motivo decisivo della poesia, e proprio dell’estrema poesia, di Zanzotto, tenuto conto che si trova nell’ultima raccolta poetica – Conglomerati (2009) – pubblicata in vita da Zanzotto. Vale in questo caso quello che scrive Edward Said nel libro a cui stava lavorando prima di morire, dedicato al “tardo stile” di artisti e poeti. Allo stile, cioè, di chi si trova nella stagione finale della vita (Zanzotto morirà due anni dopo la pubblicazione di Conglomerati): in questo libro, scrive appunto Said, «vorrei esplorare l’esperienza del tardo stile che comporta una tensione non armonica, non serena, e soprattutto una sorta di produttività deliberatamente improduttiva che va contro…» (Said 2006, p. 4). Nel “tardo stile” non si cerca più, ammesso che la si sia mai cercata, l’armonia e l’equilibrio, al contrario, si “va contro” ogni posticcia e astratta ricomposizione dei contrasti. Alla fine si comprende che non c’è proprio nulla da capire, e però questa “scoperta” non è affatto deprimente, al contrario, mette in movimento una poesia estrema e ricchissima, tanto più ricca quanto più liberata dal bisogno di dire tutto e di farsi capire. Ecco il perché, forse, della pietra e del minerale.

In effetti c’è una relazione del tutto peculiare fra una roccia e la poesia. A prima vista non potrebbero essere più lontane, immobile, senza tempo e indifferente la prima, mobile, cangiante e appassionata la seconda. Come si può cercare di fare una sintesi fra la radicale diversità che separa il minerale dalla vita, la storia naturale dalle vicende biografiche? Fra la roccia e la parola poetica non può non permanere un’irrisolta “tensione non armonica”. Eppure le rocce, come quella celeberrima di Uluṟu degli aborigeni australiani (precedentemente nota come Ayers rock) esercitano un fascino straordinario agli occhi degli esseri umani. La roccia, cioè, e proprio perché apparentemente così lontana dalla parola, ne rivela l’altra faccia, quella terrena e pesante. Perché non potrebbe esserci linguaggio, cioè grido e invocazione, senza quella pietra. La croda, cioè, “chiama” la parola. E la chiama, in particolare, per un poeta che non ha smesso di dialogare con il proprio territorio. Come scrive Andrea Cortellessa la croda, infatti, «è il luogo in cui, alla fine del suo viaggio, Zanzotto torna alla terra» (Cortellessa 2021, p. 34).

C’è un movimento, allora, che parte dalla terra, procede poi oltre e fuori di essa, e infine torna di nuovo alla terra. Un poeta, in questo senso, non smette mai di parlare dello stesso luogo, alle stesse pietre, e quindi di abbeverarsi alla stessa sorgente. Tuttavia la terra delle crode ritrovate non è propriamente la stessa dell’infanzia. La poesia, in fondo, non è altro che il tentativo di dare una parola a quell’infanzia che, infatti, è muta esattamente come la roccia. Scrive Zanzotto nella seconda versione delle Crode del Pedrè:

[…]
Tutto è muto
e sconosciuto
e perduto
tutto è chiuso, sasso a sasso, nel suo lutto
rutilante lutto di sopite ire di irosi sopori.
Manca, manca, ruota come ferma vertigine il mancare
[…]
(Zanzotto 2011, a cura di Dal Bianco, p. 955).

Nella croda “tutto è muto”, perché la roccia è al di qua del linguaggio e del pensiero. La natura è silenziosa in modo radicale, come può esserlo la superficie di un pianeta sconosciuto che ruoti attorno ad una stella di una galassia sperduta nell’universo. Il poeta si confronta con questo silenzio, che come sappiamo è lo stesso silenzio enigmatico dell’infanzia, il tempo inumano che precede la parola e la coscienza, un tempo appunto “perduto e sconosciuto”. Tuttavia questo “chiuso, sasso a sasso” è anche in “lutto”, è cioè il dolore per un tempo perduto, quello dell’infanzia e della natura, che non smette però di chiamarci. Il poeta è questo ininterrotto tentativo di rivolgersi a questo tempo al di qua del tempo. E lo “stile tardo” è lo stile di chi, finalmente, ha compreso che solo rimanendo “fedeli” a quella roccia è possibile “salvarsi”. Nella roccia, infatti, c’è la paradossale risposta alla nostra ansia di dire e di affermarci, l’ansia di chi si affida alla parola, ma che sa che nulla è più volatile ed incerto della parola. La roccia, il conglomerato che amalgama e lega materiali diversi e disparati, minerale a vegetale, ciottolo e radice, fossile e sabbia, non ha bisogno di dire nulla, perfetta immanenza, pura coincidenza con la natura. In questo senso la croda è oltre la stessa distinzione fra la vita e la morte. Per questa ragione il poeta può trovare sollievo, e forse anche un sorriso, nella croda.

Per questa stessa ragione nelle crode, infine, ed è il punto decisivo, “manca […] il mancare”. Zanzotto, poeta e quindi uomo della parola, sa meglio di chiunque altro che il linguaggio scava vuoti e buchi (eccolo il ”mancare”) nel mondo. In effetti parlare significa non credere nel mondo. Nominiamo un oggetto, e nel nominarlo attestiamo la sua assenza. Perché gli animali, infatti, non nominano gli oggetti? Perché non si sono mai allontanati dal mondo, perché coincidono con il mondo, perché non hanno mai perso la fiducia nel mondo. Al contrario l’umano parla proprio perché non si fida del mondo, e per questa ragione non smette mai di evocarlo e di provare a ricordarlo con i suoi discorsi e le sue richieste. Nel tornare alla croda si torna invece al mondo, al silenzio del mondo. Un silenzio, però, che non fa più paura, al contrario, rasserena e pacifica.

La vicenda poetica di Zanzotto, e di chiunque altro si confronti con l’enigma del mondo, è tutta in questo movimento dal pieno muto della roccia e dell’infanzia al pieno ritrovato – e proprio attraverso la poesia – della croda. Come scrive Zanzotto nel “Paesaggio come eros della terra” l’io, in fondo, non è altro che questo ininterrotto confronto con il “paesaggio”, ossia un confronto con il silenzio originario delle cose e quello infine ritrovato attraverso la parola. Bisogna “svuotare” la mancanza, trovare un pieno di vita:

Il paesaggio, a ben vedere, ovvero quello che noi chiamiamo ‘paesaggio’, irrompe nell’animo umano fin dalla prima infanzia con tutta la sua forza dirompente; da questo “stupore” iniziale ha origine la serie interminabile dei tentativi (tattili, gestuali, visivi, olfattivi, fonatori…) compiuti dal piccolo d’uomo per giungere ad esperire le cose come si verificano; ma fino a quel momento egli deve illudersi, avvertendo soltanto una specie di “movimento di andata e ritorno”, o di “scambio”, tra l’io in continua e perenne autoformazione e il paesaggio come orizzonte percettivo totale, come “mondo”. Il mondo costituisce il limite entro il quale ci si rende riconoscibili a se stessi, e questo rapporto, che si manifesta specialmente nella cerchia del paesaggio, è quello che definisce anche la cerchia del nostro io (Zanzotto 2013, pp. 31-32).

Riferimenti bibliografici
A. Cortellessa, Andrea Zanzotto. Il canto nella terra, Laterza, Roma-Bari 2021.
E. Said, On Late Style. Music and Literature against the Grain, Vintage Books, New York 2006.
A. Zanzotto, Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Bompiani, Milano 2013.
Id., Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Mondadori, Milano 2011.

Andrea Zanzotto, Pieve di Soligo 1921 – Conegliano 2011.

Share