Dalla morte di Joseph Conrad (il 3 agosto del 1924) è trascorso un secolo pieno di estremi: ha visto la caduta dell’impero più grande della storia – del quale Conrad, nato nell’Ucraina polacca, era diventato suddito nel 1886 –, massacri ancora più sistematici di quelli d’epoca coloniale – di cui Cuore di tenebra è un prezioso documento – e balzi tecnologici tali da far impallidire la transizione dalla vela al vapore, che lo scrittore anglo-polacco aveva vissuto e raccontato.

Ma l’opera narrativa di Conrad non è invecchiata. Lussureggiante, multiforme, permeata di scetticismo e al tempo stesso suggestiva come un mito, sembra ancora oggi disorientarci. Sembra ancora tesa a catturare aspetti della nostra esperienza su cui siamo restii a posare lo sguardo, ricordandoci a ogni riga quanto logore siano le parole di cui ci serviamo per dare un senso a quel che facciamo e definire chi ci circonda.

La visione di Conrad va al cuore di contraddizioni ignorate o taciute; è ricca di simboli, dettagli eccentrici e ironia graffiante, e non esita a verificare le proprie fondamenta, morali e conoscitive. Si nutre, inoltre, di un’acuta consapevolezza politica. Anzi, come suggeriva Ford Madox Ford, che lo conosceva bene, Conrad è stato in primo luogo un romanziere politico (una categoria non molto rappresentata).

Per fare qualche esempio: in Cuore di tenebra, Conrad chiama in causa i suoi lettori in quanto implicati nel sistema di sfruttamento globale del colonialismo, nella cui propaganda vede un gigantesco mucchio di spazzatura, e nei cui metodi un parossismo di violenza. In Nostromo, ambientato nell’immaginaria repubblica latinoamericana del Costaguana, preda di un caos secolare, Conrad mostra altre facce del sistema economico globale: non solo le motivazioni di cui si ammanta la “missione civilizzatrice”; anche l’impossibilità di trasformare le periferie (loro malgrado) del capitalismo moderno assecondando gli “interessi materiali” dell’occidente. In Costaguana gli interessi materiali non servono a niente se non a perpetuare sé stessi e a generare altro caos (un po’ come le riforme di stampo ultraliberista in certi stati africani oppressi dalla miseria).

E la consapevolezza morale di Conrad è altrettanto acuta. In Lord Jim – storia di un eroismo mancato, ma anche di un atto che appare criminoso e disonorevole – Conrad ci mette di fronte all’arbitrarietà di categorie legali ben radicate nel nostro senso comune – per esempio l’idea che a molti crimini soggiaccia una piena autodeterminazione, e quindi una volontà colpevole – e della falsa coscienza su cui si reggono. Nei suoi racconti, poi, fa a pezzi feticci e tabù dell’occidente. Il Duello, ambientato nella Francia napoleonicamette in crisi l’ideale di una mascolinità marziale, mentre al centro di Falk c’è la demonizzazione del cannibalismo.

Non che Conrad e la sua narrativa non portino il segno delle culture in cui si è formato: quella polacca, francese e inglese (oltre alla cultura classica che assorbì da ragazzino – si sente spesso nella sua opera l’eco di Omero e della tragedia greca). Ma il presente che viviamo è figlio del passato che Conrad ha conosciuto, e grazie alla profondità del suo sguardo ne vediamo le origini. Il nostro mondo è, come il suo, unito da rapporti politici e commerciali di portata globale – e non di rado asimmetrici – e lacerato da nazionalismi sfrenati.

Chi legge Conrad non può avere dubbi: il nostro orizzonte non è molto diverso da quello del 1899. Del resto, le batterie dei nostri dispositivi digitali, come pure delle nostre automobili elettriche, sono fatte di cobalto, estratto in Congo da una moltitudine di minatori assunti a cottimo, sfruttati e intossicati (si veda, su questo, il libro recente di Siddharth Kara, Cobalt Red, che in più occasioni, peraltro, cita Cuore di tenebra). E anche oggi c’è chi nutre ambizioni come quelle di Pedrito Montero, uno degli efferati autocrati del Costaguana, che considera il “cesarismo” un esito naturale della democrazia. Lo sguardo di Conrad continua a ricordarci che il progresso morale dell’occidente è per molti versi un’illusione.

Al tempo stesso, però, Conrad ha cercato spiragli attraverso cui immaginare un’altra storia. Le sue ambientazioni esotiche prendono spesso le mosse dai mondi di cartapesta tipici dell’età degli imperi, dalle fantasie ispirate dall’orientalismo allora in voga, che nei casi migliori liquidava i non europei come selvaggi buoni ma senza storia. Molte delle figure che Conrad ha creato, come i malesi dei suoi primi romanzi, non si sono del tutto emancipate dall’immaginario ottocentesco. Ma sono fatte per mettere alla prova la nostra capacità simpatetica, per renderci coscienti che l’umanità che vive sotto altri cieli è simile da quella a noi nota. Sono espressione di un cosmopolitismo fervido – figlio del romanticismo polacco abbracciato dal padre di Conrad, Apollo Korzeniowski – che cerca unità nella differenza, allargando le faglie della cultura coloniale.

Da un lato, l’opera di Conrad è una riflessione inquieta sulle fondamenta fragili della nostra vita in comune, ma dall’altro esprime la speranza che queste fondamenta possano essere ampliate. Le navi di Conrad sono metafore della società e dei vincoli su cui si regge, e la sua etica del lavoro, appassionata, severa e intrisa di senso dell’onore, ha come fulcri il sacrificio e la fedeltà. Ma questi valori sono privi di sfumature scioviniste o tantomeno marziali: la nave non è una metafora dell’impero, ma di un’umanità che di momento in momento può rinegoziare i propri confini, come fa Marlow in Lord Jim, e come Conrad ci incoraggia a fare all’inizio della Follia di Almayer.

Al tempo stesso, le storie di Conrad sanno accompagnarci nella quotidianità. Fanno appello per esempio a chi di noi ha attraversato una linea d’ombra, e così facendo ha capito la propria irrilevanza e ha aggiustato la propria visuale, scoprendosi più incline a trovare una nuova identità nella comunione con i propri simili, in una fatica condivisa che assomiglia spesso all’attraversamento di una bonaccia o di una tempesta. Non è un caso che Primo Levi, chimico oltre che sopravvissuto, amasse tanto Tifone e Giovinezza. Conrad ci è vicino nelle difficoltà del nostro lavoro, nei momenti in cui affrontiamo una crisi e cerchiamo di far ordine, di soccorrere, di tenere la rotta e di alzare gli occhi, accogliendo le sensazioni e il punto di vista di qualcun altro.

E la sua fama non ci deve fuorviare. Negli anni, Conrad è diventato a sua volta un personaggio mitico: il marinaio-scrittore che ha vissuto almeno tre vite, che in giovinezza, a Marsiglia, è sopravvissuto a un suicidio perché la pallottola non ha leso organi vitali, che ha testimoniato agli orrori del Congo belga, e che in cabina leggeva Flaubert e Henry James. Ma se ci si immerge nelle sue pagine non si può che diffidare di qualsiasi culto della personalità, e apprezzare ciò che della scrittura letteraria è più costruttivamente umano.

Conrad non chiede venerazione, ma ascolto. Veniva, del resto, dai margini. Era figlio di prigionieri politici – di fatto uccisi dalla loro militanza –provenienti dalla piccola aristocrazia polacca, ma di questo in Gran Bretagna non importava a nessuno: lo si considerava di un’altra razza, raggiunse il successo di pubblico tardi, faticava a pronunciare i suoni dell’inglese e cercava, a volte a fatica, di assimilarsi alla cultura che lo aveva accolto, provando al tempo stesso a scuoterla con le sue storie (con cui doveva anche pagare l’affitto e mantenere i figli).

A distanza di un secolo, si vede con chiarezza quanto la sua identità di esule e la sua marginalità abbiano inciso sul suo lavoro di scrittore. E quanto sia importante l’eredità che ci ha lasciato.

Joseph Conrad, Berdičev 1857 – Bishopsbourne 1924.

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