Che la letteratura sia una forma di conoscenza lo hanno detto in molti; tra gli altri, Robert Nisbet, che sosteneva che la letteratura, insieme alla pittura, era in grado di definire una epoca e tratteggiarne i personaggi al pari dei grandi sociologi, e Tvetan Todorov, secondo il quale la letteratura, insieme ad altre scienze, è «pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo». Per Leonardo Sciascia, il cui centenario della nascita ricorre proprio in questi giorni, la letteratura è davvero una forma di conoscenza e, come ogni altra forma di conoscenza, impegnata quotidianamente in un corpo a corpo con la vita. Per lo scrittore, nato a Racalmuto l’8 gennaio 1921, lo scrivere è quindi anche partecipazione alla vita; e, nella sua traiettoria di scrittore, il moto della coscienza civile e la passione per le faccende umane si intrecciano con l’arte del dipanar matasse e misteri, alla ricerca di una qualche forma di disvelamento.

Una di queste matasse è il caso Ettore Majorana, ovvero la vicenda della scomparsa nel nulla di quel giovane fisico, allievo di Enrico Fermi, avvenuta in una notte del marzo del 1938, quando, presumibilmente, era in viaggio sul piroscafo che da Napoli avrebbe dovuto riportarlo a Palermo. Quell’Ettore Majorana la cui fama, a prendere per buona la considerazione che il maestro aveva per l’allievo, sarebbe stata ben maggiore senza quella scomparsa. Sciascia, ne La scomparsa di Majorana (1975), ricompone i pochi pezzi di quel rompicapo, seguendo sì esigue tracce documentali – di quelle che si pretendono oggettive nella vulgata – ma che però si rivelano ben presto, in quello scritto, pretesto soltanto per l’apertura dello sguardo immaginifico della letteratura; i documenti, sfumando, fanno spazio e danno senso alle evocazioni che Sciascia raccoglie ripercorrendo alcuni luoghi del giovane fisico:

Abbiamo vissuto una esperienza di rivelazione, una esperienza metafisica, una esperienza mistica: abbiamo avuto, al di là della ragione, la razionale certezza che, rispondenti o no a fatti reali e verificabili, quei due fantasmi di fatti che convergevano su uno stesso luogo non potevano non avere un significato (Sciascia 2010, p. 94).

I due fantasmi di fatti – perché solo i fantasmi di questi ultimi siamo in grado di rapprendere nella nostra mente – avevano a che fare con la rivelazione di un ricordo lontano di un giornalista, a cui era capitato di visitare, anni addietro, un convento certosino, dove aveva avuto modo di sentire una diceria circa la permanenza di un grande scienziato in quel complesso sacro; insieme all’altra diceria, che voleva che in quello stesso convento fosse andato a trovare rifugio spirituale un membro dell’equipaggio dell’aereo dal quale era stata sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Ecco la conclusione immaginifica dello scrittore: «Potevano queste due cose non essere messe in relazione tra loro, non riflettersi l’una nell’altra, non spiegarsi a vicenda, non avere il valore di una rivelazione?» (ibidem).

Che conoscenza è – potrebbe pensare il lettore avvezzo a pretendere documentali o testimoniali fondamenti per il vero – quella che si affida alle dicerie e alla immaginazione? Sciascia, pur percependo la fragilità di questi supporti della conoscenza, non cede al mito della testimonialità e della rigorosa documentabilità, perché è consapevole che queste – quando usate da sole – limitano lo sguardo, lo rendono miope portando a rinunciare a tutte le possibilità che l’umana percezione offre. I documenti, tutti i documenti possibili, che con cura doviziosa Sciascia raccoglieva e da cui traeva tutto quello che era possibile trarre, diventano una specie di trampolino sul quale poggiare la capacità evocativa e immaginifica. La mente letteraria, così dotata e insieme sgravata, può pretendere, allora, di indicare percorsi di verità o di plausibilità; diventa capace di indagare negli interstizi che altrimenti resterebbero nell’oscurità.

Ed è così che Sciascia propone la sua verità circa la decisione del fisico di rinchiudersi in un convento, per non legare il suo nome alla potenza distruttiva a cui le ricerche sulla natura intima e minuscola della materia avrebbero portato. Ecco quindi la sua linea di plausibilità dei fatti capaci di convincere attraverso la finzionalità letteraria. Ecco come il fingere trattiene, nel suo nucleo etimologico, il dare forma alle cose. Una verità discutibile e discussa, questa, tanto da avere alimentato successivi tentativi di comporre quel mistero; ultimo, quello di Giorgio Agamben, che, ripercorrendo quella verità proposta da Sciascia, ne propone una alternativa: spostando il piano dell’indagine, immagina che il giovane fisico si sia fatto simbolo, con la sua scomparsa, di una diversa percezione della realtà, quella stessa che la fisica quantistica andava tratteggiando proponendo la sovrapposizione tra la nozione di reale e quella di probabile.

Arturo Mazzarella, dentro questo universo, vede il carattere di indeterminatezza dello sguardo di Sciascia, e come esso ne rappresenti il vero punto di forza, essendo «molto più attrezzato, proprio in virtù della sua indeterminazione, a decifrare la complessità del reale di quanto non si dimostrino le garanzie di veridicità ostentate dal paradigma della testimonianza oculare» (Mazzarella 2011, p. 22). E documentale, aggiungo io. La forma di conoscenza che la letteratura propone è particolare, come particolare è la verità che sottopone al lettore. Una verità che si tinge di immaginazione e di finzione, che mette al servizio del processo conoscitivo tutto il corpo, con la sua capacità di captare, di percepire fremiti del reale celati dalla superficie del rigore documentale. Una verità che si apre all’universo della possibilità.

La ricerca di Sciascia, questo suo prendere sul serio la letteratura come forma di conoscenza, va indagata nella sua altra riva, quella della partecipazione alle cose del mondo, che praticava mosso dalla passione civile e dal senso di giustizia e che gli veniva dalla centralità dell’umano, e delle sue libertà, di matrice illuminista. Una verità che è anche un farsi, nella consapevolezza che le parole, creando mondi e lasciando codici per decifrare la realtà, di fatto a questa danno forma.

Dentro questo vortice disvelante e capace di dare forma, è possibile leggere l’attenzione che Sciascia tributa al potere: è infatti per resistere a esso, e contro il suo menzognero fondamento, che mette in fila le sue parole. In Todo modo, opera sicuramente finzionale, il potere è rappresentato nelle sue tinte più grottesche, a volte persino comiche, pur nello sviluppo tragico della storia che inanella una serie di omicidi, avvenuti nell’eremo divenuto luogo di ritiro spirituale (massima espressione di ipocrisia) per politici e potenti di ogni risma; al fondo, la consapevolezza e la denuncia del carattere collusivo del potere. A ispirare, senza essere mai nominata, la Democrazia Cristiana, il partito di governo che, insieme al clero, costituiva un impenetrabile, quanto molliccio, blocco di potere.

Ne L’affaire Moro (1978) Sciascia mette a nudo nel modo più coraggioso il ruolo della letteratura; e con tratti che pure il lettore non s’aspetta. Per la ricostruzione della vicenda di Aldo Moro, dal giorno in cui fu rapito e fino al ritrovamento del corpo, Sciascia legge e rilegge le lettere scritte dallo statista durante la prigionia. Lo fa per opporsi alla tesi di quella pazzia di comodo che veniva attribuita a Moro; lo fa nell’immediatezza di quel drammatico 1978, ingaggiando una corsa contro il tempo della confusione e dell’oblio di Stato. Lo scrupolo di Sciascia lo porta a leggerle come la testimonianza vivida di chi stava vivendo una situazione particolare, che permetteva di rileggere in maniera alternativa e lucida i rapporti con i suoi colleghi di partito e quindi le trame di potere. Documenti da prendere sul serio, quindi, non come rappresentazione allucinata ma bensì lancinante di quel potere di cui lo stesso Moro era parte.

Lo sguardo dello scrittore fa poi il resto, chiamando in causa, forse a raccolta per compiere quell’impresa, esempi della letteratura più nobile e anche apparentemente più distaccata dalla concretezza del reale. Lo fa evocando Jorge Luis Borges, scrittore che tanto amava e del quale pure riconosceva la abissale differenza da lui; e Miguel de Cervantes con il suo Chisciotte, insieme a Miguel de Unamuno. Con questi alleati, la vicenda descritta diventa la rappresentazione di un’opera letteraria già scritta di cui le vicende seguivano la trama. Perché la vicenda di Moro gli ricorda tanto quella di Menard, il personaggio di Borges che riscrive rigo per rigo, parola per parola, lettera per lettera, il Don Chisciotte, e ripercorre tutto quello scrivere nella consapevolezza che sarà la differenza di tempo a dare nuovo senso a quelle parole. Di tutto questo proposito ci dà conto Sciascia stesso: «Si adeguava all’invincibile impressione che l’affaire Moro fosse già stato scritto, che fosse già compiuta opera letteraria, che vivesse ormai in una sua intoccabile perfezione» (Sciascia 2016, p. 163).

La letteratura di Sciascia, in definitiva, rappresenta quell’intento letterario che anima ogni scrittore, e che a pochi riesce di mettere in pratica: disvelare la vita e darne forma, fornendo quella grande trama ove è possibile, con i codici semantici che lascia, riconoscerci come personaggi e interpretarne a modo nostro i ruoli.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Che cos’è reale. La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Milano 2020.
A. Amendola, F. Catalano, E.G. Parini, Il tenace concetto. Leonardo Sciascia: la letteratura, la conoscenza, l’impegno civile, Rogas, Roma 2021.
A. Mazzarella, Politiche dell’irrealtà, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
L. Sciascia., Todo modo, Adelphi, Milano 1995.
Id., La scomparsa di Majorana, Adelphi, Milano 2010.
Id., L’affaire Moro, Adelphi, Milano 2016.

Leonardo Sciascia, Racalmuto 1921 – Palermo 1989.

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