In Leonardo Sciascia ci sono due persone legate insieme. Viene da pensare al supplizio praticato nella remota antichità: due corpi avvinti saldamente, uno dei due è impacciato dall’altro. Allo Sciascia scrittore, infatti, il cui compasso stilistico ha conosciuto un’apertura vertiginosa (che va dalla scrittura giornalistica a quella immaginativa, da quella saggistica a quella poetica e drammaturgica), si tiene stretto lo Sciascia polemista, attaccabrighe e fazioso, cocciuto e intempestivo. Quest’ultimo spesso è stato di ostacolo allo Sciascia romanziere e autore di saggi straordinari: tirato in ballo ciclicamente, rievocato con imbarazzo o disapprovazione, l’intellettuale spinoso e impertinente ha rappresentato la pietra d’inciampo, il motore dello scandalo.

Sono ormai famose alcune sue prese di posizione (“Né con questo Stato né con le BR”, “I professionisti dell’antimafia” tanto per citare due delle controversie più virulente da Sciascia scatenate), che hanno scosso i Palazzi del potere innescando un effetto domino di indignazione, riprovazione, sdegno, scandalo. C’è stato un tempo (che oggi appare lontanissimo) in cui un articolo poteva mettere alle corde i politici: un giro di frase riusciva ad aprire una falla nel fortilizio del potere costituito. Era un’altra Italia quella, erano soprattutto altre penne.

Lo Sciascia osservatore caustico e risentito, l’intellettuale eretico, ha pagato lo scotto di una capacità profetica che fu vista, allora, come imprudenza e sconsideratezza e che oggi riecheggia con la sua forza perturbante e divinatoria. Basterebbe qui alludere all’antimafia di facciata, ai verminai finora scoperchiati per sollecitare pubblicamente oggi, a trent’anni dalla sua morte, un atto di tardiva e ridicola resipiscenza. Ad ogni modo però il “corpo” del polemista ha rappresentato spesso una zavorra, una sorta di contrappeso interpretativo che ha trascinato verso il basso il dibattito critico, annebbiando la vista di chi leggeva e, di conseguenza, escludendo dalla direzione dello sguardo le tappe entusiasmanti della carriera letteraria di Sciascia. Riguardo alla quale adesso si può provare a stabilire cosa rimanga vivo e cosa invece sia morto. La questione, manco a dirlo, è a dir poco subdola, insolente. La risposta che si può formulare, mettendo in conto il rischio del gesto perentorio, fa proprio un criterio ingannevole: quello dell’attualità di un autore nonostante la distanza che lo separa da noi. La “distanza” è il vero problema centrale: rispetto ad essa occorre un’attesa serena e una continua attenzione. Perché accentuare la distanza o liquidarla su due piedi significa tradire gli autori, manipolare il rapporto tra il presente e il passato anche prossimo.

Proviamo a stare al gioco affermando subito che lo Sciascia meno attuale è quello dei primi romanzi gialli, che della mafia hanno fatto materia narrativa. Perché va ricordato, anche ai componenti delle commissioni ministeriali, che l’epoca che immortala lo scrittore di Racalmuto nelle pagine de Il giorno della civetta e di A ciascuno il suo è quella delle mafie del feudo, di una “Cosa nostra” essenzialmente agricola. Fa un certo effetto leggere oggi di don Mariano e del farmacista Manno e del dottor Roscio: si sente un tanfo di naftalina fastidioso, si intravede uno scenario impolverato. Se è vero che all’altezza cronologica in cui i due polizieschi videro la luce si registrò l’effetto dirompente di uno “strappo nel cielo di carta” nel teatrino politico e sociale non solo isolano, oggi i mafiosi di Sciascia assomigliano a sagome di cartapesta con le coppole finte.

Ma del Giorno della civetta e di A ciascuno il suo rimane attualissima l’intuizione che guidò Sciascia nel dar forma a entrambe le opere: il fatto cioè di aver legato a doppio filo l’impegno dello scrittore, che è insieme sociale e politico, alla letteratura di consumo. Sciascia del resto è stato un grande autore appassionato di trame, come si capisce bene dai tanti suoi interventi sul poliziesco, di cui fu ghiotto sino alla bulimia. L’autore di Una storia semplice stabilì una regola che è rimasta costante e soprattutto sostanziale nell’ambito della letteratura di genere in Italia: si può individuare una configurazione data come quella del giallo, del noir, per poi parlare d’altro, del malaffare ad esempio, della giustizia capovolta.

Invece, risultano oggi quasi ai limiti della leggibilità libri come La strega e il capitano, 1912 +1, tarlati e irrisolti romanzi come Il contesto, elusivo e spurio, scritto da un narratore infastidito di continuo da un saggista impertinente; inavvicinabili poi le sue poesie, ingenue e meccaniche. Mentre, d’altro canto, un romanzo come Todo modo, perturbante e luciferino, appare sempre più nuovo, attuale sino quasi all’inverosimile (era il romanzo preferito da Pier Paolo Pasolini, da lui definito uno dei più importanti del secondo Novecento) tenendo presente oggi anche la crisi del cattolicesimo: esso ci consente di apparentare Sciascia a uno scrittore come Orwell (quello di 1984 e della Fattoria degli animali), dal quale egli prese le mosse, non dimentichiamolo, per le sue Favole della dittatura: brevi apologhi che, sotto la buccia di una scrittura acerba, celano un animus satirico, sardonico quasi. Da far pensare a Longanesi e a Flaiano, ossia a quella compagine di scrittori-cecchini i quali seppero mirare con successo al bersaglio della sbilenca antropologia italica.

Ma andrebbero a questo punto citati pure altri due grandi libri di Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, uscito nel 1963, anno di necrologi e di veglie funebri per un genere letterario come il romanzo storico (o presunto tale), e L’affaire Moro, la sua opera più misteriosa e incandescente. Un pamphlet letterario e politico extravagante nella sua tragicità, trasversale nell’incrocio dei generi, refrattario com’è ai codici e alle definizioni. Un «libro esplosivo» l’ha definito Massimo Onofri, occupandosi dei grandi saggisti del Novecento in funzione di una “controstoria d’Italia letteraria e civile”; un testo che si presta perfettamente a rappresentare un tipo di saggismo anomalo e obliquo, che lambisce e vampirizza i generi per poi scioglierli o farli evaporare.

Esemplare, L’affaire Moro, prima di tutto da un punto di vista della forma stilistica. In esso infatti l’autore è riuscito a calarsi nella realtà magmatica dell’Italia degli anni di piombo alla stregua di un palombaro, spingendosi sino agli abissi per toccare le verità più ustionanti grazie a un modo di procedere divagatorio, digressivo. A cominciare dall’incipit, uno dei più memorabili del Novecento:

Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant’anni: e perciò credetti dapprima si trattasse di uno schisto del gesso con cui erano state murate le pietre o di una scaglia di specchio; e che la luce della luna, ricamandosi tra le fronde, ne traesse quei riflessi verdastri. Non potevo subito pensare a un ritorno delle lucciole, dopo tanti anni che erano scomparse (Sciascia 1978).

In un brandello di esistenza (quella di Moro), in una scheggia che può anche essere una lettera, una frase, un’ammissione, un’allusione non tanto del politico ma dell’uomo solo (Pirandello docet), Sciascia è riuscito alla fine a lambire una verità profonda, imprevedibile e impensata.

In quell’Italia lì non c’era più spazio per la scrittura creativa, per il pretesto immaginativo: Sciascia interrompe la sua catena di polizieschi per provare a leggere nelle pieghe ulcerose di una realtà ottenebrata, ma divagando e deviando. Da qui la decisione di ricorrere a una scrittura saggistica che a volte risulta scorciata e fulminea fino a farsi aforistica: «Lo dichiara in modo evidente l’attacco dei capitoli in cui è suddiviso», ha spiegato Marco Belpoliti. Si tratta di scrittura icastica perché può contare spesso su una brevitas sorprendente, sull’elusione della sistematicità (Sciascia allievo di Montaigne), sulla provocazione paradossale, e sono paradossi letteratissimi quelli cui Sciascia ricorre per comporre il suo puzzle d’inchiostro.

Tutto questo oggi nella certezza che, a petto della complessità e della compattezza della sua produzione, sarebbe meglio capovolgere la domanda di partenza in questi termini: siamo attuali noi oggi rispetto a Sciascia?

Riferimenti bibliografici
M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001.
M. Onofri, Tra saggisti e no: per una controstoria d’Italia letteraria e civile, in Aa. Vv., Costellazioni italiane 1945-1999. Libri e autori del secondo Novecento, Le Lettere, Firenze 1999.
Id., Sciascia, Einaudi, Torino 2002.
Id., Della scrittura mista e d’invenzione, “Paragone” (Letteratura 132/133/134), agosto-dicembre 2017.

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