Nel 1967 Guy Debord pubblicava una serie di tesi raccolte sotto il titolo La società dello spettacolo. Trent’anni prima Antonin Artaud concepiva quel folgorante palinsesto che va sotto il nome di Il teatro e il suo doppio, con l’intento di determinare una radicale simbiosi tra il teatro e la vita, e la loro crudele e urgente necessità. Cento anni prima, tra il 1836 e il 1837 (anno della sua morte), Georg Büchner, geniale drammaturgo “non riconciliato”, componeva per frammenti il suo capolavoro Woyzeck, sorta di passione allucinatoria di un povero soldato, assassino suo malgrado, che pare incarnare l’epitome della insita, e necessaria, crudeltà della condizione umana, laddove la vita sia vissuta in una forsennata ed estatica visione, come un “atto sacramentale”.

Il dramma incompiuto andava in scena solo nel 1913, in pieno clima espressionista, e rivelava come il “lucido delirio” di quella azione drammatica (ispirata a una “tranche de vie”, a un “fait divers”) precorresse da un lato l’esplicitazione “didattica” della drammaturgia a quadri e stazioni di Brecht, e dall’altro lo spazio abissale e vorticoso delle visioni teatrali artaudiane. Ma è a metà degli anni sessanta del Novecento che Debord pratica, in modo poetico-politico, quella tensione a colmare la distanza tra la vita, come campo di forze, e la rappresentazione, lo spettacolo, come luogo delle forme e delle immagini e nelle sue tesi scrive della separazione già avvenuta con il “realismo capitalista” delle immagini dalla vita.

Se infatti «tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (Debord 2008, p. 53) è necessario un détournement, una inversione che riporti al centro la vita, dal momento che le immagini e lo spettacolo sono diventate l’inversione della vita. «Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» (ivi, p. 64). Questo orizzonte si è venuto realizzando in modo pervasivo nel mondo, al punto che non viviamo più, ma siamo come vissuti dal «cattivo sogno» (ivi, p. 59) delle immagini. E qui ciò che vedevano Büchner e Artaud nel teatro, come azione necessaria e salvifica, una sorta di “medicina” sciamanica per ridare vita ai corpi nei due risvolti della scena e della vita, passando necessariamente per una tracimazione, una frammentazione sacrificale, si rivela centrale.

Ora, è miracoloso ritrovare tutto ciò in modo rivelatore e vissuto, attraverso le emozioni come tramite la coscienza delle stesse, attraverso cioè una “atletica affettiva” (che, per Artaud è la condizione dove si esplicita il lavoro dell’attore), in uno “studio” teatrale e drammaturgico che in questi giorni si è “esposto” con una spudoratezza e un rigore esemplari, alla Sala Assoli di Napoli (in apertura della stagione della “Casa del contemporaneo”), Casting, per un film sul Woyzeck, con la regia di Annalisa D’Amato (che viene dalle esperienze con maestri come Grotowski e Brook), la collaborazione artistica di Antonin Stahly e la drammaturgia di Maurizio Braucci (scrittore e sceneggiatore, con Matteo Garrone e Pietro Marcello, tra gli altri, e soprattutto instancabile “guida” della decennale esperienza di Arrevuoto, teatro vivo con centinaia di ragazzi delle scuole napoletane ogni anno chiamati sul palcoscenico dello Stabile a “rivoltare” testi del grande teatro, da Viviani a Toller a Adamov).

Adottando la struttura del casting, enucleandone la “distorsione” che la società dello spettacolo vi ha iniettato, dieci giovanissimi, ragazzi e ragazze (li chiamo per nome: Sara 1 e Sara 2, Luigi, Adriano, Francesco, Emanuele, Luigi 1 e Luigi 2, Mattia, Gianluigi) che vengono dai quartieri popolari di Napoli, sprigionando la vita del loro desiderio di essere attori, sono sottoposti ai provini per interpretare Franz Woyzeck, Maria, il Capitano, il Tamburmaggiore, il Dottore ecc… secondo i dettami costrittivi dell’apparire, di contro all’essere. Ma loro, come indomite energie traboccanti, non vogliono recitare quei ruoli, vogliono, artaudianamente, viverli, esserli, diventarli.

Questa è la dinamica geniale di ciò a cui assistiamo: una “didattica” esplicitazione di una struttura spettacolare e la sua “inversione” in vita, in verità. Perché questi ragazzi non solo attingono a una autentica e intima capacità di immaginare se stessi, ma fanno diventare le loro vite, le loro esperienze nei vicoli napoletani i veri, unici possibili frammenti drammaturgici del testo büchneriano. Ed avviene il miracolo: si annulla la distanza tra teatro e vita, interpretazione e contenuto di verità, opera e riflessione in atto (critica in atto) dell’opera.

È sconcertante la potenza di questa vorticosa ronde, entro cui le scene delle vessazioni e delle ossessioni, degli incubi e delle gelosie, dei “corpo a corpo” con le visioni, i fantasmi, le “voci” di dentro e i sommovimenti psicofisici che percorrono Büchner avvengono davanti ai nostri occhi, al di fuori di ogni rappresentazione e, paradossalmente, proprio grazie alle modalità con cui un “corpo collettivo” fatto di singolarità si frappone ostinatamente alle “regole” del provino, attuando, qui e ora, un film senza bisogno di supporto e diaframma, e gettandosi a corpo morto nella possibilità di morire e rivivere, di cadere e rialzarsi, lì, nel cerchio magico della scena, che alla fine annienta la stessa struttura di partenza.

Allo stesso tempo viene drammaturgicamente inoculato una specie di “paratesto” a opera di un lavoro “anatomico” di regia e tessitura testuale, nonché di architettura del gesto (essenziale il contributo di versificazione “danzante” di Valeria Apicella) e con un lavoro di prelievo e scrittura scenica secondo il modello del “dramma didattico”. E, ancora miracolosamente, questa “seconda testualità” aderisce perfettamente alla dinamica.

Infatti un (vero) filosofo si introduce nelle pieghe dell’azione riflettendo su questa dinamica, non a caso con interpolazioni delle tesi di Guy Debord, facendo scorrere naturalmente nelle vene vive di ciò che avviene, delle incarnazioni dei ragazzi, un pensiero che non appare estraneo ma che anzi, brechtianamente, pone in evidenza quel percorso di ravvicinamento delle distanze. Come se il risvolto filosofico non fosse un “guardarsi vivere” ma un “vivere lo sguardo”. Rovesciare ancora una volta la separazione tra vita e pensiero, tra immagini e loro resa.

Ogni ragazzo e ogni ragazza vive e incarna ciò che Büchner immaginò, e certo visse, e al contempo ripercorre, rivive, prende coscienza della propria biografia in fieri, del proprio vissuto in atto, con il rigore crudele che invocava Artaud, mentre un diabolico violino (suonato da Antonin Stahly) enuclea l’impossibilità di “menare le danze” e trova invece la possibilità di toccare come dei nervi scoperti quei gesti, quelle corse, quelle lotte, quei rimbalzi da una frase all’altra, da un atto all’altro, da una voce all’altra. E qui sembra che quel gesto di auscultare la terra (la quale batte e parla come le viscere, come i cuori, come le tempie, come le mani) che ricorre nel Woyzeck, improvvisamente si riveli il modo di captare ed entrare in sintonia con la memoria filogenetica di una intera città.

Denis Diderot nel suo Paradosso sull’attore diceva che «avviene dei piaceri violenti come delle sofferenze profonde: sono muti» (Diderot 1960, p. 44). Rendere parola vera a questa mutacità è il miracolo dell’attore, ma dell’attore vivo, dell’attore-atleta. È un lavoro. Questi ragazzi e il loro “dramaturg”, e la loro regista, compiono appunto un grande lavoro, che non ha niente a che fare con la spontaneità o con l’improvvisazione, ma molto a che fare con il rigore, l’energia, l’intuizione potenziata, la precisione. E da ciò si comprende come il teatro può salvare la vita, e la vita salvare il teatro. Entrambi: la vita, appunto e il teatro. Perché il teatro è la vita.

Riferimenti bibliografici
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968.
G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 2008.
D. Diderot, Paradosso sull’attore, Rizzoli, Milano 1960.

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