Un volto antico, quello della capraia Lucia, che guarda a distanza i corpi nudi di un gruppo di giovani raccolti in danze e posture plastiche. Diffidenza e attrazione animano lo sguardo e l’atteggiamento della giovane. Siamo a Capri, nel periodo che precede lo scoppio della Prima guerra mondiale. Nello spazio raccolto e circoscritto dell’isola convivono l’eterogeneità dei mondi e quella delle forme di vita: il tempo lungo della tradizione, della povertà e della cultura patriarcale; lo spirito scientista e positivista del giovane medico giunto ad aprire un presidio sanitario e portatore di uno sguardo verso le “magnifiche sorti e progressive”; i comunisti russi che preparano la rivoluzione in patria; e il gruppo di eccentrici artisti europei che vuole reinventare pratiche di vita inedite.
L’isola come scena e i differenti spazi come attivatori di prassi distinte: la villa “aperta” degli artisti, animata dall’imprevedibilità di comportamenti e gesti, segnati dalla nudità dei corpi e dalla fluidità della danza (ma non esenti da violente interruzioni del flusso, come per l’uccisione del cervo); e la semplice casa della capraia, caratterizzata da una distribuzione regolata di posizioni e ruoli, come il tavolo intorno a cui fratelli e madre mangiano, con sullo sfondo il padre malato disteso sul letto. Riarticolare le posizioni in quello spazio, modificarne le prassi, non è semplice: Lucia reagisce alle imposizioni dei fratelli sbattendo il piatto sulla tavola, oppure esce di notte in silenzio per guardare la comunità di artisti guidati dal pittore Seybu.
I conflitti tra uomini e pratiche si moltiplicano, a partire dalla contrapposizione tra spiritualisti e materialisti, vegetariani e carnivori. È il confronto e il conflitto tra queste pratiche a poter indicare la strada per una possibile emancipazione sociale. Lucia fa saltare il pranzo combinato per farla divenire sposa di un vedovo maturo, affermando semplicemente di non mangiare cadaveri (cioè carne). E tutto ciò che vede e attraversa diventa una possibile nuova forma di vita. Emanciparsi dalla condizione di capraia e dal perimetro molto limitato delle scelte concesse significa abitare nuovi spazi, adottare nuovi costumi (denudarsi, alfabetizzarsi, parlare inglese) o immaginarne l’adozione, come quando nel finale, ricoverata nella nuova struttura medica dell’isola, vede le giovani ragazze fare pratica per diventare infermiere (suggerimento che il giovane dottore aveva dato anche a lei ad inizio film).
Ma l’isola come set, come scena (il cui modello ideale resta La tempesta shakespeariana), ha un fuori potente che già all’inizio viene presentato in tutta la sua forza: è il mare, lo “spazio liscio” incivilizzabile (per dirla con Deleuze), le cui onde sbattono contro i ripidi costoni di roccia, che affondano nelle profondità dell’acqua e si protendono verso il cielo. La potenza della natura che chiudeva, con il Vesuvio, Il giovane favoloso (2014), qui apre, fa da cornice, è il fuori che dà il perimetro al dentro, che fa sì che quel “dentro” insulare sia il luogo dove è possibile originare qualcosa di nuovo. L’isola è un luogo che, separato allo stesso tempo dalla terra e dal mare, è immagine di una creazione in quanto separazione. L’isola è il luogo quasi-mitologico (e il film in diversi passaggi trasfigura verso il romance, come nella trasvolata fiabesca di Lucia) in cui è possibile la nascita di qualcosa di nuovo, il fatto che sia possibile un nuovo inizio. Come dice Deleuze: “L’isola, è anche l’origine, l’origine radicale e assoluta”.
Il film mette in scena le molteplici forme, ordinarie e straordinarie, in cui la vita tenta di comporre le forze che attraversano il “fuori” (natura, storia). L’arte in primis, e la danza regina tra queste, per la lievità con cui il corpo diventa musica flettendosi; la politica, quando si fa atto collettivo di ribaltamento delle posizioni dominanti (rivoluzione comunista); la scienza quando è invenzione del nuovo che cambia la vita delle persone (elettricità); l’amore quando avvicina i distanti e crea incontri imprevedibili (la capraia e l’artista). Con Badiou, diremmo che sono in gioco le quattro procedure di verità (amore, arte, politica, scienza) che, in un intero secolo, colto qui nel suo momento nascente, si manifestano in tutta la radicalità del loro perseguimento utopico e nel loro fallimento. Che avviene con il trauma bellico, che tutto azzera. La sperimentazione di nuove forme comunitarie di vita, le pratiche emancipative, le illusioni di progresso, si dissolvono nelle partenze per il fronte (vi andranno i due fratelli di Lucia e il dottore), dove l’afflato utopico viene sequestrato dallo slogan nazionalistico e interventista.
E Lucia partirà per l’America, sola, come la vediamo nell’ultima immagine del film. Ma sarà un’inquadratura di spalle, sul mare, senza orizzonte. Lo sguardo genealogico di Martone, volto a cogliere nel passato i segni di genesi e comprensione del presente, trova in Capri-Revolution un ultimo intenso movimento. Se Noi credevamo (2010) metteva in gioco il tentativo di iscrizione nell’epos risorgimentale di tre giovani amici e Il giovane favoloso le tappe della vita di un poeta, Capri-Revolution, adottando un punto di vista più originale, quello dell’anonimo il cui destino non prevede scarti né modifiche, compie un passo ulteriore (anticipato da Pastorale cilentana) ponendosi alcuni interrogativi cruciali. Come le nuove forme di vita, che accompagnano sperimentazioni sociali inedite, possono realmente dare forma a quelle forze che da fuori premono?
Il problema è sempre la forma e il suo “fuori”. La forma e il suo stare tra pratica estetica e modo di vita. La comunità di artisti rappresenta tutto questo molto bene: inventa pratiche artistiche inedite per inventare forme di vita nuove (e viceversa). Come viene detto nel film: “Dobbiamo farci il problema della forma in tutte le fasi della nostra vita”. Che significa, dobbiamo sempre porci il problema dell’espressione finita e contingente di qualcosa che ci sovrasta, che da fuori “preme”: la forza della natura, l’incedere del tempo, le dinamiche sociali, la vita in genere e gli incontri singolari che la scandiscono.
Le diverse forme di vita (pastori, artisti, medici, rivoluzionari) non fanno che rapportarsi a tutto questo e si distinguono per il modo in cui vi si rapportano. Certo, la comunità di artisti sembra produrre in modo creativo una forma plasmata direttamente sui ritmi della natura, sul divenire, il cambiamento e la durata, rispetto a chi questa vita la vuole ingabbiare in binari preassegnati (la tradizione), ma nessuna garanzia che questo rinnovamento e questa forma abbiano successo.
Da dove la domanda più radicale. Come far nascere il nuovo e riconfigurare il vecchio, senza precipitare nel fallimento assegnato ad ogni orizzonte rivoluzionario utopico? Fallimento che può prendere la duplice direzione del nuovo che diventa presto vecchio (in altre parole si direbbe il potere costituente che si fa costituito), o del nuovo che non riesce proprio ad imporsi sopraffatto dal vecchio.
Scavando alle origini della soggettività moderna, Martone ne coglie la profonda crisi, quando misura che un anelito alla libertà, una voglia di emancipazione da una posizione minoritaria (qui di donna analfabeta in un contesto patriarcale) non riesce di fatto a trovare destinazione alcuna, né pratica di vita soddisfacente. Giungerà la guerra e cancellerà tutto, separerà donne e uomini, renderà vacua l’utopia artistica, e azzererà ogni orizzonte.
Non resterà altro che andare verso Ovest, l’America, ma non come terra sognata, ma come terra di emigrazione, terra dove inventarsi un futuro per chi non ha più presente. Non più l’isola come luogo utopico dove si ritrovano gli artisti, ma la nave, che chiude il film, come luogo eterotopo (per riprendere la distinzione di Foucault), dove le forme di vita sperimentate diventano le pratiche contaminate e informi degli umili e degli anonimi che fuggono dalla guerra e dalla fame. Come sempre, in Martone lo sguardo al passato riguarda il nostro presente.
Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Manifesto per la filosofia, Cronopio, Napoli 2008.
G. Deleuze, L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007.
B. Roberti, A distanza ravvicinata. L’arte di Mario Martone, Pellegrini, Cosenza 2018.