L’ultimo libro di Miriam de Rosa è un oggetto strano, soprattutto per il panorama bibliografico italiano (e infatti il libro è scritto in inglese). Anzitutto graficamente, con una bella e particolare impaginazione, immagini molto curate e un color azzurro profondo che innerva risvolti e caratteri, e caratterizza il volume fin dalla copertina. Il merito va all’idea grafica che sta alla base della bella collana EX Series ideata da Mimesis con il Digital Storytelling Lab dell’Università di Udine. All’impostazione della collana si deve anche la seconda anomalia: ciascun volume è interamente dedicato alla esplorazione di un film sperimentale che, nel caso del volume di De Rosa, è Grosse Fatigue, di Camille Henrot: il libro, di circa 170 pagine, è dunque dedicato a un video che dura 13 minuti circa. Il terzo carattere curioso del libro è la sua struttura, che di fatto mima il proprio oggetto: proprio come il film della Henrot, che adotta le modalità del desktop cinema, il discorso di Miriam de Rosa procede aprendo finestre, sovrapponendole, facendole dialogare reciprocamente.

Il primo capitolo descrive Grosse Fatigue e le circostanze della sua produzione. Nel 2013, in quanto artist research fellow della Smithsonian Institution (Washington D.C.), la Henrot aveva raccolto un numero enorme di artefatti, immagini, video e testi collegati dal tema della nascita ed evoluzione dell’universo; ella ha deciso di montarli in un video che utilizzi la grafica dell’interfaccia di un computer: su un desktop background si aprono e si sovrappongono incessantemente finestre con differenti contenuti, in un crescendo che parte dall’uovo e arriva alla moltiplicazione delle specie e allo sviluppo degli artefatti tecnologici. Sullo scorrere delle immagini, ascoltiamo la musica pulsante del compositore elettronico e D. J. Joakim Bouaziz e una lunga, martellante poesia (una sorta di inno) dello scrittore Jacob Bromberg, letta in modalità “spoken word” dallo slammer Akwetey Orraca-Tetteh. Il video, presentato alla 55esima Biennale di Venezia, ha vinto il Leone d’argento; successivamente, l’opera è stata ripresentata in varie forme (mostre, installazioni) presso il MoMA, lo stesso Smithsonian, il Guggenheim di New York e varie altre sedi.

Ho parlato di un effetto di crescendo, ma in realtà la prima impressione è piuttosto quella di un organizzatissimo caos: cornici, immagini, suoni e parole si affastellano, si rincorrono, si incassano in varie forme di myse en abyme: i loro concatenamenti sono dominati da una logica di libere associazioni e di pensiero “primitivo” che vive di una dialettica tenuta sempre viva tra il dispositivo organizzativo della cornice e la moltiplicazione quasi incontrollabile degli stimoli. Riprendo il termine “dispositivo” dalla stessa De Rosa, che mostra (con quel meccanismo di apertura di finestre discorsive speculare rispetto all’oggetto studiato cui accennavo sopra) come la stessa dinamica di precario ma sensibile ordinamento del caos animi anche altre opere dell’artista.

Il secondo capitolo affronta la questione del desktop cinema, che viene di fatto inventato dalla Henrot con questo video e quasi subito ripreso da altri artisti (per esempio Kevin B. Lee). Su questo punto l’autrice del volume è molto abile (complice la sua approfondita esperienza di ricerca sul post-cinema) nell’evidenziare continuità e differenze rispetto agli utilizzi tradizionali del medium video, in base a una lucida riflessione dell’artista sul dispositivo dello schermo. Il lavoro della Henrot può essere letto in effetti come una celebrazione di quello che Francesco Casetti proponeva di chiamare non più “screen” ma “display”, superficie di convocazione e di composizione più o meno magmatica di forme informazionali differenti e variamente componibili. Su questa linea, le chiavi di lettura dei fenomeni di visibile accumulo si possono moltiplicare: dall’idea di «wretched screens» di Hito Steyerl al «capitalismo semiotico» di Deleuze e Guattari. Su tutte, domina la concezione di «immagini tecniche» di Vilém Flusser, ossia di produzioni visuali che ripensano e riformattano le tradizionali modalità espressive lineari proprie della parola e quelle planari / reticolari proprie dell’immagine. Il capitolo lascia l’impressione che la de Rosa abbia letto fin qui l’opera della Henrot come una sorta di videosaggio sui destini delle immagini e degli schermi contemporanei.

Il successivo terzo capitolo sposta il punto di vista analizzando Grosse Fatigue in quanto opera d’arte, e in particolare in quanto espressione di una estetica post-digitale. Uno degli aspetti salienti di tale estetica sarebbe la messa in scena più o meno esplicita delle azioni che consentono l’apparizione delle immagini: attraverso l’espediente del desktop cinema il lavoro della Henrot esibisce in modo esemplare (e mediante una strategia di falsa spontaneità) le «operazionalità» (Jussi Parikka) che stanno alla base della mostrazione di immagini, o i «gesti» (Barbara Grespi) che producono il senso. Il che colloca il desktop cinema all’interno di una più ampia genealogia di media “gesturali”: tra i punti di riferimento estetici e filosofici De Rosa cita l’idea di «cineplastica» proposto da Élie Faure nel 1923, e l’ontologia della «fattualità» (tradotto anche, in italiano, “effettività”) che accompagna con vari ripensamenti tutta la riflessione di Heidegger (De Rosa utilizza in particolare un ciclo di lezioni del 1923). Il quarto capitolo affronta il ruolo della colonna sonora e trascrive il poema-inno che accompagna le immagini. Il quinto capitolo infine trascrive una tavola rotonda sul desktop cinema tenuta nell’aprile 2022 tra alcune teoriche e artiste (Shane Denson, Iris Blauensteiner, Bleit Sag, Sunmeil Sanzgiri e Darren Berkland) e coordinata dall’autrice del volume.

In sostanza, dunque, il volume di Miriam De Rosa gioca su almeno tre livelli di generalità: al centro sta il video Grosse Fatigue; questo, tuttavia, rimanda a una riflessione sul desktop cinema nel suo complesso; e questa a sua volta innesca un rimando ai discorsi mediali che potremmo chiamare operazionali, o gesturali, o fattuali, ovvero tesi a mettere in scena (in modo più o meno sincero e trasparente e “in diretta” rispetto allo svolgimento del discorso) le circostanze materiali della propria produzione. 

Come accennavo, mi sembra che quest’ultimo punto meriti una piccola, ulteriore riflessione. In particolare, vorrei proporre di leggere il volume di De Rosa in parallelo con l’ultimo volume di Pietro Montani, Immagini sincretiche, già ben recensito su questo sito da Angela Maiello. Secondo Montani i media digitali e post-digitali costituiscono luoghi esemplari di montaggio, smontaggio, rimontaggio di stimoli differenti in forme differenti. In tal modo, i “nuovi media” (come prima di loro il cinema e altre arti sincretiche), mimano i meccanismi della nostra immaginazione che, proprio mediante queste operazioni, ci consentono un accesso sensato al mondo; al tempo stesso, rendono visibili ed esperibili tali meccanismi in forme esteriorizzate; e così facendo ci consentono di rinnovare le forme dell’immaginazione mediante una interiorizzazione dei medium stessi. Questa linea di riflessione, avviata da circa una ventina d’anni e focalizzata più di recente sui media digitali e post-digitali, conosce in quest’ultimo volume una torsione antropologica ed epistemologica: le nuove modalità espressive ibridano in modo originale le forme lineari del suono, della oralità e della scrittura con quelle planari dell’immagine (torna su questo punto il contributo di Flusser, che abbiamo visto utilizzato anche da De Rosa); grazie alla loro diffusione e alle possibilità di rielaborazione che esse offrono, le nuove tecnologie si prestano a diffondere un uso attivo e non solo passivizzante di queste strumentazioni espressive.

È possibile a mio avviso portare alla luce alcuni elementi che possono derivare per una analisi del desktop cinema (e in particolare di Grosse Fatigue) dal volume di Montani. Anzitutto, il desktop può essere inteso (con Benjamin, ripreso da Montani) come uno “spazio di gioco”; il desktop cinema, di cui l’opera della Henrot costituisce l’atto costitutivo, rappresenterebbe dunque «un modo di giocare con gli elementi esternalizzati della nostra immaginazione mettendone in azione l’essenziale sincretismo … e la strutturale multimodalità» (Montani 2024, p. 11). Tuttavia, possiamo immaginare anche un movimento di ritorno che va dal desktop cinema (e quindi dal libro di De Rosa) all’idea di Montani: il lavoro dell’immaginazione e le sue messe in forma tecnologiche non costituirebbero (sempre e solo) un processo narrativo unico e progressivo, ma potrebbero assumere la forma di operazioni e ipotesi sovrapposte, talvolta affastellate in un disordine la cui composizione avverrebbe solo a posteriori, non più online ma offline. “A giochi fatti”, potremmo dire.

Riferimenti bibliografici
F. Casetti, “Display”, in Id., La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015.
P. Montani, Immagini sincretiche. Leggere e scrivere in digitale, Meltemi, Milano 2024.

Miriam De Rosa, Camille Henrot, Grosse Fatigue (2013). Notes on Desktop cinema, DSLPress+, Mimesis, Milano-Udine 2024.

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