Chi conosce l’opera di Pietro Montani sa che sin da tempi non sospetti – cioè molto prima che le nuove tecnologie diventassero oggetto di studio ampiamente riconosciuto nell’ambito della filosofia e in particolar modo dell’estetica, almeno in Italia –  è impegnato nell’interpretazione della svolta digitale, attraverso un approccio che coniuga filosofia, antropologia e scienze cognitive. Chi non conosce, invece, il lavoro di Montani deve sapere che è forse uno dei più convinti e autorevoli “integrati”, per usare la nota definizione di Eco. Fatto salvo per alcune pagine di Bioestetica (2007), in cui Montani denunciava il pericolo anestetizzante delle immagini in rete, nei suoi testi successivi il filosofo ha concentrato il proprio sforzo teorico nella comprensione del modo in cui la trasformazione del digitale, al di là di ogni facile catastrofismo, vada collocata nell’ambito del processo evolutivo di Homo sapiens e si basi sul funzionamento “tecnico” dell’immaginazione.

Se l’immaginazione è kantianamente la facoltà del nostro rapporto con il mondo, ciò che ci permette di orientarci nel molteplice del mondo, di dargli un senso, e di elaborare sempre nuove (e originali) regole che ne spiegano il funzionamento, per fare ciò essa deve esternalizzarsi in artefatti tecnici. Primi fra tutti il linguaggio e l’immagine: dalla selce al GPS, l’immaginazione è sempre già tecnicamente ibridata e questo circolo virtuoso, tra l’esterno del farsi artefatto e l’interno, cioè il nostro rapporto corpo-mente, ne garantisce il funzionamento (e la sopravvivenza della specie?).

Il problema dell’anestetizzazione e del suo contrario, cioè la nostra capacità di sentire o di giudicare, è, tuttavia, il nucleo del pensiero di Montani, che viene di volta in volta declinato. Ponendosi sulla scia delle tesi benjaminiane (la funzione artistica dell’opera potrebbe in futuro diventare accessoria), Montani non si interessa alle questioni, ontologiche o meno, relative all’Arte; gli interessano invece quegli oggetti esemplari – qui la lezione è quella garroniana –  attraverso cui è possibile sentire. Che cosa? Il bello, potremmo dire sempre con Kant, ovvero sentiamo, ci accorgiamo del modo in cui la nostra immaginazione funziona. Utilizzando un vocabolario che non è certo quello di Montani, possiamo dire che si tratta di quelle occasioni in cui ci sentiamo vivi e condividiamo collettivamente questo sentimento. Il cinema è un referente esemplare in questa prospettiva, ovvero una riserva preziosissima di tali occasioni, in cui possiamo sentire, ad esempio, ciò che non sentiamo più (il trauma di un evento consumato dai media, come nel caso dell’11 settembre), o in cui facciamo esperienza, ci accorgiamo, della nostra capacità di creare e manipolare simboli e concetti, prima ancora però che questi si siano configurati in quanto tali, ricorrendo alla multimodalità della nostra immaginazione. In altre parole, la nostra capacità di creare e operare con simboli e concetti si basa prima ancora che sulla nostre facoltà analitiche (questo “prima” è problematico e l’autore affronta la questione) sulla nostra capacita di elaborare esteticamente «la pluralità e l’eterogeneità degli stimoli che la nostra sensibilità riceve dal mondo ambiente» (2024, p. 28) e di organizzarli sincreticamente, cioè di montare e smontare, la diversa gamma di input sensibili che ci arriva (sonoro, visivo, ecc.). In questa ottica la lezione di Ėjzenštejn resta insuperabile.

L’interesse di Montani per il digitale va dunque collocato in questa cornice teorica orientata alla comprensione delle ricadute epistemologiche e antropologiche del rapporto tra essere umano e tecnica. E se nei suoi testi precedenti lo sforzo del filosofo si concentrava principalmente sulla messa a punto teorica di tale cornice (Emozioni dell’intelligenza, 2020; Destini tecnologici dell’immaginazione, 2022), in quest’ultimo volume l’autore muove dalle trasformazioni che il digitale determina nella produzione di contenuti. La tesi di Montani è che ci troviamo dinanzi ad una vera e propria svolta sincretica, ovvero che il digitale costituisca una sorta di piattaforma potenziata attraverso cui esercitare proprio il carattere multimodale della nostra immaginazione, determinando «una speciale competenza semiotica riconducibile piuttosto alle pratiche interconnesse della lettura e della scrittura che non a quelle della ricezione e della produzione di immagini» (ivi, p. 15).

Questa precisazione – la nostra operatività con il digitale ha a che fare più con la scrittura e la lettura che con la produzione di immagini – è particolarmente utile per far emergere delle questioni che potremmo definire di “media education”, prospettiva teorica che esula dall’interesse dell’autore, con cui però questo volume sembra poter dialogare in modo proficuo.

Nel primo capitolo, infatti, l’autore affronta uno dei temi più dibattuti nell’ambito della discorsività sulle nuove tecnologie, che potremmo così sintetizzare: è possibile che l’esposizione massiccia ai dispositivi e alle prassi del digitale provochi degli effetti sulle capacità cognitive e immaginative, in particolar modo nei cosiddetti nativi digitali? Utilizzando uno dei primi testi di Vilém Flusser, Montani ci dice che esistono due tipi di forme espressive dell’essere umano: quelle che si basano su un pensiero lineare (cioè tipico della scrittura alfabetica) e quelle che si basano su un pensiero “di superficie” (surface thought), come nel caso delle immagini audiovisive, in cui i diversi elementi possono essere variamente “montati” e dare vita a letture diverse. Secondo Flusser, il cinema tende a far convergere queste due modalità, sebbene il nuovo regime simbolico che ne scaturisce non sia stato ancora pienamente interiorizzato dagli spettatori/utenti, nei quali resta predominante la modalità di lettura e quindi di scrittura lineare. Ed ecco l’aggancio con la svolta sincretica di cui parla Montani: nuove tecnologie potrebbero accelerare questo processo di interiorizzazione e quindi di diffusione della capacità di scrittura sincretica. Anche perché se così non fosse, cioè se ci limitassimo a fare esperienza unicamente passiva della scrittura sincretica, il rischio sarebbe «quello di, usando le parole di Flusser, “condurre a una generalizzata depoliticizzazione, passivizzazione e alienazione dell’umanità, alla vittoria della società dei consumi e al totalitarismo dei mass media”» (ivi, p. 20).

Da questa lettura di Flusser emergono due questioni che sono oggi cruciali nell’ambito di una possibile educazione ai media. La prima, evocata dalla parole di Flusser, riguarda gli effetti sociali delle nuove tecnologie, in cui possiamo sostanzialmente ritrovare tutti gli episodi – e a ciascun lettore possono venirne in mente diversi – in cui i media, da strumento di emancipazione collettivo, si sono trasformati in dispositivi della spettacolarizzazione e quindi passivizzazione dell’utente stesso: dal cyberbullismo al revenge porn, dal ruolo degli influencer alle fake news, l’attualità ci restituisce chiaramente il rischio paventato da Flusser. Ma questo pericolo concreto e reale porta con sé anche il suo esatto opposto, ovvero la possibilità che nuove forme creative e di partecipazione emergano, tanto nella creazione di nuovi software quanto nel loro utilizzo. Il caso oggi più esemplare è sicuramente TikTok. È necessario allora quello che Montani definisce un training adeguato che porti ad applicare le competenze della lettura profonda (seguendo la definizione di Maryanne Wolf) al nuovo regime simbolico delle immagini sincretiche.

Scrive Montani:

Per usare il vocabolario adottato in questo saggio si può dire, in piena sintonia con le tesi di Wolf, che nei tempi lunghi e nella operosa pazienza che questo tipo di lettura comporta la nostra immaginazione procede a un lavoro di integrazione dei singoli elementi del testo che non solo non si conclude nei risultati sintetici di volta in volta acquisiti (si pensi a quanto possa essere diversa la seconda lettura di un grande libro rispetto alla prima) ma si estende sull’intera esperienza del lettore mantenendosi a disposizione per un’infinità di riusi possibili. (2024, p.23)

Montani dà prova di questo esercizio di lettura profonda che le immagini sincretiche possono attivare, in diversi punti del suo volume. Innanzitutto con l’esempio da cui parte, che è particolarmente seducente: in rete circola un meme in cui si vede Chiara Ferragni che rivolgendosi allo specchio di un ascensore brandisce un cellulare e fa il gesto della linguaccia, solo che e al posto del cellulare qualche utente le ha messo in mano il testo di Benjamin sull’opera d’arte o La società dello spettacolo di Debord. Ma si confronta anche con altre immagini sincretiche che reputa esemplari: Questo mondo non mi renderà cattivo di Zerocalcare, The Waste Land di Eliot, alcune opere di Studio Azzurro, tenendo sempre sullo sfondo il cinema di Ėjzenštejn quale referente principale di questo tipo di sincretismo.

La varietà degli esempi che Montani convoca ci dice ancora alcune cose decisive nell’ambito di un possibile teoria per una media education. La prima è che questo tipo di scrittura e lettura dell’immagine trova fondamento nelle forme del cinema delle origini, creando un ponte decisivo tra l’ipercontemporaneità digitale e le prime esperienze cinematografiche. In altre parole, l’educazione ai media contemporanei potrebbe passare per una riscoperta del cinema delle origini, in quanto luogo di sperimentazione sincretica prima che la linearità del cinema narrativo prendesse il sopravvento. La seconda è che l’attivazione di una lettura profonda prescinde da qualsiasi valore artistico dell’oggetto in questione, qualora – dice Montani – questa espressione abbia un senso.

Resta tuttavia ancora un problema, che Montani però non sembra affrontare o che forse per lui non è tale: se è vero che qualsiasi immagine sincretica può attivare il processo di lettura profonda, è vero anche che qualsiasi immagine sincretica può costituire un elemento di quella enciclopedia, per dirla con Eco, necessaria per l’interpretazione di qualsiasi testo e quindi per l’attivazione proprio di quel processo lungo e paziente di lettura profonda? Montani nel suo insuperabile esercizio di interpretazione di questi testi mette in gioco una poderosa enciclopedia mostrando chiaramente come il sincretismo delle immagini e la lettura che ne consegue siano possibili solo grazie a un tale equipaggiamento. E finanche il più contemporaneo e digitalmente sincretico degli artisti che convoca, ovvero Zerocalcare, fonda il proprio mondo su una galassia di riferimenti che appartengono ad epoche mediali passate, da Gramsci a Breaking Bad. Allora la questione è questa: come si costruisce un’enciclopedia al tempo delle stories che durano 24h, dei trend, dei video virali, dello scrolling compulsivo? Una domanda da apocalittica, per un autorevole integrato.

Riferimenti bibliografici
P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007.
Id., Emozioni dell’intelligenza: Un percorso nel sensorio digitale, Meltemi, Milano 2020.
Id., Destini tecnologici dell’immaginazione, Mimesis, Milano-Udine 2022.

Pietro Montani, Immagini sincretiche. Leggere e scrivere in digitale, Meltemi, Milano 2024.

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