“Che sta succedendo ai corpi?” si chiede Walter Siti in C’era una volta il corpo (Feltrinelli, 2024). La domanda nasce dalla constatazione che i corpi umani – come è già successo a quelli animali, almeno quelli che mangiamo e usiamo per compagnia (mucche, pecore, galline e cani e gatti, per non parlare dell’ormai celebre oncotopo di Donna Haraway), sono da tempo dispositivi del tutto artificiali – sono appunto sempre meno corpi “naturali” e sempre più macchine corporee, cioè appunto ibridi tecno-carnali. Il problema che subito si pone – è intorno a questo interrogativo che si muove il libro di Siti – è questo: che cosa significa dire di un corpo che è “naturale”, ammesso che nel passato sia esistito un corpo del genere?
In effetti, continua Siti, «fin dall’inizio della sua storia l’uomo si è reso conto di essere uno degli animali meno dotati per la sopravvivenza, e si può quasi dire che la cultura sia nata per fornirgli una specie di esoscheletro artificiale inteso ad aumentare la sua capacità competitiva: il fuoco, gli abiti, i ripari, le armi, le case e le città». Ecco perché l’uso dell’aggettivo “naturale”, quando si parla degli esseri umani, suona sempre poco appropriato, perché l’umano è sempre stato naturalmente bisognoso di supporti tecnici esterni per svilupparsi e sopravvivere. In questo senso il corpo umano non è mai stato un corpo semplicemente animale, cioè naturale.
D’accordo, siamo questo strano animale ibridato di cultura e tecnologia. Tuttavia, sembra chiedersi Siti, non abbiamo come specie forse superato una soglia decisiva – dove la quantità diventa qualità, come avrebbe detto Engels – oltre la quale il corpo, benché sia sempre stato un corpo naturalmente innaturale (è la formula che usava Giorgio Prodi) – smette di essere propriamente un corpo? «Il corpo che si muove, che agisce, si avvia a scollarsi dall’individuo o dalla comunità di individui per diventare un semplice segno nell’universo della comunicazione». Il corpo perennemente connesso, il corpo imbottito di protesi cerebrali (come quelle che sta sperimentando Neuralink, una delle tante aziende futuristiche di Elon Musk), il corpo virtuale, il corpo puramente digitale dell’Intelligenza artificiale di fatto hanno sempre meno bisogno di un supporto fisico, di un corpo di carne ed ossa; ecco perché allora all’orizzonte (sempre meno lontano, peraltro) si profila un corpo trasformato in «un semplice segno dell’universo della comunicazione». I corpi svaporano nel cloud digitale:
L’altro giorno cercavo una strada in un quartiere a me poco noto; fermo una ragazza (bella, secondo i canoni a cui ancora mi riferisco) e le chiedo se sa dove stia la via tal dei tali: lei mi sorride e risponde “ora cerco sul cellulare” – era la strada accanto a quella dove vive lei, si sente presa in castagna e si scusa, “faccio fatica a geolocalizzarmi nel mondo”. I corpi contemporanei non sanno più di preciso dove si trovano: stanno fisicamente in un luogo ma col cervello e la parola sono proiettati in un altro – basta vederli con cuffie e display, totalmente insensibili al contesto che li circonda. Anche quando viaggiano, il navigatore satellitare li esime dal prendere coscienza del paesaggio. Insieme ai corpi sta scomparendo lo spazio? (pp. 14-15)
Ma se scompare lo spazio scompare anche il tempo, cioè la memoria e l’esperienza, sempre più dispersa e frammentaria, sparpagliata in devices tecnologici, sempre meno narrativa e sempre più episodica. Senza spazio e senza tempo il corpo esplode, si espande e diventa sempre meno corporeo, per trasformarsi in un misterioso «algoritmo vivente». Siti descrive questo scenario senza indulgenze ma anche senza rimpianti, è questo il mondo in cui viviamo, e in cui vivranno questi corpi sempre più ibridati.
In realtà C’era una volta un corpo è anche, e forse soprattutto, una riflessione sull’invecchiamento e la morte. Man mano che il corpo si deteriora, in effetti, è difficile non ripensare a quando, nel tempo felice in cui invece il corpo “funzionava”, quello stesso mondo corporeo, semplice e carnale, sia stato trascurato: «Ora che il mio corpo è in disfacimento (e tanti corpi desiderati ho visto perdersi o morire)» scrive lucidamente Siti
il mio errore [essere sempre stato attratto solo da corpi perfetti] mi appare flagrante: a un certo punto, a un bivio di cui non mi sono accorto, ho imboccato la strada sbagliata – ho dimenticato che i corpi di tutti gli animali (noi compresi) sono fatti per relazionarsi tra loro, per congiungersi e moltiplicarsi, per annusarsi e lottare. I miei corpi desiderati, invece, sono diventati sempre più immaginari, sempre più iperbolici e stereotipi – sempre più statici in realtà, sterili e senza sbocchi. Irreali, in definitiva (p. 13).
Invecchiare, cioè vivere, in fondo non significa altro che accorgersi del corpo e dei corpi, e tutto il resto – cioè il mondo dei corpi immaginari e mentali, dei corpi digitali e virtuali – velocemente perde ogni importanza, perché alla fine è il contatto dei corpi che tiene in vita, e solo quello. Allo stesso tempo, tuttavia, non ha senso opporsi ai nuovi corpi sempre meno corporei del nostro tempo, come abbiamo detto non c’è alcuna nostalgia nel libro di Siti. Rimane lo stupore per un mondo carnale che si è trasformato letteralmente sotto i nostri occhi, ad una velocità che rende davvero difficile comprendere quello che sta succedendo. Ma non capire non significa giudicare: Siti continua a vedere in questo mondo che gli sfugge (ma i giovani sono sempre sfuggiti ai vecchi) un desiderio d’amore che è (stato) anche il suo, che verrà declinato in modo misteriosi ma non per questo non riconoscibile. Non si tratta d’altro che un terribile e potentissimo bisogno di amore, che questo sono, in fondo, i corpi, amore e contatto, pelle e calore, confusione e passione.
I corpi che incontro nel “quadrilatero della moda”, qui a Milano, sono corpi in transizione; non nel senso consueto di transizione di genere, ma perché rappresentano le avanguardie dei corpi che passeggeranno quando io non ci sarò più. Però niente nostalgie conservatrici: più che altro curiosità per il futuro dei corpi nell’epoca della loro riproducibilità tecnica. […]. Il sesso sarà sempre più online, le differenze genitali avranno sempre meno importanza culturale, l’allungamento della vita fino a centocinquant’anni e la buona salute tecnologicamente garantita consentiranno esperimenti audaci; muterà il rapporto tra principio di piacere e principio di prestazione, tra i corpi vivi e i morti sarà difficile distinguere grazie all’intelligenza artificiale. Saranno corpi fragili a furia di contrastare la fragilità, corpi per buona parte inutili alla riproduzione della specie; lo smart working li avrà disabituati allo spazio, anche la realtà circostante sarà virtuale come il fine a cui tenderà il loro fisico. Eccoli in quattro su una scalinata: le due ragazze in minigonna nera e calze a rete, cosce forti, salendo misurano con gli occhi la meta – i due ragazzi con le unghie dipinte e gli orecchini, il torace depilato, si sporgono come una bandiera che trema. Ecco la nuova specie: i loro corpi saranno gli involucri in apparenza tradizionali di un sistema culturale sempre più in affanno, in un mondo che si sarà rassegnato a essere bersagliato da segni che non capisce; le voci che udranno durante il lavoro o l’intrattenimento saranno in maggioranza voci sintetiche. Corpi che comunque non potranno fare a meno di desiderarsi, e magari di amarsi (pp.136-137).
Contro tutti quelli che in questi “nuovi” corpi riescono solo a vedere la negazione di quello che i corpi erano prima – secondo l’eterna lamentela di quant’era bello il mondo quando non c’erano internet, gli smartphone, i social e il mondo virtuale – ebbene il corpo di Siti non riesce a non vedere che questi corpi, «comunque non potranno fare a meno di desiderarsi, e magari di amarsi». Perché se ci sono corpi allora c’è desiderio di contatto e quindi amore. Anche un corpo completamente digitalizzato, benché in un modo che ora non riusciamo a immaginare, se sarà comunque in qualche modo e ancora un corpo, allora quel corpo inimmaginabile non potrà fare a meno di desiderare, e pertanto di amare.
C’era una volta il corpo non è la storia dei corpi che c’erano una volta, quelli della gioventù di Siti, è piuttosto la storia ancora tutta da inventare dei desideri e degli amori dei “nuovi” corpi, sempre più connessi, sempre meno individuali: «Per il corpo è finita l’epoca dell’arrogante e sciovinistica autonomia, contro ogni apparenza il narcisismo non è che un riflesso sull’acqua; non si tratta di uscire da sé stessi ma di riconoscersi umili frammenti di più vasti aggregati». Per questo, infine, scrive Siti nell’Epilogo. Speranze dei corpi in primavera, «non credetemi quando parlo di corpi». Ecco cos’è questo libro, una lunga appassionata dichiarazione d’amore al corpo e ai corpi, al corpo che non c’è più, ma che non smette ostinatamente di desiderare. Un corpo che quindi continua ad esserci.
Walter Siti, C’era una volta il corpo, Feltrinelli, Milano 2024 [ebook].