Morto Stalin, se ne fa un altro di Armando Iannucci si apre con l’esecuzione, la sera del 28 febbraio 1953, del concerto n. 23 di Mozart per pianoforte e orchestra da parte della pianista dissidente Maria Yudina (Olga Kurylenko). Nella cabina di registrazione (si fa per dire registrazione, perché nessuno in realtà sta registrando!) arriva la telefonata del Segretario Generale dell’Unione Sovietica Joseph Stalin che chiede di essere richiamato dopo 17 secondi esatti, provocando l’immediata ansia in uno dei due operatori – trattata con l’irresistibile tono parodico che caratterizza l’intero film. Dopo un lasso di tempo di attesa che gli appare infinito, l’operatore solleva nuovamente la cornetta e riceve l’ordine di consegnare una copia del concerto nelle mani degli uomini di Stalin, la sera stessa. Non c’è un attimo da perdere: la registrazione non c’è e il concerto va eseguito una seconda volta trattenendo musicisti e pubblico così da rimediare al fatale errore. È dunque con una vera e propria messa in scena teatrale che si apre il film, una realtà riprodotta che pretende di essere autentica in ogni minimo dettaglio ma che fallirà sempre nel profondo, amaramente ironica nella sua secondità.

Armando Iannucci, scozzese figlio di un pizzaiolo napoletano trapiantato a Glasgow, non è nuovo alla black comedy, e la sua affilata satira politica ha conquistato Stati Uniti e Regno Unito. Con questo film sceglie di ispirarsi ad una graphic novel francese scritta da Fabien Nury e disegnata da Thierry Robin (edita in Italia da Mondadori). Della graphic novel riprende i colori da espressionismo tedesco, i campi lunghi cromaticamente contrastati, i titoli delle diverse sezioni sotto forma di articoli del codice d’emergenza dell’US, le presentazioni “sottotitolate” e in slow-motion (quasi delle vere vignette) dei personaggi principali, l’atmosfera grottesca di un giallo tragicomico che mira a “snervare” lo spettatore con uno stile indiscreto e un ritmo decisamente incalzante.

Perno della narrazione, l’ictus del “gran vecchio” e la sua morte nella notte del 2 marzo, che apre un vaso di Pandora di 72 ore in cui è lotta senza quartiere tra i suoi più stretti collaboratori membri del Comitato Centrale PCUS, tutte performances attoriali magnifiche: Steve Buscemi nei panni dello scaltro e inaspettato “vincitore sul ring” Kruscev, Jeffrey Tambor in quelli dell’inetto ed effemminato vice Malenkov, Michael Palin (in cui risuona l’umorismo Monty Python) nei panni del fedele Molotov, Simon Russell Beale (vincitore di un British Film Award) in quelli del volgare e calcolatore Berija e infine Jason Isaacs in quelli dell’irruento e vanitoso generale Zhukov. «Come fai a correre e a cospirare contemporaneamente?» chiede Molotov a Kruscev poco dopo il decesso: dall’ultimo sospiro del corpo esanime di Stalin è tutta una corsa all’arrembaggio, un puzzle che non vedeva l’ora di distruggersi e ricostruirsi attorno ad un vessillo che, ridotto a muta icona, è finalmente innocuo. Ma se la fonte del fumetto ha una sua rilevanza stilistica nel film, è il teatro – soprattutto quello dell’assurdo, vista l’esilarante oscillazione tra una realtà inconcepibile e una finzione che cerca a tutti i costi di starle verosimilmente dietro – che nutre l’opera di Iannucci dalla prima all’ultima scena.

Ipotizzando di poter scorporare l’espressione di messa in scena, potremmo dire che questo film incarna molto più la messa in che la scena portata a compimento sulla ribalta. Quasi come se il regista avesse bisogno di manifestare i suoi contenuti in una forma grezza, nel passaggio dalle quinte alla ribalta di un palcoscenico: è la seconda ad essere buona, poiché la prima appartiene ad una realtà celata che necessita un controllo prima di uscire. A prendersi gli applausi è una realtà ormai artificiosa e a volte suo malgrado disautenticata. Questa perenne doppia copia della realtà è evidente in molti momenti della pellicola (oltre a quello già citato in esergo): Kruscev che ogni sera tornato a casa detta alla moglie le battute fatte a Stalin durante il giorno aggiungendo in appendice le risate che queste hanno suscitato, così che la volta successiva (la seconda volta) usi quelle che hanno funzionato ed eviti quelle che l’hanno irritato; la lunga riunione del Comitato Centrale nel corso della quale, nel dividersi le mansioni post mortem, l’unanimità viene raggiunta sempre in seconda battuta, dopo che si sono convinti con strategie retoriche gli iniziali astenuti e oppositori tirandogli su uno ad uno, a fatica, la mano, durante la seconda votazione; Berija che propone a Malenkov di replicare, ora che è passato al comando in qualità di vice, la foto che ritraeva Stalin al fianco di una bambina bionda all’inizio del suo operato, così che si dia al popolo un messaggio di continuità con il passato e al contempo uno sguardo rivolto al futuro; Berija che decide di aprire il sipario della realtà nascosta facendo ri-apparire sulla scena Polina Molotova, per anni prigioniera e ripudiata persino dal marito ben più fedele al volere del capo che alla coniuge; Stalin che, dopo esser stato dato per spacciato dai medici (scarsi, troppo vecchi o troppo giovani, perché i migliori sono stati mandati nei gulag per paura che lo avvelenassero), miracolosamente si riprende per qualche minuto donando a tutti i (fintamente) contriti una seconda possibilità di avere tra loro di nuovo la propria guida.

Ma questa farsa della “seconda realtà” non regge mai, rimane sempre e solo un goffo tentativo di destreggiarsi nella precarietà che caratterizza il vertiginoso vuoto che nell’arco di tre giorni tutti sfidano a colmare. Se la dittatura è irrazionalità opposta al raziocinio della scienza, nessuna seconda realtà costruita a tavolino riuscirà a scalfire le dinamiche del potere, così che in questa sorta di danse macabre – un po’ come quella che fanno i protagonisti intorno al feretro – tutto rimanga in sospeso solo per risolversi sul finale, in una nuova presa autoritaria di potere che ha cavalcato sulle strategie senza preoccuparsi di aggirarle. Quando Berija decide di bloccare la frontiera di Mosca il giorno del gran funerale, sottendendo a questo gesto un arguto ragionamento, Kruscev risponde con l’ordine, totalmente irrazionale e che lui stesso non sa giustificare all’alleato del momento Zhukov, di far ripartire i treni. Ma è questo ordine, unica decisione non premeditata e non simulata dietro le quinte, ad avere la meglio e a dare inizio all’ascesa di Nikita verso la vetta.

Nel celebre film di Ėjzenštejn dedicato alla rivoluzione bolscevica, Ottobre (1928), si ripete un sottotitolo – slogan prontamente sfatato dalla storia – “lunga vita al governo provvisorio”. In questo ossimoro quasi divertente è contenuta tutta la farraginosità della situazione politica intermedia, d’eccezione, spesso risolta con un colpo di stato; quell’intervallo spazio-temporale che i traduttori italiani del titolo hanno voluto rendere con in puntini sospensivi: “Morto Stalin se ne fa un…”. In una realtà di cartapesta popolata di marionette – chiara denuncia della deriva politica contemporanea – in cui ci si illude di essere attori di “cinema a colori” per un giorno, indossando un corsetto o truccandosi alla Clark Gable, in cui ai genitori di una ragazza stuprata viene dato in dono un mazzo di fiori e un moribondo viene abbandonato una notte intera dietro ad una porta che per etichetta non si può aprire, l’unico sfondamento del muro è dato da un’azione decisa, schietta, istintiva, forse anche incoerente (quella di Kruscev). O, in alternativa, non resta che rifugiarsi in una seconda realtà priva di sostanza terrena, come quella del giovane figlio di Stalin (Rupert Friend), che spara come un cowboy folle e che da piccolo irrompeva nello studio del padre a cavallo di un maiale. Tutti gli altri, alla fine dei conti, devono arrendersi all’idea che la seconda esecuzione del concerto non eguaglierà mai la prima e non ingannerà mai il prossimo. In poche parole, che resta buona la prima.

Riferimenti bibliografici
F. Nury, T. Robin, La morte di Stalin, Mondadori Comics, Milano 2016. 

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