Scattiamo e condividiamo foto di tutto, di piccoli eventi quotidiani come andare al ristorante, o di più significativi eventi rituali come compleanni, di momenti in solitudine o di partecipazione collettiva. Cosa raccontano delle nostre vite? Che cosa sono le vite così raccontate? E, più radicalmente, che cos’è una vita da raccontare?

Per un certo periodo, vivere ha significato soprattutto agire. L’azione, di cui fa parte l’atto di parola, è la trasformazione con gli altri del mondo. E in buona sostanza, come ben sapeva Aristotele, ripreso dalla Arendt di The Human Condition, le azioni lasciano traccia solo nelle storie che le raccontano. Esiste dunque un nesso profondo tra vita pratica e storie, tra intrecci e azione. Quando in gioco dunque è la vita di un individuo, questa coincide con la sua storia. Con quella che gli altri gli riconsegnano, ma anche con quella che lui stesso riconsegna di sé. Tra le forme d’azione più incerte, potente e labili allo stesso tempo, c’è l’amore, il cui racconto si fa spesso storia, “storia d’amore”. Da dove l’espressione “ho avuto una storia”, con la quale si impone una logica narrativa e una sintesi a qualcosa che in fondo non ne ha. Si identificano date d’inizio e fine, così come quelle dei momenti rilevanti, come i tanti ipotetici punti fermi intorno a cui la storia si sarebbe sviluppata: inizi illusoriamente mitici e fini drammaticamente dolenti.

Ma è veramente così? La logica narrativa non è forse una proiezione sul caos del vissuto nel tentativo di controllarlo? Anche e proprio quando i nostri sentimenti sono in gioco, sappiamo che la logica dei punti fermi, delle azioni imputabili, delle responsabilità assunte, diventa complicata. Molto spesso si rivela vano tentativo di contenimento delle forze che attraversano un soggetto e che insieme ad altre definiscono la vita più come un campo di intensità che come composto di identità.

Insomma, fare della vita una storia raccontata è il tentativo di imporre «una forma (d’espressione) ad una materia vissuta» (Deleuze 1996, p. 13). Fare della vita una storia, tenendo conto che ogni racconto ha sempre dei codici, melodrammatici o commedici, significa proiettare un destino sul caos della vita stessa. Questo destino può prendere due forme. Una come intreccio, concatenamento di azioni “imitate”, del quale il personaggio è una risultante; un’altra come carattere irriducibile ad ogni intreccio, ma sempre disponibile ad imitare se stesso, ripetendosi.

Nel primo caso, la vita come concatenamento di azioni lascia fuori tutto ciò che questa prassi non include, anche percezioni e sentimenti che la determinano e la eccedono. Nel secondo caso, la vita si cristallizza in un modo d’essere che si fa carattere, che ripete se stesso, e che sottrae l’azione al suo tratto innovativo. Il personaggio e la maschera identificano rispettivamente due modi necessari di dar forma alla vita, di scriverla di fatto eludendola. L’azione e il carattere (Benjamin li ha chiamati «il destino e il carattere»), la prassi e l’essere: distinti ma non del tutto. Ciò che si fa e ciò che si è. Pragmatica ed ontologia: entrambe definiscono una vita, senza sovrapporsi né coincidervi.

Personaggio e maschera individuano modi di racconto della vita stessa. Il personaggio si sviluppa all’incrocio tra soggetto e mondo attraverso la mediazione dell’azione. La prassi in questo caso è sovrana e il personaggio, identificato dal nome proprio, ne deriva. Il cinema americano (e la tradizione del Pragmatism) ci dà molti esempi di questo: le vite degli uomini divenuti pubblici per scelta (da JFK a Lincoln a J. Edgar) o per caso (Richard Jewell) e il cui destino è legato ad accadimenti eccezionali, a battaglie politiche o a condizioni esistenziali.

La maschera esclude invece il mondo introiettandolo, trasformando l’azione in atto. Ed esprime la natura del soggetto, il marchio del suo carattere. Qui il nome proprio si fa nome comune e identifica la maschera come precipitato anche di un giudizio morale, come in molti film italiani: Il divo, Il caimano, Loro. Il potere generalizzante della maschera racconta la vita come incarnazione del vizio, come sentimento comune che attraversa l’intera società, determinando la decadenza del costume. Tra personaggio e maschera, azione ed atto, prassi e carattere, sembra giocarsi dunque il racconto di una vita. Racconto che però dà forma alla vita eludendola. Raccontare la vita è un gesto allo stesso tempo formativo ed escludente.

Allora forse c’è qualcosa d’altro, qualcosa come una vita impersonale da raccontare, che attraversa ogni biografia. Come nel Pierrot le fou di Godard, dove in gioco è la possibilità di raccontare “non più la vita della gente. Ma soltanto la vita, la vita da sola. Quella che c’è tra la gente: lo spazio, il suono, i colori”. La vita tra i personaggi, a cui faceva riferimento il regista europeo incontrando il produttore americano nel finale de Lo stato delle cose di Wenders, è sufficiente a tener in piedi un film e forse a definire il senso stesso del nostro stare al mondo.

Cos’è questa vita-tra? Questo qualcosa tra la natura (il carattere) e la storia (il personaggio)? Qualcosa che attraversa l’azione senza convertirvisi. Deleuze aggiungeva: «Scrivere è una questione di divenire, sempre incompiuto, sempre in fieri […]. È un processo, ossia un passaggio di Vita che attraversa il vivibile e il vissuto» (ibidem). La vita si colloca allora nell’intervallo, nel tra, perché in questo accade che il soggetto diviene e sente le proprie facoltà di vivere, di parlare, di amare, come non-coincidenti con il suo vissuto, il suo atto di parola, il suo gesto d’amore. La vita è il termine che identifica questa non-coincidenza.

Nessuno meglio di Virginia Woolf ha detto tutto questo: «La vita non è una serie di mattoncini disposti in ordine simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine» (Woolf 2011, p. 192). Eppure quei mattoncini ci sono, sia pur instabili, e sempre sul punto di crollare. E in quel crollo aprono da un lato un’opportunità, quella di incontrare la vita, e dall’altro evitano un rischio, quello di sequestrarla in un muro.

Quei mattoncini evitano però anche un altro rischio, questa volta opposto, quello di far affondare la vita in un caos informe, in una luminosità che non darebbe possibilità di vedere le cose, in una intensità troppo forte che non si lascerebbe né percepire né pensare. Allora, quale strada possibile? Come sempre sarà il rapporto tra le forme e le forze a guidarci.

Nel racconto di una vita possiamo avere il biografico ridotto a luogo comune, cliché condiviso, edificazione di un invisibile “muro”, dove la forma è tesa al controllo; e un altro dove la scrittura è orientata non a controllare ma a captare le forze, a lasciarsi attraversare, e a iscriversi in un movimento espressivo per cui far percepire dietro la vita di ognuno di noi la potenza di una vita in comune.

Questo secondo aspetto emerge soprattutto quando la vita di qualcuno è raccontata non dall’inizio alla fine, ma sotto un qualche aspetto, partendo da una situazione contingente e singolare. Un esempio di questo è l’incontro dell’amore e della poesia nell’intenso Bright Star di Jane Campion sulla vita (e la morte) di John Keats, a partire dal quale ci viene riconsegnata una immagine universale della vita umana nella sua intensità e caducità. È solo nella singolarità aperta che emerge l’universale, la pretesa del compiuto e del racconto di una vita “finita” si riduce quasi sempre alla generalità del cliché.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Destino e carattere, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014.
G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996.
V. Woolf, Voltando Pagina. Saggi 1904-1941, Il Saggiatore, Milano 2011.

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