“No, non è l’immagine”, dice Bill Viola in una intervista (The Tone of Being, 2011), quello che conta, “per me, più che l’immagine, è la combinazione di suono e immagine”. In questo senso anche “i miei pezzi silenziosi hanno un qualche tipo di suono”. Né lo spazio né il tempo, quindi non l’immagine isolata, ma nemmeno l’immagine in movimento; tuttavia, e forse questo è meno scontato, neanche il suono senza immagine. Come se anche la musica, da sola, non fosse abbastanza mobile e vitale, non fosse sufficientemente “artistica”. La combinazione, questo cerca il videoartista Bill Viola. Ma che cos’è, propriamente, una combinazione? E perché è così importante? Perché, intanto, la combinazione non ci lascia fuori, ci coinvolge, perché mentre l’immagine sembra starsene lì, davanti al nostro sguardo, la combinazione invece ci trascina, anche se siamo fermi, anche se siamo rinchiusi in casa. La combinazione si muove e ci muove, come le teste e i piedi che risuonano al ritmo della musica che vediamo arrivare dal palco di un concerto.

In questo senso la “combinazione” che cerca Bill Viola non è tanto una categoria estetica, è piuttosto una combinazione vitale, è il movimento stesso della vita che si combina con noi. Si tratta, cioè, di un movimento che non ci limitiamo a vedere, bensì di un movimento che ci muove con esso, anche se noi che l’osserviamo non smettiamo, apparentemente, di rimanere fermi. La differenza rispetto ad un film (ammesso che ci sia differenza), è che nel caso della videoarte la sorpresa del movimento è maggiore, perché il pregiudizio museale e cinematografico ci porterebbe ad aspettarci di vedere qualcosa, una statua, un dipinto o un film, mentre qui non si tratta di vedere quanto di entrare in “combinazione” con quanto stiamo vedendo. Quindi non si tratta, in definitiva, di assistere. Siamo piuttosto in presenza di un movimento visuale che non vuole farsi vedere bensì vivere, che ci chiama a sé, che ci spinge fuori.

Da notare che questa operazione non si basa su un inconscio processo mimetico, cioè su una sorta di contagio emotivo da parte dell’osservatore che si abbandonerebbe a quanto viene mostrato allo sguardo corporeo. Per capirci, non sono in questione i neuroni specchio, al contrario, questa “combinazione” vitale è resa possibile solo dall’interruzione che il mezzo tecnico introduce nell’altrimenti anonimo e monotono flusso vitale:

Una videocamera produce continuamente immagini, tutto il giorno. E poi vai in banca, dove c’è una videocamera sul muro, che ha continuato a riprendere immagini per forse dieci o quindici, venti anni, sempre. È come l’occhio che non si chiude mai, vede sempre. Quindi il compito dell’arte è di interrompere l’occhio, interrompere quel movimento, prendere da esso quello che vogliamo toccare. La ragione per cui le mie opere video sono così collegate alle emozioni è perché non si può mai catturare tutto. C’è una specie di pathos automatico nel video, in tutte le immagini. La gente si chiede: “Che cosa fa una camera? Beh. una camera ferma il tempo. Congela il momento”. Ho sentito tante volte questa espressione, ferma il tempo, congela il momento. Non lo fa assolutamente. Significa fraintendere completamente la fotografia, il video, il film. Quello che fa è catturare la luce e il suono. Ma il tempo continua ad andare avanti (Valentini 2020).

L’espediente tecnico non solo non interrompe un’emozione, al contrario, la rende possibile. In effetti il video ci fa vedere quello che normalmente non vediamo, e che anzi non immaginiamo nemmeno esista, cioè il movimento della vita, la temporalità combinatoria – e quindi paradossalmente artificiale – dell’esperienza della vita, non della vita stessa. La vita la viviamo, e proprio per questo non abbiamo idea della vita – «la vita senza un minimo di montaggio non sembra avere alcun interesse» (ivi, p. 49). Il video serve, al contrario, a rendere visibile la vita che viviamo, a farci partecipare del movimento della vita. Il video, in sostanza, ci combina con la vita che già viviamo, ma di cui proprio per questa stessa ragione – perché coincidiamo con essa – non facciamo mai esperienza.

Si capisce, allora, perché Bill Viola parli di “combinazione”. Non gli interessa mostrare qualcosa, tantomeno farlo vedere o ascoltare, bensì gli interessa che ci combiniamo, attraverso i suoi video, con quello con cui siamo già combinati, ma senza saperlo, in fondo senza nemmeno volerlo. Perché a nessuno piace sapere di star vivendo, perché una volta che lo sai scopri anche che prima o poi smetterai di farlo: «Quando ho assistito alla nascita del mio primo figlio, non ero pronto ad affrontare la cruda fisicità e la grande forza spirituale che l’evento conteneva. Vedevo la mortalità prendere forma sotto i miei occhi. Nostro figlio era appena nato e io vedevo la morte entrare nel mondo. Era la stessa cosa» (ivi, p. 227).

Si tratta allora di stare dentro la temporalità della vita, e quindi dentro la morte, in un modo tuttavia non mortifero. Oppure “abitare” la morte in un modo vitale. In definitiva riuscire a vedere la vita, senza lasciarla morire nella consapevolezza della vita. Per questo i video di Bill Viola non vogliono essere visti, che in fondo non è che un modo confortevole per allontanarli da sé, piuttosto bisogna attraversarli e farsene attraversare, permettere l’esperienza della “combinazione”:

Mi aspetto che il visitatore cerchi il significato e il mistero. L’idea di un viaggio è importante anche in relazione al senso del movimento. Spero che le persone riconoscano di aver attraversato un paesaggio molto interessante, ma anche che non ci sarà mai una vera conclusione, che quello che creiamo è senza fine, perché la mia maniera di lavorare si sviluppa fino a un certo punto e poi torna indietro, e non si completa mai in alcuna direzione. È la dimensione dell’aperto (ivi, p. 287).

Questo è il punto, la questione fondamentale “dell’aperto”. La videoarte di Bill Viola ha a che fare essenzialmente con questa dimensione, che in realtà non è affatto una dimensione ma semmai lo spazio indeterminato all’interno del quale possono articolarsi le nostre “consuete” dimensioni (sopra e sotto, destra e sinistra, prima e dopo), l’aperto. La videoarte, ma vale per l’arte in genere, è l’aperto che si apre e che non smette di aprirsi di fronte al nostro sguardo. Un aperto che porta fuori, verso la vita appunto, ma anche verso l’interno, che però non è che un esterno rovesciato, e viceversa. Per questa ragione la questione della “combinazione” è così importante, perché l’aperto non è altro che lo spazio-tempo dove si possono realizzare le “combinazioni”. Per questa ragione Bill Viola può sostenere, e senza nessuna ipocrisia:

I miei video non mi appartengono. Sono qualcosa che mi attraversano, come un dono ricevuto dall’esterno, arrivano e poi continuano a spostarsi. Questi lavori si muovono verso di te, verso ciò che sei tu; e quello che sei viene verso di me, io posso sentirlo e questo tipo di passaggio di cose in continuo movimento e in continuo flusso rappresenta davvero l’essenza di ciò che siamo (ivi, p. 293).

I video sono finestre sul mondo, ma il mondo non è che un’indefinita finestra, uno spazio topologico, quindi appunto non segnato da confini ma solo da trasformazioni continue, un transito. I video non portano da dentro a fuori, al contrario, i video di Bill Viola sono un modo per sostare nell’indistinzione fra dentro e fuori: si tratta quindi di trovare un modo di evocare l’aperto, di metterlo, letteralmente, in movimento, affinché questo movimento porti con sé quello che un tempo era definito lo spettatore. La video arte di Bill Viola è allora l’arte del movimento da fermo, l’immagine-montaggio che costruisce artificialmente un mondo perché «la contemplazione comincia dopo, nella cabina di montaggio» (ivi, p. 252).

Perché fuori c’è il mondo, un mondo che per quanti sforzi facciamo non riusciamo a delimitare e rinchiudere. Un’arte della combinazione è proprio un’arte dell’aperto, un aperto che continua ad aprirsi, e a tirarci fuori. Sono sempre troppo strette, anguste, le nostre stanze e le nostre parole. Fuori c’è il mondo.

Una volta iniziai a usare la camera in posizione fissa e abbandonai le idee preconcette su quello che volevo fare e su come volevo che questo video fosse; nello specifico, è ciò che avviene nel video Chott el-Djerid (1979), sebbene sia presente anche in altre opere. Mi resi conto che quando accendevo la telecamera e la lasciavo lì senza nessun altro intervento, creavo un campo dell’essere che in questo sistema tecnologico artificiale era una metafora del campo dell’essere stesso. Cosicché le cose che mi interessavano diventarono sempre più strettamente connesse con concezioni e idee ontologiche. Cominciai a lavorare con qualcosa che chiamo “essere puro”, nel senso di fondamentale. È il momento in cui si accende la telecamera e uno non fa nulla; si rimane completamente fermi, oppure si registra un oggetto che di per sé non ha nessuna possibilità di movimento; anche se non c’è nessun movimento nell’immagine che la camera sta vedendo o registrando in un preciso momento, si può ancora avere l’esperienza del passaggio del tempo o della durata: lì c’è uno stato dell’essere. Questo è stato anche il motivo che mi ha spinto a lavorare con gli animali che vivevano in un enorme spazio aperto e rimanevano lì immobili in un posto fisso (ivi, p. 199).

V. Valentini, Bill Viola, Testi e conversazioni 1976 – 2014, Sciami Edizioni, Teramo 2020.

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