Se è vero, secondo Bachtin, che «la letteratura è parte inscindibile della cultura e non può essere capita fuori dal contesto totale di tutta la cultura di una data epoca», sfuggendo così all’«angusto senso della specificità del fenomeno letterario», allora Bianco di Bret Easton Ellis rappresenta la declinazione odierna di questo assunto, in un duplice senso: da una parte uscendo dallo speciale letterario e abbracciando anche cinema, musica, politica, comunicazione, ecc.; d’altro canto – attraverso il tono assunto dallo scrittore, la propria traboccante, centripeta soggettività – risultando lo specchio (perfetto, spudorato) di questa cultura (cioè la sua deriva) l’indice di un atteggiamento artatamente cinico, narcisistico, aggressivo.
Del resto l’aggressività, la violenza dell’assunto e dell’espressione artistica sono un obiettivo dichiarato dall’autore (o almeno adottato, inoculato nelle pieghe della narrazione), già a partire dal suo primo romanzo, Meno di zero, e che ora in questo Bianco, sovrapponendo saggio e autobiografia, si dispiega in tutto il suo autocompiacimento, si riduce a posa, ostentazione di perspicacia (da una posizione privilegiata), di un ghigno che oramai ha perso di efficacia spegnendosi in una risata ebete, e che è lo stesso dei cosiddetti trolls e degli haters che impazzano sui social media e di cui Ellis si pone orgogliosamente quale campione, rivendicando la legittimità dell’opinione caustica, sprezzante, se non violenta, proprio mentre denuncia l’iniquità dei social media, della loro democraticità in base alla quale tutti possono scrivere, appunto esprimere la propria opinione.
Ma se esiste una tendenza della comunicazione su queste piattaforme (che poi sarebbe la comunicazione tout court), comprovata, condivisa dagli analisti più disparati, mi sembra sia quella dell’odio a priori, dell’aggressività (sgrammaticata e furente, o semplice freddura snob, in base al grado di alfabetizzazione dello scrivente), che Ellis tende a mistificare, a negare esecrando quello che per lui è l’atteggiamento diffuso sul social: quello acquiescente, democratico.
Un discorso, quello di Ellis – peraltro abbastanza attendibile quando denuncia l’ipocrisia di certa sinistra dotata di lauti conti in banca, sulla scorta dei quali s’indigna dei soprusi, delle discriminazioni, delle sperequazioni – dietro cui c’è la sua idea di mondo e di letteratura: una vera e propria ideologia formatasi già a partire dagli anni settanta, guardando i film dell’orrore; un apprendistato che l’ha fortificato (abituato alla violenza), l’ha tratto fuori dall’infanzia conferendogli il senso di aggressività, refrattarietà, o di impassibile ostilità che presiede all’esperienza.
Il problema adesso è che questa ostilità non è più impassibile – qualcosa di flaubertiano, che magari lavori alla cristallizzazione, pietrificazione dei significanti – ma compiaciuta, innestata nel compiacimento dello scrittore, pervasa dal piacere di esporsi, contemplarsi così vanificandosi nel rigurgito di giovanilismo di un Bret Easton Ellis che si racconta mentre si sregolava tra cinismo cool, alcol, sesso occasionale, psicofarmaci, droghe.
Non è la materia del discorso il problema (anzi non vedo cosa potrebbe esserci di più congruente e urgente di una fenomenologia del dérèglement, di un episteme delle benzodiazepine quale condizione dell’essere, quale pura, nuda reazione allo stato delle cose), quanto il narcisismo di fondo, la vanagloria del “maledetto”, del soggetto in estasi d’io-maudit che si rimira nel racconto estetizzato di questa esperienza di consunzione (il canto, il vanto delle mistioni d’alcol e diazepam, sesso e cocaina), eliminandovi ogni correlativo oggettivo, ogni emersione di oggetti, di rudi panorami germinanti, sibilanti di se stessi, della loro stessa ottusità, oscurità (comprendendo così anche quella derelizione individuale), che sono quelli che conferiscono neutralità, serietà (scrive Ellis a proposito di David Foster Wallace: «La sincerità e la serietà che aveva iniziato a spacciare sembravano ad alcuni di noi un espediente»), quindi poesia alle vicende.
Ecco, Bianco manca di serietà, unico antidoto contro la violenza fascistoide, il riso ebete degli snob, la seriosità dogmatica, da papaboys, della sinistra sui social: manca cioè di quel neutrale (il neutro di Roland Barthes non è molto lontano) esporsi del mondo e della lettera, la quale si cristallizza ora in ruvidità di cosa, ora nel suo dolore, ora nel disarmato crepuscolo dell’essere: manca la taciuta, introiettata durezza del mondo, in modo che covi dentro lo scrittore come una malattia, e imploda, squassi l’io, lo devasti emergendo in quanto renitente episteme delle benzodiazepine, qui invece, in Bianco, declamato, sciorinato, e così involontariamente scimmiottato, al di là degli oggetti e del farsi cosa della parola.
È quella politica della letteratura di cui dà conto Rancière proprio partendo dal posizionamento a sinistra di Sartre nel momento in cui coglie l’esito a suo dire aristocratico della scrittura di Flaubert che si pietrifica, si cristallizza in oggetto (in significante a se stante) al di là dei significati, al di là dei significati democratici: quello che resta, dipartiti i significati, è il serio, urlante presentificarsi del mondo e la reazione etica, estetica, erotica del soggetto a quest’urlo, a quest’urto. Ed Ellis cercando di fare politica con la sua letteratura, andando al di là di certe semplificazioni, grettezze progressiste, deroga da quel neutro, quell’ipostasi flaubertiana, congegno a cristalli, a pietrificazione del senso, dei sensi, ravvisabile anche in alcune sue pagine, soprattutto in Meno di zero, spostandosi verso un soggettivismo infantile (proprio mentre critica aspramente l’infantilità e il narcisismo della “Generazione Inetti”, i cosiddetti millennial): uno snobismo da giovane ragazzo capriccioso che vanifica e rende imbarazzanti le sue rivendicazioni di libertà di espressione e opinione.
Quello di Ellis allora è un «nichilismo griffato», come lo definiva Wallace, che si spiega all’insegna della sfrontatezza, del ricorso ossessivo al pronome personale “io”, all’aggettivo possessivo “mio”, ai verbi declinati alla prima persona, nel contesto di innumerevoli cene e aperitivi nei ristoranti e nei bar più alla moda di Manhattan o di Los Angeles, in cui mettere al bando ogni residuo di serietà (di apertura politica e poetica offerta sempre dal neutro, dell’emersione del mondo, duro e luminoso, mentre si trasla nella parola-pietra), in nome della provocazione, della freddura in cui si specchia ed esorbita l’io annichilente ad arte, lì come nella dimensione virtuale dei social media, come se le parole (per lo più corrosive) non avessero un peso, tanto più all’interno della babele, della continua tenzone d’io frustrati, che è la comunicazione oggi.
Riferimenti bibliografici
B.E. Ellis, Bianco, Einaudi, Torino 2019.